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Rigo Innocenti è morto il 21 luglio in un incidente sull’autostrada Milano- Torino.

A partire dal 1951 aveva ricoperto posti di altissima responsabilità alla Società Olivetti : segretario degli Uffici della Presidenza prima, poi diret­ tore dei Servizi sociali, quindi direttore dello stabilimento di Pozzuoli e da qui vice-presidente e direttore generale della Olivetti Argentina, nel 1963 segretario generale della Società e ultimamente direttore delle Rela­ zioni aziendali.

A questa rapidissima carriera di « uomo della organizzazione » era stato spinto quasi con rabbia dalle difficili esperienze fatte nel campo del lavoro sociale, al quale si era dedicato spontaneamente a poche settimane, credo, dal suo ritorno dalla prigionia. E tuttavia quelle esperienze in cui lui, come uomo d’azione, non trovava spazio e di cui come uomo politico vedeva l’ isolamento e la precarietà, servirono a formarlo, e forse al lavoro sociale sarebbe tornato nei prossimi anni, una volta sbollita in questa sua straordinaria carriera l’impazienza che lo tormentava, se questa morte d’impazienza non l’avesse colto così presto.

Era venuto al Movimento di Collaborazione civica, mi pare, nel 1946 (leg­ go in un suo appunto, tra i pochissimi che ha lasciato, « Natale 1946 »). Aveva fatto la guerra sul serio, come l’hanno fatta quelli che non ci crede­ vano e non la volevano. Il finale erano state certe settimane passate in un fortino dimenticato nell’interno della Cirenaica, con un gruppetto di uomini che gli valevano bene e qualche libro già riletto, senza più munizioni, senza acqua e senza viveri, senza radio e senza più nemici.

Poi aveva passato quattro anni in un campo di prigionia in India: anni importanti per lui e per gli straordinari compagni che ebbe, Ludovico Quaroni, Umberto Serafini, Giulio Macchi, Gianfranco Folena e tanti altri. Devono essere stati anni di duro tirocinio. Certo è che queste persone tornarono in Italia mature e preparate a rifare l’Italia da capo. Antifa­ scisti, erano stati tagliati fuori dalla Resistenza, ma nessuno più di loro era disposto a raccogliere i messaggi che la Resistenza aveva lasciato in quei finali delle lettere dei condannati a morte in cui con tanta insistenza si parla di un mondo migliore.

Così Rigo Innocenti si occupò del Movimento di Collaborazione civica, che allora pareva destinato a diventare un « movimento ». Proprio per

questa loro storia di persone arrivate a cose fatte, rimasero fuori dei partiti e furono attratti dai « movimenti », e molti di loro trovarono poi nel Movi­ mento di Comunità l’ espressione del molto che avevano da dire e della loro voglia di fare e di rifare.

In quegli anni deH’immediato dopoguerra Rigo Innocenti dette un contri­ buto indimenticabile al CEPAS, e con il suo fervore di pioniere lavorò nelle prime colonie estive che si andavano organizzando, nei campi pro­ fughi, nei primi doposcuola e nei circoli ricreativi, inventò i primi strumenti di rilevazione e partecipò alle prime inchieste che si tentavano. Soprattutto sia al CEPAS che al Movimento di Collaborazione civica contribuì a formare dei giovani che sapessero accompagnare all’impegno il mestiere.

In quegli stessi anni redigeva il periodico Università Nuova insieme a Quaroni, Serafini, Careri, Lombardo Radice, Roncaglia, si accupava di critica cinematografica per Italia Socialista, e teneva la segreteria romana dell’Istituto per gli studi di economia.

Poi, via via che i messaggi della Resistenza sbiadivano e « il mondo migliore » diventava quello di Padre Lombardi, la sfera dell’azione sociale si andò restringendo per « i non addetti ai lavori ». Seguì nella vita di Rigo Innocenti l’esperienza del Beccaria di Milano di cui fu vice-direttore per un certo tempo; quel Centro di rieducazione fu diretto per una breve stagione da uno dei più noti esperti di problemi dell’età evolutiva. Alberto Giordano e Rigo Innocenti lavorarono insieme per costruire un esempio, ma l'ondata del mondo migliore li travolse. Lo stesso avvenne più o meno all’UNRRA Casas, di cui Rigo Innocenti fu per breve tempo (nel 1951) capo del Servizio incremento economico e sociale.

