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Ricchezza e povertà della parola: il De Magistro

Ma io ricerco proprio quel qualcosa di identico, che non so cosa sia, significato da questi due segni.

De Magistro, 2.4.1

1. Identità e differenza

Il problema della relazione tra linguaggio ed essere si lascia studiare anche attraverso la considerazione del tema dello stile. Un avvenimento, una storia, possono essere raccontati in molteplici modi senza perciò cambiare il senso di quanto viene detto. Lo stile può essere definito nei termini di differenza e di variazione linguistica costruita a partire da un’unità e un nucleo di senso riconoscibili. Dicendo però che le diverse espressioni fanno tutte riferimento ad un significato ad esse comune e identico, non si elimina la domanda legittima che riguarda il modo in cui tali espressioni si differenziano tra loro, ossia la domanda che riguarda il modo in cui la differenza si significa. Se i diversi modi di dire mostrano tutti la stessa cosa, sono cioè tutti espressioni di un’identità, dove si mostra il significato della loro differenza? Che cosa, cioè, motiva la possibilità del differire tra loro se hanno tutte un unico riferimento ed un unico significato? In Aristotele la risposta a questa domanda è formulata facendo riferimento all’aspetto della sinonimia secondo cui parole che hanno lo stesso significato sono però diverse tra loro. Dunque, per estensione, noi potremmo e dovremmo parlare di stile in termini di espressioni sinonimiche.

Il problema della differenza è così anche quello di come siano possibili dei sinonimi (e più in generale, di come siano possibili le traduzioni). Il come sia possibile l’omonimia sembra porre meno problemi (un unico segno indicante più cose), ed è per questo ch’essa può forse insegnarci

1 Ego autem id nescio quid unum, quod his duobus signis significatur, inquino. I segni di cui è questione sono le

come risolvere il problema di quella differenza aperta dai sinonimi. L’omonimia mostra che il linguaggio è l’altro dall’essere. Il linguaggio dell’uomo, quello con cui le cose sono chiamate e ricevono un nome, è l’altro dall’essere perchè precisamente non è la cosa. Esso è il luogo e lo strumento per cui le cose possono essere richiamate alla mente ed essere presenti e riconoscibili. Il linguaggio suppone una differenza continua e una continua distanza, perchè è la cosa nella forma della non cosa, è l’essere nella forma del nome. E tuttavia esso è l’unico modo attraverso cui le cose sono, e l’unico modo attraverso cui l’essere è, come significato. Perciò, il linguaggio è per noi definibile nei termini di quel non-essere che ci è necessario per accedere all’essere.2

Questi problemi li ritrovano formulati nel De Magistro. Come mostra la citazione in esergo, il problema di Agostino è quello di trovare quell’unum che sta sotteso alla differenza che è la parola e il segno. Leggiamo il passaggio:

Agostino – […] Ora riportati al verso e cerca di spiegare, come puoi, il significato delle altre parole. Adeodato -

La terza è la preposizione ex. In cambio, penso, possiamo dire de. Ag. - Non ti chiedo di dire in cambio di una voce molto nota un'altra egualmente nota col medesimo significato, seppure è del medesimo significato. Ma per il momento ammettiamolo pure. Certamente se il poeta non avesse detto ex tanta urbe, ma de tanta, ti chiederei cosa significa de. Tu risponderesti ex poiché sono due parole, ossia segni che, secondo te, significano una medesima cosa. Io invece chiedo quel non saprei che di unico e medesimo concetto che viene espresso con questi due segni. Ad. - Significano, secondo me, una determinata separazione di un oggetto di cui si dice che proviene da un altro in cui era. (mag. 2.4).

