DIECI SECOLI DI TEATRO INGLESE
IL TEATRO LAICO MEDIEVALE
6. Il compromesso fra teatro classicheggiante e teatro popolare
Perdurando la voga degli interludi, sempre a contenuto morale e di variabile destinazione, esiste poi un gruppo di autori e di testi che potremmo definire in bilico fra l’imitazione diretta del teatro classico, e la continuazione delle tradizioni locali visibili negli interludi veri e propri. Tale incertezza si riflette nei titoli stessi dei lavori, talora definiti “commedia tragica”, o con altre perifrasi. Anche questi testi ebbero almeno inizialmente destinazione universitaria, ma almeno alcuni presero sempre più a circolare anche fra spettatori meno raffinati, nelle osterie o in luoghi simili, con successo. Il vero punto di contatto fra Shakespeare e compagni e l’eredità del teatro medievale è qui, più assai che negli esangui esperimenti di Norton, Sackville, Gascoigne. Rispetto ai quali autori i drammaturghi di questo gruppo appaiono molto più attenti alle esigenze dello spettacolo. Per esempio, i loro lavori abbondano di didascalie con istruzioni agli attori, descrizioni di effetti, ecc. Una nella sua ingenuità può essere presa ad emblema di come lo scrittore di teatro sia conscio ormai di disporre di molte altre possibilità espressive, oltre quelle contenute nelle parole. Penso a un Oreste di John Pikeryng (stampato nel 1567), che come appare nello stesso titolo – A New Interlude of Vice, Conteyninge the Historye of Horestes amalgama più tradizioni. Il protagonista è a un bivio: il matricidio sembra inevitabile, ma Natura lo esorta a desistere. Oreste non sa che pesci pigliare. Invece di comporgli una tirata in cui descriverci la sua indecisione, l’autore se la cava con una didascalia per l’attore: “qui Oreste tira un profondo sospiro”.
Anche Apius and Virginia (stampato nel 1575), di “R. B.”, combina un tema classico con la presenza dei Vizi, delle astrazioni allegoriche e di altri elementi popolari che si
vanno affermando, come le musiche e le canzoni, presenti in molti testi. Qui gli orrori sono tutt’altro che confinati: la figlia compromessa di Virginio viene decapitata in scena.
Altra storia di derivazione classica, la fonte essendo stavolta Erodoto, quella di Cambyses (1569?), probabilmente di Thomas Preston, che fu a Eton e al King’s College di Cambridge. Anche questo testo, vero culmine del gusto per l’orrifico, attesta la crescente voga per il “teatro-teatro”, con i suoi effetti spesso descritti in minuziosissime didascalie (una consiglia di forare una vescichetta piena di aceto per simulare una ferita).
Con la sua truce vicenda di assassini e vendetta, con i suoi sfoghi quasi isterici di ira, vanterie, lamenti, con la sua retorica stralunata, Cambyses presenta già parecchi tratti del teatro popolare che veniva prendendo piede, allo stesso temo mantenendone altrettanti legati alla tradizione dell’interludio con morale. Se cerchiamo un’opera di transizione esemplare, non potremmo sceglierne una più eloquente. La lista dei testi al pari di Cambyses scritti da letterati, continua con Like will to like di Fulwell; con The Tyde taryeth no Man di Wanpull; con Promos and Cassandra (1578) di George Whetstone, prima drammatizzazione inglese dallo spunto poi rielaborato da Shakespeare in Misura per misura (il governante corrotto che tenta di barattare la virtù di una fanciulla con la vita del suo fratello condannato), e derivato da Giovambattista Girladi Cinthio. Sin da quest’epoca la novellistica italiana diventa il grande repertorio dei drammaturghi: a ben due terzi dei drammi elisabettiani a noi noti è stata reperita una fonte italiana.