Quest’ultima esperienza appartiene già ai tempi di Adriano Olivetti e al Movimento di Comunità, al suo tentativo di attrarre in quell’orbita, che la situazione politica rendeva sempre più stretta, quelle poche istituzioni che parevano disponibili.

Adriano Olivetti, a quest’uomo dell’organizzazione, che era anche un uomo della dedizione, offrì l’opportunità di cimentarsi e di prepararsi ancora meglio, nella vita di una grande azienda industriale; lo associò a questa impresa, quando le imprese sociali che aveva promosse subirono quella battuta d’arresto che poi, per la sua morte improvvisa, dura tuttora. Per alcune, almeno, di quelle imprese.

Alle cose che continuarono a crescere oltre quegli anni e quella morte, tra queste al CEPAS e alla Fondazione che porta il nome di Adriano Olivetti e vuole continuarne l’opera, Rigo Innocenti guardava con cura illuminata, con affetto intenso, anzi, con trepidazione, e con quella angosciosa impazienza per cui alla fine di ogni riunione restava, è vero, il verbale che testimoniava la incisività dei suoi interventi, ma anche una serie di portaceneri colmi di sigarette fumate a metà.

Proprio ricordando così vivamente quel suo trepido amore per noi, siamo certi che Rigo Innocenti, negli anni meno difficili ai quali andiamo incontro, avrebbe ripreso il suo posto sul fronte piuttosto scoperto dell’azione sociale. E forse Rigo Innocenti amava la seria esperienza che aveva fatto nell’orga­ nizzazione industriale, il successo che aveva avuto, la posizione di respon­ sabilità raggiunta, come una prova superata felicemente per occupare quel posto.

In questo suo ritorno — ne siamo certi e tanto più addolorati di averlo perduto per sempre —■ sarebbe apparsa tutta la sua volontà di partecipa­ zione, la sua gentilezza, la sua straordinaria attenzione agli altri, la sua fedeltà alle idee e agli amici, la sua intelligente ed esperta comprensione del « mondo moderno», il suo profondo e pudico senso dei valori; il tutto, liberato finalmente da quella corazza di grinte, di schemi organizzativi, di ricercatezze, di impazienze, per cui tra i più è passato come uno sco­ nosciuto.

Recensioni

Lo sviluppo della società italiana Giorgio Ceriani Sebregondi, Sullo

sviluppo della società italiana,

Ed. Boringhieri, Torino, 1965, pagg. 355.

Negli scritti di Giorgio Sebregondi — così come avverte l’editore nella presentazione del volume che li raccoglie — i principali problemi economici e sociali degli anni ’50 (l’intervento straordinario per il Mezzogiorno, la pianificazione eco­ nomica, l’integrazione europea) « ... vengono analizzati dal di den­ tro, con l’attenzione di chi ha con­ tribuito a proporli in termini cri­ tici e a farne maturare le solu­ zioni politiche e tecniche ». E giac­ ché molte delle questioni trattate da Sebregondi sono ancora aperte e le soluzioni da lui proposte non tutte accolte e realizzate, il passo citato implicitamente sottolinea l’attualità degli scritti, oltre ad in­ care con chiarezza quale fosse la posizione di Sebregondi negli anni in cui nel nostro paese si delinea­ vano nuove linee di politica econo­ mica e si studiavano le forme che avrebbe dovuto assumere l’inter­ vento pubblico di fronte ai grandi problemi irrisolti, primo fra tutti il problema dell’arretratezza delle

regioni meridionali. Una posizione critica, come sempre nasce quando si compie lo sforzo di trovare — al di là delle formule acquisite e del­ la schematizzazione ideologica •— soluzioni che si fondino sull’ana­ lisi delle situazioni concrete, e, in sede teorica, sulla ricerca del valore e del significato dell’azione di svi­ luppo da intraprendere. Si ricordi­ no, a questo proposito, le posizioni critiche di Sebregondi nei con­ fronti delle teorie dominanti — che concepivano lo sviluppo delle aree depresse come conseguenza di interventi settoriali, soprattutto di carattere economico — e i suoi suggerimenti sul modo di conside­ rare le aspettative e i bisogni del paese nell’ambito delle iniziative che in sede legislativa e di politica economica si sarebbero dovute prendere per realizzare una poli­ tica di sviluppo: la Cassa per il Mezzogiorno, la programmazione urbanistica, lo Schema di Sviluppo dell’occupazione e del reddito e così via. Tutto questo, come l’edi­ tore avverte nella presentazione e come molti commentatori hanno di recente rilevato, ha un valore ben preciso: tra l’altro quello di permetterci di ricostruire, attra­ verso la testimonianza di un pro­ tagonista, il dibattito che negli

anni ’50 si è acceso intorno alle scelte che in buona misura rego­ lano ancora oggi lo sviluppo del paese.