Il problema del segno come differenza sottesa all’identità del significato è lo stesso a cui si è fatto riferimento nella sezione teorica. Agostino ne è cosciente, come si vede da queste prime battute, ma non lo prende direttamente a tema in questa sua opera. Nel De Magistro Agostino prende infatti essenzialmente in considerazione il problema del linguaggio relativamente al suo potere essere o meno strumento di comunicazione o insegnamento tra gli uomini. La domanda che guida l’intera opera non è tanto la domanda su come si debba articolare a livello teorico la relazione tra lo stesso del significato (l’unum) e la differenza che è il segno-parola; la domanda è piuttosto di carattere pratico, e cioè: come facciamo a conoscere le cose attraverso il linguaggio se le parole sono segni delle cose, e quindi se possono essere capite solo conoscendo la cosa di cui sono segno? In modo più preciso Agostino riassume così le domande di cui tratta:

Abbiamo faticato molto per esaminare questi tre punti: se si possa insegnare qualcosa senza utilizzare segni; se esistano segni di valore maggiore rispetto alle cose che significano; se la conoscenza stessa delle cose abbia più valore dei segni. (mag. 10.31).

Il significato, nella riflessione di Agostino, è la cosa stessa (la res ipsa) nel suo essere relazione alla conoscenza nel modo della verità. In quanto relazione a un chi conoscente, il significato necessita del linguaggio e dei segni per essere evocato e presente, ma esso rimane dell’ordine di un nome-logos, e non di una parola-segno. Ci riferiamo alla distinzione compiuta nella sezione teorica, e che viene qui in aiuto per illustrare il senso del pensiero agostiniano sul linguaggio. Si è detto che, se è vero che l’uomo è al mondo al modo della parola, e nel modo della parola e del linguaggio fa esperienza dei significati (quello che afferma Agostino dicendo che, in un certo senso tutto viene mostrato attraverso dei segni, e cioè, attraverso delle parole) tuttavia il significato è dell’ordine della semplicità del nome.3

In questo senso si spiega l’ambiguità del ruolo dato al linguaggio nella considerazione di Agostino. Il linguaggio rimane altro, l’altro rispetto all’essere: è l’ostacolo necessario, per usare il vocabolario di V. Jankélévitch, è la cosa non-cosa, l’essere non-essere che però permette di accedere alla cosa.4 Esso è la materia in cui la conoscenza si dispiega, per articolarsi nel tempo secondo il modo discorsivo del raziocinare dell’umano. La parola degli uomini e le articolazioni dell’universo linguistico sono il supporto necessario, sono il puntello che sostiene e permette la costruzione e la manifestazione del significato. Questo, al pari dell’essere, è semplice, ma vive da dentro un corpo linguistico che è tempo, in una relazione che richiama quella che si potrebbe istituire tra la verità e la storia5.

Questo è il senso dell’apparente contraddizione agostiniana: tutto si impara attraverso i segni (anche quando i segni sono quelli non verbali del corpo, anche quando è il segno essenziale dell’ecco, del tendere il braccio, il segno che si annulla in presenza della cosa significata) e tuttavia, si dice in conclusione, niente si impara attraverso i segni. Il significato delle cose è spiegato attraverso parole, ma è necessario conoscere la cosa di cui il segno è segno per capire in che senso il segno è segno: il segno, infatti, è tale in quanto è segno di qualcosa, esso è significativo in quanto si colloca come ad un estremo di una linea invisibile al cui opposto sta la cosa. Di conseguenza, un segno che non è significativo, che è cioè separato dalla cosa, è solo un suono:

3 Vale la pena ripetere quanto detto a proposito del modo in cui consideriamo il significato. Il significato, in quanto

significato, è un nome, altrimenti non sarebbe significato: il significato è l’essere significativo della cosa, il modo in cui si sa della cosa (che poi è anche il modo in cui la cosa esiste).