Gli eruditi
Inevitabilmente la storia del teatro è poi anche quella degli autori teatrali. Di quasi nessuno (l’eccezione maggiore è costituita da Ben Jonson) si apprezza oggi tutta l’opera, come per Shakespeare, ma piuttosto si tende a “salvare” qualche titolo, non necessariamente gli stessi che piacquero allora; in questo certo commettendo un arbitrio. Altro arbitrio è il nostro privilegiare la tragedia sulla commedia. La validità di un testo si saggia in primo luogo attraverso la sua esecuzione scenica; ma tale opportunità i romantici, furono sempre restii a concederla ai testi comici. E noi abbiamo ereditato, in gran parte, i loro pregiudizi.
Della nostra galleria faranno parte soltanto i professionisti. Da Ben Jonson in poi tale qualifica poté essere compatibile con quella di letterato colto, umanista, immodesto;
la sintesi di teatro dotto e teatro popolare sostanzialmente si attuò. Del resto che gli umanisti avessero cessato di sperare in una loro conquista delle scene, lo dimostra la mediocre statura di chi malgrado tutto, e nell’indifferenza generale, continuò a comporre tragedie sul modulo derivato dai classici. Di tali figure di drammaturghi eruditi, il più interessante è Samuel Daniel (1563-1619), la cui Cleopatra (1594, rielaborata nel 1607), in quartine, presenta una staticità di azione accostabile al teatro di Corneille.
Ben Jonson (1572-1637)
Il primo e maggiore gigante del teatro “elisabettiano” in cui ci si imbatta non appena si distoglie lo sguardo da Shakespeare è certamente Ben Jonson, che assunse spesso un atteggiamento antagonistico nei confronti del collega più anziano, Londinese, orfano del padre, un ecclesiastico, e destinato a abbracciare la professione del patrigno, mastro muratore, Ben Jonson aveva avuto la fortuna di incontrare l’insigne antiquario William Camden, che lo accolse alla scuola di Westminster. Fu forse a Cambridge, e quindi combattè volontario nelle Fiandre, dove uccise un nemico faccia a faccia. Henslowe registra Ben Jonson come autore e attore presso i suoi Admiral’s Men nel ’97; l’anno successivo Ben ammazzò in duello un collega e, arrestato, ricevette sul pollice il marchio a fuoco dell’assassino prima di essere liberato per intervento di uomini di chiesa, in circostanze poco chiare (fra l’altro si convertì temporaneamente alla religione cattolica). Collaborò, sempre da indipendente, con i Chamberlain’s Men, e lo stesso Shakespeare recitò nella sua prima commedia pervenutaci, Every Man in His Humor. Per Henslowe curò ancora, fra l’altro, certe
aggiunte alla Spanish Tragedy; quindi raggiunse il successo con tre prime commedie brillanti, Every Man Out of His Humor per i Chamberlain’s Men, Cynthia’s Revels e Poetaster per i fanciulli della Queen’s Chapel; Poetaster fu pagata 10 sterline, due volte e mezza il compenso consueto. Nel 1603 i Chamberlain’s Men gli rappresentarono al Globe la tragedia Sejanus, mal ricevuta dal pubblico ma apprezzata dai dotti. Dal 1605 si specializzò nei masques di Corte, lavorando in tandem con l’architetto Inigo Jones.
Ebbe ancora guai con la giustizia: nel 1605 i suoi colleghi Chapman e Marston furono imprigionati per allusioni satiriche nella loro commedia Eastward Ho, e Jonson, che vi aveva lavorato anche lui, volle raggiungerli al fresco. Potenti amici ottennero il rilascio del terzetto. Lo stesso anno la commedia Volpone mietè successi, prima al Globe, quindi a Oxford e Cambridge. Seguì un decennio di prosperità, a Corte come sulle scene “pubbliche” e “private”: le commedie di questo periodo contengono alcuni dei suoi capolavori, Epicoene, The Alchemist, Batholomew Fair, The Devil is an Ass, cui va aggiunta la compassata tragedia Catiline.
