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1. Cosa significa capire un enunciato: uno dei modi in cui si struttura l’indagine intorno alla relazione tra pensiero e linguaggio

Azhar b. Marwān ha tramandato: Rabāh al-Qaysī, Sālih b. ´Abd al-Ğalīl e Kilāb andarono da Rābi ‘a e cominciarono a parlare fra loro delle cose del mondo, biasimandolo. Disse allora Rābi ‘a: «Io vedo nei vostri cuori il mondo con i suoi pascoli di primavera». Ed essi: «Che cosa ti fa supporre questo di noi?». Disse:

«Voi avete posato lo sguardo su ciò che è più vicino ai vostri cuori, e ne avete parlato».

I detti di Rābi ‘a1

Nel nostro tentativo di pensare la continuità tra il modo del logos pensiero e quello del senso, inteso come ciò che rimanda all’essere nel suo stare come qualcosa di significativo (e quindi rispondente a una domanda di senso), il primissimo livello che incontriamo e che va preso in considerazione è quello che riguarda il problema di cosa significhi capire un enunciato. È un problema di carattere epistemologico, diremo, ma vale la pena cominciare da qui, poiché è fin da questo livello che si dischiude la complessità del modo in cui il pensare e l’essere (traducibili nei rispettivi nomi di verità e bene, o di logos e praxis) stanno in relazione nell’esperienza dell’umano.

Già sotto il profilo epistemologico, dunque, senza spingersi ad un livello più specificamente ontologico, il problema rivela tutta la sua complessità. È a tal punto complesso che richiede, a seconda della posizione che si assume a tal riguardo, una precisazione di vocabolario. Si è

presentato il problema infatti nei termini di enunciato, ma si potrebbe obiettare che il tema vada ora formulato in quelli di enunciazione.2 Non si tratta di una semplice velleità di linguaggio, perché attraverso il riferimento all’aspetto dell’enunciazione si vuole portare l’attenzione sul seguente dato di fatto, sulla seguente considerazione: che capire un significato sia molto di più della comprensione del contenuto proposizionale3 e cioè significhi capire tutto un contesto in cui il contenuto proposizionale si dischiude. Alludiamo, attraverso questo discorso, ad una delle principali fratture, svolte, che la filosofia del linguaggio si è trovata a testimoniare, e che è stata definita in termini precisamente di svolta pragmatica della linguistica. Alla concezione, per la quale la logica riflette uno stato di cose del mondo (e per cui il linguaggio sarebbe un modo di parlare del mondo, e capire il linguaggio sarebbe capire un messaggio in termini di vero e falso), si sostituisce quella per cui il linguaggio non si limita a riflettere uno stato del mondo, ma agisce e interviene sul mondo, modificandolo. In questa scia si colloca la svolta pragmatica della linguistica.

E tuttavia anche il rimando a questo aspetto, a quello per cui è necessario porre la questione in termini di enunciazione e non di enunciato, non pone fine alla discussione, ma anzi fa spazio a distinzioni e domande ulteriori, mostrando la profonda complessità del problema di cosa sia ciò che viene effettivamente capito quando si capisce qualcosa. Ora, infatti, l’aspetto contestuale (il modo della frase, per semplificare, detto anche forza, che è lo stesso: ci sono frasi domande, frasi affermazioni, frasi ordini, ecc..) è considerato essere di un ordine puramente convenzionale, tale cioè da scaturire, questa forza, immediatamente dal significante, dalle parole, senza necessitare di un rimando esterno (quale sarebbe invece l’intenzione del parlante) per trovare la sua attuazione, cioè per venire codificato, ovvero poi compreso e capito per quello che è.

Secondo questa interpretazione (quella che si fonda sul modo convenzionale dell’aspetto illocutorio) in altre parole, affinché una frase venga capita come domanda, o nella sua pretesa di ordine, o ancora nel suo modo di esortazione, non è necessario fare appello all’intenzione del parlante come alla sorgente originaria che sola sarebbe capace di orientare il significarsi di una frase come domanda. Questa categoria che interviene nel meccanismo di comprensione di un messaggio verbale, definita in termini appunto di forza (di modo, cioè: il modo della domanda, dell’esortazione, del consiglio, della preghiera, ecc..) sarebbe insomma di carattere convenzionale,

2 La nozione di “enunciazione”, rispetto a quella di “enunciato” sottolinea più spiccatamente la dimensione dell’agire

che appartiene al linguaggio; questa nozione è stata ampiamente valorizzata, anche contro alcune delle posizioni più note della filosofia del linguaggio analitica, da A. Martone, Questioni di enunciazione. Saggio di teoria del linguaggio, Cronopio, Napoli 2001.