4 Cfr V.JANKELEVITCH, Philosophie première, Puf, Paris 1953, pp.104-107.

5 Il tema ontologico della creazione è fondamentale tanto quanto quello della verità. Alla luce di questi due aspetti

infatti si spiega l’affermazione paradossale per cui la verità (logos) è un racconto (mito), cioè il racconto delle Scritture. Ma questo paradosso si risolve da solo, in se stesso, perché il racconto di cui esso parla è quello della creazione di Dio, è quello della vita della verità come logos. Il paradosso si salva proprio perché esso è profondamente (parola che racconta e parla della verità come ciò che fonda la stessa parola cha la racconta) la storia della verità, di una verità che, come logos e ragione, è ciò che nell’uomo non è paradossale, ma ciò che ne svela la verità.

Ci risulta dunque che le parole sono segni. Ad. -É così. Ag. -Il segno può essere tale, se non significa qualcosa? Ad. –No. (2.3). Ed anche: Ad. -Sono d’accordo con te infatti che non potremmo assolutamente conversare (sermocinari), se la mente, dopo aver ascoltato le parole, non si riferisse a ciò di cui sono segni (ad ea feratur animus ,

quorum ista sunt signa). (8.22) […] Per cui, avendo udito i segni, la mente rivolge la propria attenzione alle cose

significate. (8.24).

Nella misura in cui il linguaggio sta per altro esso è anche esperienza di separazione, di distanza e di assenza. Assenza del significato pieno poiché, se gli uomini stanno in relazione tra loro attraverso il linguaggio, è perché la comunione delle loro anime (una sorta di fusione e di riposo nel significato dell’essere) nell’esperienza babelica della vita terrena è loro negato.

Per queste ragioni si è introdotto il tema parlando di ricchezza e povertà del segno. Il segno si mostra povero perché non è l’essere ma è distanza da esso, ne è l’alterità irriducibile. È anche ricco, però, perché è come la materia su cui la luce del logos si manifesta e scorre (e la materia, proprio perché dona alla luce di manifestarsi, è una forma di luce, è luce essa stessa alla luce). Ricco perché l’uomo sa dell’essere nel modo di un significato che può esprimere a parole, e che può condividere grazie alle parole ricevute. È attraverso il linguaggio che l’uomo può interrogarsi intorno all’essere e al suo significato. E tuttavia, ripetiamolo, la sua ricchezza rimane tale se anche sa della sua povertà, e invita a cercare oltre a sé la vera ricchezza che è l’essere come relazione, logos, pensiero.

La stessa ambiguità che caratterizza il linguaggio, per cui esso sta come ciò che è povero e ricco allo stesso tempo, connota anche i modi in cui la parola si articola, e in particolare il modo dell’interrogare. Anche la parola che si apre come domanda, infatti, fa significato, cioè mostra a modo suo i tratti della verità. Agostino afferma che quando parliamo è perché vogliamo insegnare o imparare, ma che anche quando poniamo domande stiamo in realtà insegnando. L’interrogare è uno dei modi in cui l’uomo significa l’essere e accede alla verità, ed ha perciò un ruolo fondamentale nella riflessione di Agostino.6

In riferimento alle considerazioni svolte nella parte teorica, possiamo rubricare il modo dello stare del significato come domanda, sotto i nomi dell’ontologia del finito, perché solo l’uomo sperimenta il significato anche attraverso il domandare, così come solo nell’esperienza dell’ontologia del finito si mostra il nome di perdono, o di volontà intesa come la non equazione tra

6 In questo senso si può dire che la prospettiva agostiniano si presta a rappresentare il pensiero femminile che porta

l’attenzione al lato desiderante dell’esperienza umana. Ci riferiamo in particolar modo al pensiero di L.MURARO, Al

mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Milano 2009; e anche, della stessa autrice, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003.