Fu in Francia nel 1613, viaggiò in Scozia nel 1618, venendo accolto con ogni onore da letterati e autorità locali.
Nel 1619 ebbe un diploma onorario a Oxford, e una pensione dal Re. Ma Carlo I, successo a Giacomo nel 1625, lo tenne in minor conto del predecessore; contrasti con Inigo Jones fecero assegnare ad altri i masques di Corte fra il 1626 e il ’29; e Jonson, forse spinto dal bisogno, tornò al teatro commerciale, ma senza fortuna. The Staple of News (1625) è la sua ultima commedia di qualche pregio.
La munificenza del duca di Newcastle gli commissionò due ultimi masques; dal 1634 la città di Londra gli riaffidò l’incarico di cronista poetico; versi d’occasione e l’incompleto Sad Shepherd furono gli ultimi parti della sua penna. Morì nel 1637 e fu subito sepolto a Westminstr Abbey; l’epigrafe famosa – “O rare Ben Jonson” fu dettata da un visitatore causale. Un anno dopo la sua scomparsa uscì col titolo Jonsonus Virbius una raccolta di elegie commemorative, dettate da tutti i principali poeti inglesi viventi.
Letterato finissimo, erudito, traduttore dell’Ars poetica di Orazio, autore di epigrammi, canzoni, odi, epistole, Jonson eccelse inoltre come nessun altro nell’effimera arte di comporre masques, intermezzi drammatici a carattere occasionale, a soggetto allegorico, comprendenti musiche e danze, e dove l’opera di scenografi e costumisti aveva la parte preponderante. Nelle mani di Jonson, il genere giunse a vette non superate di grazia e fantasia vaporosa; memorabili fra le altre The Masque of Queens (1612), Pleasure reconcil’d to Vertue (1618), News from the New
World (1631). La reputazione di Ben Jonson ha comunque sofferto in ogni epoca dall’inevitabile confronto col genio di Shakespeare. E’ facile infatti costringer i due grandi contemporanei in schemi preconcetti e antitetici, contrapponendo all’erudizione di Jonson, scrittore per letterati, la vena libera e trionfalmente popolare dell’altro (ripetutissimo il giudizio di Jonson su Shakespeare riportato da Drummond, secondo cui il poeta di Stratford “mancava di arte”); a Jonson cittadino, corpulento, saccente, rissoso, eroe delle dispute letterarie nella taverna Mermaid, poeta di Corte e capostipite di una teoria di “laureati”, lo Shakespeare schivo, misterioso, inafferrabile, forse a disagio nella metropoli, certo nostalgico della sua campagna, in cui si ritirò al riapro da intrighi e cure quando ebbe raggiunta la sicurezza economica.
Senonché il contrasto non è tanto fra Jonson e Shakespeare, quanto fra la tragedia
“elisabettiana” (quindi anche di Marlowe, Webster, Ford) e quella vagheggiata da Jonson, fondata su regole di misura, decoro e cultura di stampo umanistico, modellata sulla tradizione rinascimentale italiana; e sostanzialmente sgradita al pubblico dei suoi tempi. Questo è vero per Sejanus, con la storia dei complotti e della caduta del luogotenente di Tiberio, derivata da Tacito e Svetonio, come per Catiline (1611), che in quanto atteggiati in prolissi conflitti verbali non potevano piacere a spettatori ormai conquistati dai drammi a fortissime tinte e pieni di azione.
Ma Jonson rimane nella storia del teatro vivo grazie alle commedie. Fu questo il genere in cui eccelse.