Per chi ha conosciuto Sebre­ gondi, però, e per chi ha condiviso con lui, sia pure solo in alcuni mo­ menti, le preoccupazioni e l’ansia della ricerca, la pubblicazione dei suoi scritti rappresenta qualcosa di più e di diverso : la testimonian­ za di un dialogo, certo, ma anche e soprattutto il ricordo di come, giovani, accanto a Sebregondi, si acquistasse un metodo di studio e di lavoro. Una capacità di analisi dei problemi economici, sociali e politici alla quale non si era abi­ tuati. Nell’Italia degli anni '50, quando tutto era approssimativo e dalle ideologie — talvolta addirit­ tura dalle esperienze pre-fasciste — si pretendeva di ricavare la soluzione di ogni problema, il rigo­ re di Sebregondi, la sua abitudine allo studio delle situazioni concrete, il suo interesse per le esperienze straniere e il suo richiamo all’im­ portanza della ricerca teorica, fa­ cevano scuola. Sono soprattutto i giovani — con i quali Sebregondi intrattiene continui rapporti — che si avvantaggiano della lezione. Quali sono i temi di questo dia­ logo? Quali i risultati? E ’ una analisi ancora da fare: una parte se si vuole, di una più vasta ricerca sulla formazione dei giovani, so­ prattutto cattolici, che oggi, a metà degli anni sessanta, rappresentano una parte non trascurabile della classe dirigente del paese.

Gli scritti di Sebregondi possono anche essere letti in questa pro­ spettiva. Il tentativo, ovviamente, è rischioso: come sempre quando si è costretti, per approfondire un problema, a perdere di vista l’opera nel suo insieme E tuttavia neces­ sario, anche per rendere esplicito un aspetto importante dell’azione di Sebregondi, troppo a lungo tra­ scurato. Lacuna grave se si pensa che il cosiddetto dialogo Sebre- gondi-giovani avviene — è ap­ pena il caso di avvertirlo — non sui temi tradizionali, spesso astrat­ ti e moralistici, del valore dell’im­ pegno o delle responsabilità dei giovani di fronte al patrimonio di cultura ereditato dalle generazioni precedenti, ma sui problemi speci­ fici della società italiana. Sui pro­ blemi che più interessano i gio­ vani, come vedremo, ma che sono anche i problemi di fondo del pae­ se: lo sviluppo della democrazia attraverso la partecipazione attiva e responsabile di tutte le forze alla cosruzione della nuova società na­ zionale. Così che dimenticarsi di questo dialogo può voler dire tra­ scurare un aspetto fondamentale — certamente il più originale •— del suo pensiero.

I giovani con i quali Sebregondi dialoga sono quelli della « terza generazione », come nel cinquanta si è soliti indicare (per distin­ guerli dalla classe dirigente pre- faseista e da quella che cresciuta sotto il fascismo si accinge a su­ bentrarle) coloro che compiono le prime esperienze di vita associata

negli anni della ripresa democrati­ ca, che cominciano ad occuparsi di politica con il referendum istitu­ zionale e le Costituente e votano per la prima volta nel clima acceso del 18 aprile. Il dialogo con Sebre- gomdi si apre subito, nel ’50; a voler cercare un riferimento pre­ ciso, con la pubblicazione su « Cul­ tura e Realtà » (la rivista diretta da Mario Motta e che ha tra i redattori, oltre allo stesso Sebre­ gondi, Pavese e Del Noce) di un saggio sulla teoria delle aree de­ presse (pagine 1-93). Nel saggio Sebregondi considera l’area ’ apres­ sa come la manifestazione dello stato patologico di cui soffrono la struttura dell’ordinamento istitu­ zionale e il sistema di governo dei « complessi sociali » di cui l’area fa parte. Il problema delle aree depresse non è un problema che si istituisce e si chiude in se stesso, ma, al contrario « ... l’apertura di un discorso che pone sotto giudi­ zio ogni sistema sociale esistente e le concezioni che rispettivamente vi presiedono » (pag. 13).