volontà e potere (lo vedremo nell’ultimo capitolo trattando del tema della libertà e della volontà in Agostino). Il domandare è uno dei modi di essere dell’uomo, uno dei modi che entrano nel significato di essere uomo. Proprio in virtù del fatto che l’uomo è questo nome in cui il significato dell’essere non è immediatamente significato di bene, proprio in virtù del fatto che l’uomo è esperienza di separazione di questi due nomi, egli abita la verità nel modo manchevole del porre domande. Della domanda si deve dire ch’essa sta in relazione alla luce della verità nello stesso modo in cui il desiderio sta in relazione al bene. Desiderio e domanda sono due nomi dell’ontologia del finito, sono cioè due significati che si mostrano solo da dentro l’esperienza che è l’uomo, e che sono secondi rispetto ai nomi in cui si mostra il significato originario dell’essere. Anche il nome della fede è in questo senso nome secondo, poiché anche la fede, nonostante dica di un modo d’abbandono in sé perfetto, tuttavia non è il modo in cui il nome dell’essere si significa in relazione a sé e agli uomini. Come dice Agostino l’ultimo significato non sarà un nome a cui credere e in cui avere fede, ma un nome che sarà visto, e saputo con certezza.7

2. Segni e cose

La definizione di segno che troviamo in De Doctrina Christiana è quella secondo cui un segno è definito come ciò che significa altro da sé nel senso di essere una cosa che, oltre l’impressione che produce sui sensi, fa che a partire d’essa qualcos’altro viene al pensiero(signum est enim res praeter speciem, quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex se facies in cogitatione venire).8 Questo “altro” sono le cose stesse, e anche quel determinato significato che è la nostra

7A questo proposito ricordiamo la differenza tra l’impostazione paolina a quella di Agostino, quale è stata messa in luce

da Arendt nella sua tesi sul concetto di amore in Agostino. Cfr. H.ARENDT, Le concept d’amour chez Augustin, Payot

et Rivage, Paris 1999, pp. 47-51 (H. Arendt, Il concetto d'amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica, Studio Editoriale, Milano 1992). Citando la farse agostiniana « E bisogna amare Dio in modo tale che se possibile noi ci dimentichiamo di noi stessi », Arendt interpreta il pensiero di Agostino in dialettica con quello paolino. L’oblio di sé, attraverso cui e in cui l’uomo tende a Dio, sarebbe, in Agostino, atteggiamento pseudo-cristiano. Arendt sostiene che l’uomo dimentica se stesso perché vuole ancora il suo bene, ma poiché non può ottenerlo secondo il suo volere, lo cerca nel modo dell’oblio di sé. Arendt porta il confronto con S.Paolo, per il quale, invece, «la carità ha un senso diverso: è sulla terra già legame di perfezione, e non scomparirà un giorno, nella vita eterna». Per Agostino, invece, l’amore carità scomparirà quando troverà il suo compimento in un vedere, in una gioia che è fruizione e beatitudine.

volontà in relazione alle cose, come si legge in De Magistro «Chi parla produce un segno esterno della propria volontà, per mezzo di un suono articolato».9

Come si è visto, il segno è presentato subito come qualcosa di ambiguo. Per un verso esso è l’unico modo attraverso cui si dispiega la ricchezza del significato, e quindi l’unico modo per incrementare il sapere e gli oggetti della conoscenza; per un altro verso però, il segno è capace di insegnare e significativo solo quando è data anche la cosa significata, seppur nel modo dell’assenza. Se così non fosse e il segno non avesse questa garanzia e questo aiuto «non si parlerebbe di segno, ma di suono». Scrive Agostino: «Prima la parola era per me soltanto un suono. Imparai che era segno, quando compresi di quale cosa essa era segno».10 Così, la conclusione a cui si arriva, dopo aver dimostrato l’implicazione necessaria del segno nel processo di apprendimento che si articola come domanda e risposta, è che nulla si impara mediante i segni con cui qualcosa viene indicato. I segni, che all’inizio del libro sembravano necessari nel dare definizioni, sono infine detti incapaci d’insegnare alcunché, perché, per capire il segno bisogna conoscere la cosa di cui è segno.