Jonson definì la sua una commedia di “umori”, ovvero, diremmo noi, di temperamenti o di manie: il termine deriva dalla medicina rinascimentale, secondo la quale l’uomo equilibrato presenta una pacifica coesistenza fra gli umori o liquidi del suo organismo (sangue, bile, catarro, acqua), mentre qualunque predominio di un umore sugli altri causa variazioni nel temperamento (sanguigno, collerico, malinconico, e via dicendo). Jonson mette in scena macchiette a una dimensione sola, grottescamente governate da una di tali passioni, esasperazione di quelli che al drammaturgo parvero i vizi dell’epoca, a esclusione di ogni altra cosa. Per esempio, il protagonista di Every Man in His Humor (1598 e 1601) è un geloso, e accanto a lui formicola una moltitudine di maniaci consimili: un padre preoccupato della moralità del figlio, un soldato vanaglorioso, un servo imbroglione, ecc., fino a fornire un quadro vasto e vivo della società di allora.
Le origini della satira jonsoniana sono profondamente letterarie; Jonson flagella i vizi dell’epoca sua con l’occhio sempre rivolto a Persio e Giovenale.
L’autore appare ancora troppo vincolato dalle sue stesse pastoie teoriche in Every Man out of His Humour, dove la meccanicità dei personaggi arriva al paradossale; in
Cynthia’s Revels (1601), reminiscenza della vecchia moralità medievale per la pesante allegorizzazione dei quattro stolidi cortigiani cui fanno da contraltare quattro dame vanerelle (Cinzia è la regina Elisabetta); e in Poetaster (1601), dove l’accurata ricostruzione dell’ambiente letterario alla corte di Augusto è veicolo di allusioni a contemporanei. Qui Jonson appare ancora lontano dall’equilibrio fra le grottesche dilatazioni dei vizi che vuole colpire e i riferimenti alla realtà contemporanea, che come i suoi modelli latini vuole inserire a ogni costo. Non che manchino momenti spassosi; in Poetaster, per esempio, è memorabile quello in cui Demetrio/Dekker viene fatta ingoiare una pillola che provoca il vomito di vocaboli indigesti, pedanteschi, del suo repertorio: “turgidous”, “oblatrant”, e simili. Ma poi Jonson riuscirà a sposare questa vena mordace e sfrenata fino al surrealismo con una eleganza e una precisione veramente classiche.
Ciò avviene nella stagione dei capolavori: Volpone (1606), Epicoene or the Silent Woman (1609-10), The Alchemist (1611), e Bartholomew Fair (1614). Con The Devil is an Ass (1616) siamo già in una fase di decadenza, né le ultime commedie torneranno più a quelle quote, con l’eccezione dell’incompiuta, serena fiaba pastorale postuma, The Sad Shepherd.
Mutuata dalla letteratura classica è la figura del captator, o cacciatore di legati testamentari. Volpone, ricco veneziano, si finge moribondo, e con l’aiuto del servo Mosca spreme gran copia di regali a una turba di sordidi clientes, spinti ciascuno dalla speranza di essere nominato suo erede. Corvino addirittura si lascia convincere a prostituirgli la giovane moglie (il brano con le suppliche di costei è fra i più forti di questa cupa commedia). Finalmente Mosca tenta di ricattare il padrone, e dal conflitto fra i due esplode lo smascheramento del complotto e la punizione generale.
La visione del mondo in Volpone è totalmente amara, negativa, a partire dal famoso attacco col saluto del protagonista al giorno e alle proprie ricchezze.
La totale assenza di personaggi “positivi”, per i quali lo spettatore possa simpatizzare, non hanno impedito a Volpone di mietere successi in ogni epoca; è questo probabilmente il testo elisabettiano più noto, dopo quelli di Shakespeare.
Epicoene, composto per una compagnia di fanciulli, è altrettanto pieno di reminiscenze classiche. L’”umore” del protagonista, Morose, è una folle intolleranza per qualsiasi tipo di suono. Questo burbero vuole sposarsi per diseredare un nipote odiato, e cerca pertanto una donna capace di vivere in perfetto silenzio; mediante il suo barbiere sceglie la taciturna Epicoene, che però subito dopo le nozze gli riempie la casa di una comitiva fragorosissima. Fuori di sé, Morose cede all’offerta del
nipote, disposto a sbarazzarlo della donna in cambio di una ricce rendita; e scopre allora trattarsi di una beffa, Epicoene è un ragazzo travestito.