Su questa linea il dialogo con i giovani della « terza generazione » diventa non solo possibile, ma na­ turale, inevitabile. Come si ricor­ derà infatti, all’inizio degli anni cinquanta — e con più chiara con­ sapevolezza dopo le elezioni del 1953 con il consolidamento e la teorizzazione del « centrismo » co­ me formula stabile di equilibrio politico sul piano parlamentare e di governo — le insoddisfazioni, le critiche, i movimenti giudicati

spesso « eversivi » dei giovani, e, se si vuole, in positivo, la ricerca di forme di impegno politico ohe non si esauriscano nella dialettica interna dei partiti, muovevano tut­ ti da un atteggiamento critico nei confronti dello Stato storico e da un giudizio sostanzialmente nega­ tivo sulla suffìcenza delle istituzio­ ni ad esprimere i bisogni e le attese dei cittadini e a valorizzare le ca­ pacità di iniziativa esistenti a li­ vello individuale e di gruppo nelle diverse zone del paese. Nel 1954, quando il colloquio con i giovani si farà più intenso, Sebregondi dirà che al « rinvigorito interesse per il sociale » (e cioè per le inchieste, per i problemi del social Service,

per le iniziative di sviluppo comu­ nitario) non si può dare — forse neppure per i cattolici — un’origi­ ne prevalentemente culturale o ideologica, « ... bensì un’origine eminentemente pratica, nata dalla constatazione del cedimento gior­ naliero della struttura formale del­ lo Stato democratico di fronte agli squilibri e alle tare della struttura economica, politica e sociale del paese, nonché dalla constatazione dell’incapacità, non solo dei tradi­ zionali strumenti di amministra­ zione, ma anche delle più recenti formule di intervento pubblico e privato, di giungere a trovare ri­ spondenza al loro operato in larghi strati e settori della vita nazio­ nale » (pag. 226).

Che fare? E ’ ancora da Sebre­ gondi che vengono indicazioni estremamente interessanti. « Non

sembra vano pensare che in un movimento popolare per lo sviluppo le forze intellettuali provinciali o periferiche, anziché disperdersi emigrando o mortificandosi nella monotonia e nell’inconcludenza del­ la vita locale, o invece di corrom­ persi assumendo poteri e instau­ rando rapporti di clientela, possa­ no avere l’occasione di una piena valorizzazione facendosi quadri « organici » della loro comunità. Farsi quadri o intellettuali orga­ nici di una comunità significa farsi quadri o intellettuali conformi alle caratteristiche storiche di quella comunità e capaci di comprendere a fondo, di esprimere e di orien­ tare senza coartazione, le esigenze, le aspirazioni, le possibilità della comunità stessa, della sua vita in­ terna, e del suo inserimento nel più vasto ambiente che la circon­ da » (pag. 277). Queste indicazioni esercitavano sui giovani una forte suggestione: accentuata forse dal­ l’influenza di Gramsci. Tale in­ fluenza era presente anche tra i cattolici : i quali non condividevano ovviamente la parte, per così dire, leninista del pensiero gramsciano — e cioè in buona sostanza la so­ luzione del problema dello Stato — ma erano estremamente sensibili ai discorsi sulle funzioni e le re­ sponsabilità dell’intellettuale.

Il dialogo tra Sebregondi e i giovani non si ferma quindi alla diagnosi, ma si muove alla ricerca delle soluzioni, diviene più costrut­ tivo e per alcuni gruppi si traduce addirittura in programmi di la­

voro. Sebregondi riuscì dove molti prima di lui erano falliti, a indi­ care il modo di tradurre in ini­ ziative, in concrete forme di impe­ gno quelle che molto spesso, nei giovani, sono solo esigenze indi­ stinte e aspirazioni confuse. Così i suoi scritti — ed ancor più i suoi consigli e la sua capacità, nella conversazione, di rendere evidenti e chiari anche i problemi più com­ plessi — divengono ben presto un punto di riferimento per tutti colo­ ro che decidono, come allora con grande approssimazione di linguag­ gio si diceva, di « impegnarsi nel sociale » : e cioè in un’azione di reperimento e di valorizzazione del­ le capacità imprenditoriali esistenti nel paese e che non riescono com­ piutamente ad esprimersi all’inter­ no delle istituzioni esistenti. I giovani che si mettono su questa strada trovano un altro compagno di viaggio in Felice Balbo, legato a Sebregondi oltre che da fraterna amicizia, da comuni esperienze po­ litiche e di ricerca. Solo che la ricerca di Balbo intorno al tema più generale, filosofico, della rea­ lizzazione dell’uomo (o meglio, co­ me lui diceva : intorno al problema di cosa fare per realizzare l’uomo) agiva più sulle motivazioni dell’im­ pegno e, se si vuole, creando una forte tensione morale, sulla sua intensità; l’ insegnamento di Se­ bregondi, ad esempio le indicazioni di come l’azione di sviluppo dovesse essere intesa nelle diverse situa­ zioni storiche, più sulle modalità. E così mentre Balbo dimostrava che