Ma a considerare più attentamente, forse non troverai oggetto che sia appreso mediante propri segni. Quando mi si mostra un segno, se io non so di quale oggetto è segno, è assurdo che m'insegni qualche cosa. Se poi lo so, cosa apprendo dal segno? La parola non mi mostra la cosa che significa, quando leggo: E le loro sarabare non sono state

bruciate. Se con tale nome sono chiamati determinati copricapo, nell'udirlo, ho forse appreso che cos'è capo e che cosa

lo copre? Li conoscevo già e non ne ho avuto conoscenza perché li ho intesi nominare da altri, ma perché li ho visti. Infatti quando per la prima volta le due sillabe del termine "capo" hanno colpito il mio udito, non ne ho conosciuto il significato ed egualmente quando per la prima volta ho udito o letto le sarabare. Ma "capo" è una parola molto usata. Ed io, avvertendola con intenzione, ho saputo che è il vocabolo di una cosa che mi era assai nota per averla vista. Prima di accorgermene, la parola per me era soltanto un suono; ho imparato che è anche un segno quando ho trovato di quale oggetto è segno. Ma, come ho detto, avevo appreso la cosa non mediante l'uso dei segni, bensì con la vista. Dunque si apprende il segno con la cosa conosciuta piuttosto che la cosa col segno. (10.33)

Ci sono diversi segni, e Agostino opera una distinzione molto dettagliata, sia in senso orizzontale (segni che si significano tra loro, come ad esempio il segno “parola” significa il segno “nome”, e in genere i segni della lingua latina “verba”, “nomina” significano quelli della lingua greca con uguale significato, come “onoma”);11 sia in senso verticale, tra cui sono annoverati i

significabilia, ovvero i nomi che possono essere significati da segni, ma che ultimamente non sono

segni. In questo senso, ad esempio, il segno che è “nome” significa altri nomi, come quelli di “montagna”, o “lago”, ed essi, questo segni-nomi (“montagna”, “lago”) sono segni di cose, e non di altri segni.

9 Mag. 1.2. 10 Mag. 10.33. 11 Mag. 4.9.

Il passaggio a cui abbiamo fatto riferimento è importante perché offre gli strumenti per operare la distinzione tra parola e nome in modo ch’essi dicano di due ordini diversi, quello della differenza-linguaggio e quello dell’identità propria del significato-pensiero. Così il segno che è “nome”(con cui noi indichiamo il modo del significato, cioè il nome-logos che, a differenza del linguaggio, apre la conoscenza delle cose secondo verità), si distingue dal segno che è “parola” perché esso è un segno speciale, ovvero è un segno di qualcosa che a sua volta non è più un segno. “Nome”, segno, significa il modo in cui la cosa sta come significato dentro ad un segno. In questo senso “mare” è un nome, è un segno, non è il mare nel senso della cosa stessa. Ma “mare” indica una cosa che non è sua volta un segno, un significato appunto, il mare. “Mare”, segno-nome è il segno in cui l’essere del mare si rende disponibile alla nostra conoscenza, in cui il mare è riconosciuto e saputo.

Ag: Sei d’accordo se, per poterne discutere più agevolmente, chiamiamo “significabili” le cose che possono

essere significate da segni e non sono segni, come chiamiamo “visibili” le cose che si possono vedere? (4.8)

Fondamentale ci sembra allora, ai fini della distinzione, proprio la similitudine con il campo sensoriale del vedere. Il nome, infatti, in quanto segno privilegiato del significato, è ciò in cui vediamo e conosciamo le cose, in cui si manifestano secondo la loro verità. In questo senso elevato il nome, che si distingue da parola e cioè dal linguaggio, è verbo, è verità; e sempre in questa accezione la verità è un verbo, e al principio è il verbo. Il nome, infatti, è eminentemente il modo della conoscenza e della verità, ovvero il modo di accesso all’essere come significato. Questa distinzione, tuttavia, nel De Magistro è appena accennata, e non rappresenta un’articolazione fondamentale nello sviluppo di un’ontologia del nome, quale sarà sviluppata successivamente in De