In The Alchemist – forse il capolavoro assoluto di Jonson, almeno per quanto riguarda la costruzione – quattro farabutti approfittano dell’assenza di Love-wit per occupargli la casa e servirsene come base donde truffare e beffare ogni sorta di gonzi; sfila così tutta una ridicola teoria di borghesi in cerca delle cose più assurde. Jonson ha modo di sfoggiare grande maestria nell’incastro dei vari spunti. Un cliente, per esempio, reca del metallo vile che vuole trasformarlo in oro; questo è subito venduto a un altro cliente come proprietà di orfani bisognosi. Un possidente di campagna si presenta con la sorella per imparare le maniere cittadine, e subito la ragazza viene offerta a un cliente che è venuto credendo trattarsi di un bordello.
Gran parte della comicità deriva dal virtuosismo verbale di Jonson (autore fra l’altro di una delle prime grammatiche della lingua inglese), che spesso si manifesta nell’accumulo veemente, travolgente – e intraducibile – della parola: vedi il linguaggio scientifico parodiato nell’Alchimista, e vedi le tirate contro il vizio del giudice Overdo di Bartholomew Fair. Quest’ultima commedia sciorina tutto il talento dell’autore per l’aneddotica, e tutta la sua bravura nel caratterizzare i personaggi minori. La trama è quasi inesistente: un contadino alla fiera di Smithfield viene successivamente derubato di ogni cosa; un puritano è messo in ridicolo; il giudice, che assisteva alla fiera travestito per scoprirne magagne, è scambiato per un borsaiolo e messo alla berlina. Un immenso affresco di plebe, di rado rappresentato ai nostri giorni (richiede più di quaranta attori), ma di infallibile effetto sulle scene; autentico monumento al popolo londinese da parte del poeta più suo.
George Chapman (1559?-1634)
In qualche modo vicino a Jonson per il suo background di letterato e studioso fu George Chapman, erudito e poeta che gravitò nell’orbita di Sir Walter Ralegh e della sua “scuola della notte”, autore di poemi e soprattutto di una versione di Omero, che dopo essere stata a lungo accantonata in epoche più sobrie fu riscoperta dai romantici, e infiammò il giovane Keats. Al teatro Chapman arrivò tardi, verso i quarant’anni, né egli vi apparve mai veramente a suo agio, a differenza degli altri “professionisti”. Di lui restano otto commedie e sei tragedie, queste ultime composte a partire dal 1605 circa, quando appunto la richiesta di tragedie aumentò. Le commedie, la più antica delle quali, The Blind Beggar of Alexandria, è del 1595-6, sono parenti di quelle coeve di Ben Jonson; non a caso il titolo della seconda è An Humourous Day’s Mirth (“Allegria di una giornata ricca di umori”); e i personaggi che danno vita al complicatissimo intreccio formano una galleria di stereotipi monodimensionali, il bellimbusto, il vecchio geloso, la dama puritana, ecc.
All Fools (1598-99) è il rifacimento dell’Heautontimorumenos di Terenzio;
probabilmente per questo è considerata la meglio costruita fra le sue commedie.
Chapman non possiede l’aggressivo senso del grottesco di Ben Jonson. Fra i lavori per i Children of the Chapel si ricordano May Day (1600-1602), Sir Giles Goosecap;
e poi ancora The Gentleman Usher, e The Widow’s Tears, anche questa da uno spunto classic, la storia della Matrona di Efeso, letta nel Satyricon. Con Marston e Ben Jonson Chapman collaborò inoltre alla commedia Eastward Ho, che ebbe guai per certi accenni offensivi contro gli scozzesi, compatrioti del sovrano.