3 Il contenuto proposizionale di un enunciato è il contenuto o pensiero espresso in quell’enunciato, ad esempio,

l’enunciato “il sole sorge” ha per contenuto proposizionale, cioè dice: che il sole sorge. Il contenuto proposizionale (la proposizione) è anche ciò che rimane identico e inalterato nelle varie traduzioni cui può essere sottoposto l’enunciato (ad esempio: “le soleil se lève”).

cioè il suo riconoscerla o meno da parte dell’interlocutore dipenderebbe da elementi convenzionali come la punteggiatura o espressioni di carattere linguistico e sintattico. Diversamente, altre interpretazioni che pure si nutrono di questo clima inaugurato da questa nuova prospettiva sostengono la necessità, al fine di capire la forza della frase, di fare riferimento ad un rimando esterno ravvisabile precisamente nell’intenzione dell’interlocutore. Allora capire un significato corrisponderebbe alla comprensione dell’intenzione dell’interlocutore, ciò che l’interlocutore voleva

dire (il voler dire). All’interno di questa polarità si spiega la differenza tra la posizione di J. Austin

e quello di J. Searle in riferimento al modo di intendere la performatività dell’illocutorio, di intendere, cioè in che modo la forza che fa capire un enunciato si generi, e dove debba essere cercata.

Affrontando il problema del modo in cui l’aspetto del verbale si lega intimamente con quello della cosa, arriviamo, attraverso la domanda su cosa significhi capire un enunciato, a trattare un aspetto di carattere più propriamente ontologico, e il punto di vista in cui ci si porrà nei confronti di questo ha dirette conseguenze nella definizione del significato che sta all’origine del movimento di espressione. Abbracciare la tesi infatti per cui il significato sia in ultima istanza consegnato al modo dell’intenzione, e sottratto alla sua codificabilità e oggettività, significa considerare il linguaggio (strutture e relazioni logiche) e l’intenzionalità come due ordini fra loro separati, e significativi di due realtà ontologiche distinte. Il linguaggio rappresenterebbe in questa prospettiva il mondo della reiterabilità muta, mentre nell’intenzionalità si dischiuderebbe l’essere del significato; questo è definito allora come ciò che coincide con la presenza, non reiterabile, in cui precisamente l’intenzione dell’interlocutore si manifesta. Il dibattito tra Searle e Derrida è comprensibile appunto a partire da queste due possibilità.4

Ricapitolando brevemente. Nel cammino che ci porta a cercare il legame tra il modo del linguaggio e quello dell’essere si incontra in primo luogo il problema di vedere che cosa significa capire un enunciato, cioè che cosa si comprende quando riceviamo un messaggio, se solo uno stato di cose di cui il linguaggio sarebbe messaggero neutro, o anche qualcosa che vive come forza e che fuori di essa non avrebbe senso alcuno, non avrebbe ragioni cioè di realizzarsi nell’espressione. Si affronta poi il problema di come considerare il referente, se nell’ordine linguistico, cioè quello dei segni e della scrittura, o in un ordine di differente natura.

4 Cfr. J. Derrida, Limited Inc., tr. it. di N. Perullo, Raffaello Cortina, Milano 1997, in cui sono riportati sia i testi del

dibattito sia di Searle sia di Derrida. Su questo dibattito ci soffermeremo più diffusamente nell’ultimo paragrafo di questo capitolo.