la presenza del momento filosofico è essenziale in qualsiasi operazione di sviluppo (« solo quel tipo di co­ noscere che permette all’uomo di cogliere l’essenza delle cose può determinare teoricamente e orien­ tare praticamente l’esplicazione del virtuale nelle cose stesse »), Sebre­ gondi richiamava l’attenzione sulla componente storica del problema, anche lui sviluppando il discorso intorno ad un tema centrale : quello del distacco tra Stato e società ci­ vile: « ...I n sostanza all’origine del movimento sociale in atto, vi è la constatazione o almeno la vaga percezione, di una progressiva frat­ tura fra istituzioni e apparato del­ lo Stato democratico, da un lato; e problemi, forze e prospettive di una crescente parte della vita na­ zionale, dall’altro. I movimenti so­ ciali di ogni derivazione si pon­ gono oggi un problema comune: sfuggire al distacco tra Stato e popolazione o all’oppressione dello Stato sulla popolazione, sfuggire alla disgregazione politica e socia­ le... » (pag. 226).

Il compito è tutt’altro che facile e coinvolge problemi di fondo. Lo ricorderà Balbo, ancora nel 1960, nelle sue « tesi filosofiche per lo sviluppo sociale » : « Stiamo uscen­ do a fatica da una concezione pro­ fondamente ingiusta prima ancora che antidemocratica, per la quale, volere o non, tutta l’umanità su­ balterna della società (quella che non è ” classe dirigente ” ) viene ancora considerata nei fatti come affetta da qualche inferiorità uma­

na non vincibile, anche se tutti sono considerati uomini. C’è in questo una sfiducia fondamentale nell’uomo che è temperata solo dal­ la pietà. Ma si è scettici sulle pos­ sibilità di un futuro miglioramento sociale, soprattutto se questo com­ porti un rinnovamento del costume e impegni profondi di tutta la vi­ ta ». E tuttavia bisogna evitare le tentazioni di sfiducia: su questo Sebregondi e Balbo sono chiari e concordi. Si tratta solo di aver coscienza delle dimensioni del pro­ blema per trovare soluzioni ade­ guate e soprattutto la giusta mi­ sura dell’impegno. Siamo di nuovo al « che fare ».

Come agire per lo sviluppo? Quali idee di ordine teoretico, eti­ co e tecnico sono necessarie per una ragionevole azione di sviluppo? Quali sono i criteri di orientamen­ to e di giudizio che consentono di determinare un vero sviluppo so­ ciale? Gli interrogativi sono di Balbo: negli scritti di Sebregondi troviamo più di una risposta. Ci preme in questa sede, tenendo an­ che conto degli interessi dei let­ tori di « Centro Sociale », ricorda­ re la più importante: quella che vuole definire le caratteristiche del- 1’« azione di sviluppo », cioè in buona sostanza le condizioni per assicurare la necessaria base di consensi e di partecipazione ai programmi di sviluppo. Su questo tema come già si è accennato il dialogo tra Sebregondi e i giovani diviene estremamente preciso. Se­ bregondi ne fa esplicito riferimen­

to in uno scritto del ’54 intitolato: « Sviluppo della società e democra­ zia diretta» (pagg. 223-239): « V i sono in Italia gruppi di giovani che si dedicano alla ricerca di una strada di rinnovamento e di svilup­ po della società nazionale... Il loro atteggiamento innovatore investe con una sensibilità che è più accesa di quella delle generazioni prece­ denti i problemi sui quali è in giuoco l’avvenire del paese [ed è qui che si può forse trovare il motivo del particolare interesse di Sebre­

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