Nella tragedia Chapman soffrì meno lo svantaggio della sua mancanza di senso del comico, ed ebbe modo di sfruttare meglio la sua disposizione all’ampollosità: male che affligge spesso i suoi eroi.
Tranne la tarda, stanca Tragedy of Caesar and Pompey, tutte le sue tragedie sono derivate dalla recente storia francese. Due sono collegate, The Conspiracy e The Tragedy of Biron, e insieme formano una lunga cronaca in dieci atti dei fatti relative all’esecuzione del duca di Biron nel 1602; attraverso il suo ambasciatore, Enrico IV ottenne la soppressione di molti passi sgraditi.
Il suo unico contributo teatrale che vive tuttora è Bussy d’Ambois, forse del 1604, cui fu composto un seguito con The Revenge of Bussy d’Ambois intorno al 1610. Dryden avrebbe parlato di “pensiero di nano, abbigliato in parole da gigante”; ed effettivamente Chapman ha la specialità di dilatare i concetti e le espressioni verbali, anche se non sempre in modo infelice.
Nel personaggio di Bussy egli riuscì a mettere insieme qualcosa di più. Bussy è un brillante, ambizioso, insaziabile favorito del duca d’Alençon, il quale lo introduce alla corte di suo fratello, re Enrico III. Qui Bussy fa innamorare di sé Tamyra, contessa di Monsurry. Geloso, lo stesso Alençon ne avverte il marito; la contessa è costretta a invitare Bussy a un convegno-trappola (e nel vano tentativo di segnalargli l’inganno, verga la lettera col proprio sangue), dove troverà la morte. Bussy risulta il più memorabile fra i manierati personaggi di Chapman, e non a caso l’autore tentò di resuscitarne il fantasma nella Revenge, in cui Clermont, fratello di Bussy, si vede imporre, come Amleto, il compito di vendicarlo. Clermont esegue, uccidendo il conte di Monsurry, e infine, disgustato dagli orrori del suo tempo si toglie la vita anche lui.
John Marston (1576-1634)
Apparentabile a Chapman e a Ben Jonson è infine John Marston, che studiò a Oxford e che lasciò il teatro per prendere gli ordini sacri nel 1610. Marston lavorò quasi esclusivamente per le compagnie dei fanciulli. Prima di collaborare con Jonson (e con Chapman) in Eastward Ho, fu in polemica contro l’autore di Volpone, caricaturandolo come Crysoganus nella commedia Histriomastix e venendone rampognato come Crispinus in Poetaster. Jonson si sarebbe vantato in seguito di avergliele suonate, una volta, e di avergli tolta la pistola.
Marston trovò una sua fisionomia originale con Malcontent (1604), The Dutch Courtezan (c. 1603-04) e con Sophonisba (1606): due commedie e una tragedia, anche se il torvo Malcontent è commedia solo nel senso in cui lo sono Troilo e Cressida e Misura per misura. Il pessimista Malevole è un duca di Genova spodestato e trasformatisi in consigliere dell’usurpatore, fino al punto di proteggerlo contro le mene di ulteriori cospiratori che lo insidiano. Alla fine Malevole torna in possesso del ducato e distribuisce un perdono generale. Ma lo scioglimento contrasta col tono disilluso di tutta la commedia: Malevole ha appreso il cinismo a sue spese.
Più briosa The Dutch Courtezan, in cui la cortigiana olandese del titolo, abbandonata da un amante che sposa un’altra, chiede a un secondo innamorato di vendicarla uccidendo l’uomo che l’ha offesa; ma questi, amico della vittima designata, finge soltanto l’esecuzione, e proprio la cortigiana finisce per essere castigata con frusta e
Più briosa The Dutch Courtezan, in cui la cortigiana olandese del titolo, abbandonata da un amante che sposa un’altra, chiede a un secondo innamorato di vendicarla uccidendo l’uomo che l’ha offesa; ma questi, amico della vittima designata, finge soltanto l’esecuzione, e proprio la cortigiana finisce per essere castigata con frusta e