Connesso a questi aspetti vi è il problema relativo alla relazione tra il significato e se stesso. Qualsiasi sia infatti il modo in cui esso si costituisca, ci si deve ancora chiedere se questo significato stia in una relazione di identità con se stesso (in un senso per cui costituisce l’identità dietro alle differenze date dalla serie finita dei modi in cui il significato prende corpo) o se esso stia invece in un rimando aperto di differenze. Delineando brevemente i tratti principali della presente questione (che vede nel pensiero di E. Severino una difesa dell’identità, mentre nel pensiero di L. Wittgenstein un difensore della differenza), riportiamo un passo dalle Ricerche filosofiche: «Secondo Russell possiamo dire: il nome “Mosè” può essere definito mediante diverse descrizioni. Per esempio come: “l’uomo che ha condotto gli Ebrei attraverso il deserto”, “l’uomo che è vissuto in questo tempo e in questo luogo e che allora era chiamato ‘Mosè’”, “l’uomo che, bambino, fu salvato dal Nilo dalla figlia del Faraone” ecc. E secondo che assumiamo l’una o l’altra definizione, la proposizione “Mosè è esistito” acquista un senso diverso, e così pure ogni altra proposizione che tratti di Mosè. (…) Ma quando faccio un enunciato intorno a Mosè – sono sempre disposto a sostituire “Mosè” con una qualsiasi di queste descrizioni? Potrei dire : Per “Mosè” intendo l’uomo che ha fatto ciò che la Bibbia racconta di Mosè, o, almeno, ne ha fatto una buona parte. Ma quanto? Ho deciso quanto debba dimostrarsi falso, perchè io abbandoni la mia proposizione come falsa? Il nome “Mosè” ha dunque, per me, un uso fisso inequivocabilmente determinato in tutti i casi possibili ?(…) E questo si può esprimere così: Uso il nome “N” senza significato fisso».5

Dedicheremo un capitolo della presente ricerca per sviluppare meglio questo aspetto. Non abbiamo avuto nessuna pretesa di risolverlo, ma considerarlo è stato importante per mettere a punto un discorso sulla volontà nel senso di voler dire. È a questo livello, infatti, a livello di intenzione (che nel vocabolario di Agostino è il verbo interiore nel senso di consilium, parola del cuore, della mente), che ci sembra necessario cercare l’ultima identità possibile, quella che rende conto dell’essere come uno, vero e identico.

Come si è detto, capire un significato significa capire qualcosa che sia significativo per noi. C’è, nella comprensione profonda di un significato un movimento tale per cui esso non appare mai all’interno del colore neutro dato dagli estremi del vero o del falso. Un contenuto ci parla se, nei suoi confronti, si apre anche un desiderio che sottrae il significato dalla sfera della verità logica per immetterlo in quella dell’etica. La verità in sé, cioè, il nudo apparire dell’ente in quanto tale, non può rendere conto del volto dell’ente se, mentre lo manifesta, non ne mostri anche l’intrinseca

relazione con l’altro dall’ente, in un modo tale che, compreso alla luce di questa relazione, l’ente si mostri anche come significato di bene.

In certo modo la verità è già immediatamente immessa nella sfera del desiderare e cioè del movimento teleologico, nella misura in cui, come afferma Aristotele, la verità è il bene dell’intelletto, è ciò a cui tende e che appaga la vita intellettiva. E tuttavia quello che qui cerchiamo di dire a proposito della relazione tra verità e bene, è che non solo la verità è il bene dell’intelletto, poiché costituisce il fine e la meta dell’attività conoscitiva, ma anche che il modo di essere desiderabile e dunque buono, il modo di stare come desiderio, è il modo eminente di essere vero, è cioè uno dei nomi della verità. La verità è il fine dell’attività conoscitiva, e come tale rappresenta il bene dell’intelletto. Ma anche, il bene è il modo in cui la verità ultimamente si declina: il bene è la verità nel senso che esso è manifestazione profonda del significato dell’ente. Ancora: la verità è forma che manifesta le cose e i significati nel loro vero volto, ma, precisamente, il loro vero volto, aperto nella verità, è tale, come parte in relazione al tutto, solo se apparendo si mostra declinato secondo il suo essere o meno desiderabile, e quindi, secondo il suo essere nel modo di un certo bene. Il modo del vero è il modo secondo cui l’intelletto desidera vedere la cosa, poiché desidera vederla bene, chiara e distinta. Proprio la cosa vista in questo modo, chiaro e distinto (e non come in uno specchio o in enigma…) è il fine e il bene dell’intelletto; e viceversa, il bene che sta come verità, che diventa criterio di verità, non appare chiaro e distinto al pari degli altri significati, ma esso è ciò che distingue e chiarifica, e guida e informa il senso di ogni processo di conoscenza. Ogni significato dunque che muove l’intelletto a conoscenza e che costituisce l’oggetto di una comprensione, è un contenuto che per poter farsi capire e conoscere, essere vero, deve dire anche di quel modo in cui è relazione secondo il modo del desiderio.

Determinanti e utili allo scopo di mostrare la legittimità dell’articolazione suddetta (tra il modo del bene quello della verità) sono le riflessioni intorno ai diversi livelli in cui avviene la comunicazione. Lo studio sulla metacomunicazione mostra infatti che in una comunicazione verbale tra soggetti convivono molteplici piani di informazioni: accanto a quelle che costituiscono i contenuti del discorso, vengono (meta)comunicate una serie di altre informazioni che riguardano invece la relazione stessa, ovvero informano sul modo in cui i soggetti comunicanti vivono la relazione di cui sono parte. Dietro allo scambio di contenuti che interpellano la categoria della verità per essere compresi, c’è uno sfondo relazionale in cui invece si scambiano informazioni che domandano di essere interrogate alla luce di una verità che ha commercio immediato con il bene nel

senso dello stare bene in quella relazione che ognuno di noi è non solo in riferimento ad altri, ma anche a se stesso.6

Potremmo allora definire la nostra ricerca nei termini fenomenologici di riduzione della verità, o perlomeno di un determinato significato di essa. La verità logica, bene dell’intelletto, mostrandosi ultimamente significativa nella misura in cui parla anche al desiderio e quindi nel modo del bene, invita ad essere superata in direzione di una dimensione più ricca, quella della verità ontologica. Si tratta di un guadagno e di una perdita allo stesso tempo, nella misura in cui la verità ontologica, sebbene più completa dell’altra forma, non è più distinguibile nei termini del vero e del falso (come nella verità corrispondenza), ma essa è capace di significare, di stare come significato, nella misura in cui è capace di significare il movimento del desiderio e il bene ch’esso chiede.

2. Significato e linguaggio: identità e differenza7.

6 Significativo è a questo proposito lo studio della scuola di Palo Alto, in particolare: P. Watzlawick – J.H. Beavin, D.D.

Jackson, Pragmatica della comunicazione umana : studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, tr. it. di M. Ferretti, Astrolabio, Roma 1997.

7 Rimando, per un’introduzione generale sulla genesi del problema di cui si parla in questa sezione, al capitolo 14 del

libro di U.Galimberti, Il Corpo, Feltrinelli, Milano 1998. In questo capitolo, La voce del corpo, Galimberti espone molto chiaramente il problema della relazione tra pensiero e linguaggio illustrando le riduzioni fenomenologiche a cui il pensiero-logos inteso come idealità pura, coscienza, interiorità, è stato (giustamente e correttamente a detta dell’autore) sottoposto nella filosofia contemporanea. Egli cita la riduzione del pensiero a linguaggio nella filosofia di Heidegger, alla quale accosta la successiva riduzione del linguaggio-lingua a parola (secondo il vocabolario di F. de Saussure, a cui corrisponde l’opposizione tra parola parlata e parola parlante, elaborata da M. Merleau-Ponty) come avviene precisamente nell’opera di M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano 1972. La parole, (la parola parlante), a differenza della langue (la parola parlata) è infatti l’atto in cui si concretizza l’espressione, ed esso è, sempre nell’interpretazione di Galimberti, primo in ordine genetico rispetto al codice della lingua. Ridotto a linguaggio, e successivamente alla parola, il pensiero deve essere ridotto in fine a voce, cioè al pensiero-suono, e così fa effettivamente Jacques Derrida, La voce e il fenomeno : introduzione al problema del segno nella fenomenologia di

Husserl, tr. it. di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1997. Portando l’attenzione sulla voce, Derrida intende sciogliere le

opposizioni fondanti la metafisica occidentale, come quella tra un dentro e un fuori, tra cielo e terra, tra anima e corpo: tali opposizioni sono subordinate ad un’ambivalenza più originaria della bivalenza in cui si è soliti articolare ogni codice (ad esempio, la bivalenza, all’interno del segno, tra significato e significante). La voce (attraverso su cui si intende ripensare la coscienza) è il subito fuori: è cioè l’interiorità che si mostra immediatamente nel suo essere anche indicazione nel senso di corporeità-segno, voce che si ascolta, e che, però, per questo suo essere fuori, esposta, espressa, non si perde, anzi, vive, e non saprebbe vivere altrimenti. Galimberti cita così Husserl come colui che invece ha sviluppato il suo pensiero all’insegna della separazione tra indicazione ed espressione, ossia tra segno in cui il senso- significato sarebbe come portato, consegnato, e per questo ripetuto, e segno che sarebbe invece l’intenzionalità pura, il

voler dire, il significato ideale, e per questo, universalizzabile. Galimberti conclude che l’idealità del significato non

esiste (non esiste l’interiorità come coscienza, ossia il per sé di Sartre) se non nella possibilità della sua ripetizione, e quindi nella parola-voce, sempre ascoltata, sempre fuori, es-pressa, anche quando si tratta del dialogo interiore che tanto ha preoccupato Platone e Agostino. Rispetto a questa riappropriazione galimbertiana di Derrida, qui si vorrebbe tentare di sostenere che, invece, l’idealità del senso esiste ed esiste nella forma della differenza tra l’ente e l’essere: il logos. Se è vero, infatti, come osserva Galimberti, che «non c’è espressività discorsiva senza discorso, così come non c’è discorso che non si perda in una trama indicativa» (p. 184) , si deve ugualmente affermare che non esiste discorso senza discorsi:

Il pensare è in un certo senso da considerarsi come l’occhio dell’uomo. Esso è ciò che salva lo sguardo dall’apertura infinita, dal mai tornare e riposare su qualcosa. Che la parola sia l’occhio del pensare, significa che, di fatto, noi possiamo mettere ordine a quanto riceviamo dal mondo, e riceviamo realmente, solo per il tramite della parola in cui si rende visibile quello che c’è. Si può parlare di questo aspetto in termini di felicità della forma, che, è in realtà anche forma intesa come ordine (forma a se stessa, forma delle forme). La felicità della forma è sia la felicità dell’essere, che si mostra uno e identico a sé, sia quella del significato che, nonostante la differenza delle parole, si dona nel suo essere identico a se stesso8.

Abbiamo sopra introdotto la distinzione tra pensiero e linguaggio, e successivamente quella tra langue e parole9 e quella tra parole e atto linguistico. Riprendiamo qui la prima distinzione e cerchiamo di dire qualcosa sulla sua complessità.

Il problema fondamentale è quello che riguarda lo statuto del significato quale è costituito dal linguaggio, del significato cioè di una proposizione linguistica che si suppone disgiunta dall’atto di discorso in cui essa sempre è inserita. Ma si è detto sopra che, dato il presentarsi del linguaggio sempre e solo come atto linguistico, nessun contenuto proposizionale può essere disgiungibile da un atto di discorso (aspetto in ragione di cui si è potuto istituire una comunicazione tra categorie della verità e quelle della prassi, cioè poi del bene).

Affermando quanto si è appena affermato prendiamo in certo modo posizione contro una parte della tradizione analitica, quella definita da una concezione rappresentativa del linguaggio. Per riassumere brevemente l’impostazione analitica della riflessione sul linguaggio faremo una veloce digressione. Semplificando, possiamo dire che i filosofi che hanno lavorato a sviluppare questa

un discorso, un significato, cioè, è tale in quanto vive della relazione che sussiste tra lui e gli altri discorsi, e gli altri significati. L’opacità mondana della cosa non è un significato, e il nome, con cui essa è nominata, è significativo perché è essenzialmente un modo di relazione (il linguaggio è ripetizione di nomi, ma non moltiplica l’essere). La relazione è l’altro dalle singole cose, ed è ciò che permette l’apertura in cui le cose possono essere nominate, è lo spazio-silenzio che apre il tempo, e che consente che non si rimanga intrappolati su ogni nome come se fosse un sasso nero. Galimberti afferma che, data la riduzione del pensiero al linguaggio, il detto rem tene, verba sequentur, non è valida. Ora, a nostro