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STORIA DELLA LETTERATURA INGLESE A cura di Paolo Bertinetti DALLE ORIGINI AL SETTECENTO

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STORIA DELLA LETTERATURA INGLESE A cura di Paolo Bertinetti

DALLE ORIGINI AL SETTECENTO

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IL RINASCIMENTO E SHAKESPEARE Rosanna Camerlingo

Tra Umanesimo e Riforma: la fucina della grandezza

Il XVI secolo fu per l’Inghilterra il secolo più sconvolgente dopo la Conquista normanna, il più ricco d’eventi cruciali: sociali, economici, politici, religiosi, letterari.

Fu davvero l’inizio esplosivo di tutto: della sua identità nazionale e linguistica, della (sua letteratura e della sua potenza politica ed economica, l’inizio anche della sua espansione nel mondo.

Si trattava ora di unificare l’isola annettendovi il Galles e la Scozia, che rimaneva ancora indipendente, e l’Irlanda, tenacemente ribelle. Enrico VIII dichiarò l’indipendenza della Corona inglese dalla Santa Sede e con l’Atto di supremazia nel 1534 si proclamò capo della Chiesa d’Inghilterra. Il monarca inglese usò le nuove idee prodotte nella Germania di Lutero al solo scopo di appropriarsi delle cospicue ricchezze ecclesiastiche. La Riforma distrusse tradizioni e consuetudini, abbazie e libri, ma permise una rivoluzionaria modernizzazione dell’apparato giuridico- amministrativo e il decollo orgoglioso di una nuova cultura politica e letteraria. In ogni caso per essa caddero molte teste.

Isole reali, isole ideali: More, Tyndale

“Utopia” è una parola coniata sul suolo inglese da Thomas More (1477?-1535). E’ il titolo della sua opera più nota, pubblicata in latino nel 1516 e tradotta in inglese solo nel 1551. “Utopia” che vuole dire non-luogo oppure luogo del bene, dal greco ou (“senza”) o eû (“bene”) e tópos (“luogo”), è il nome dell’isola visitata da Raphael Hythlodoeus in una località indefinita del Nuovo Mondo. Un’isola che contiene 54 città-stato, “tutte spaziose e magnifiche, identiche nella lingua, tradizioni, costumi e leggi”. Avendone conosciuta una se ne conoscono tutte. Qui More stabilisce la sede di uno Stato ideale dove non esistono proprietà privata, né denaro, né differenza di rango, dove la guerra è sconosciuta e tutti lavorano sei ore al giorno, dove la famiglia condivide beni e figli con la comunità e non c’è posto per l’ambizione personale o il

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conflitto politico, né per lo spreco del lusso, né per il privilegio o il sopruso: queste sono le principali caratteristiche di Utopia.

La sobria e retta isola di Utopia sembra voler essere la rappresentazione e contrario dell’attuale isola d’Inghilterra, rigidamente divisa da gerarchie sociali, smodatamente teatrale, vanagloriosa e pretenziosa, ingiusta e violenta, mal governata dalla folle ingordigia dei potenti. L’Utopia di More costituisce forse il primo esempio di critica della società contemporanea che adotta come strategia retorica un punto di vista esterno e “razionale”.

Il dialogo fra il troppo integro Raphael Hythlodoeus (che significa “dotto in nonsenso”) e un raffinato e semiserio Morus (o, secondo l’etimologia greca “matto”), mette in luce i dubbi e le perplessità sul pericolo che l’abolizione della proprietà privata costituisce.

Principalmente, tuttavia, il dialogo tra Hythlodoeus e Morus mette in scena il dilemma cruciale dell’umanesimo europeo: può il sapere (o la filosofia) agire sulla prassi civile? Può il sapiente (o il filosofo) avere un ruolo nella vita politica del suo paese? Dopo il 1516, la data di pubblicazione di Utopia, Enrico VIII offrì a More l’incarico di Lord Chancellor, la carica più importante del governo. Questi anni segnano il passaggio dal More umanista al More teologo e polemista.

More era approdato al suo capolavoro politico/filosofico dopo aver tradotto The Life of Johan Picus Erle of Myrandula (La vita di Pico della Mirandola, 1505), il neoplatonico fiorentino convertitosi alle idee radicali del monaco dissidente Girolamo Savonarola, e molti dialoghi di Luciano, scelti tra quelli che maggiormente attaccavano l’avidità e l’abuso dei potenti, la superstizione, l’ignoranza e la cupidigia del clero.

Laureatosi in giurisprudenza all’università di Oxford, More ricevette una educazione interamente imbevuta dell’umanesimo importato dall’Italia in Inghilterra negli ultimi decenni del Quattrocento dagli ecclesiastici William Grocyn (1446-1519) e Thomas Linacre (1460-1524). Fu grazie al loro entusiasmo per il “nuovo sapere” che nei curricula dell’università di Oxford furono inseriti lo studio della letteratura greca, della filosofia e delle scienze. Il decano della cattedrale di St Paul, John Colet (1466- 1519) fondò la scuola di St Paul a Londra ispirandosi ai principi umanistici. Fu in questo clima di rinnovamento culturale che Erasmo arrivò in Inghilterra nel 1499 per risiedervi poi dal 1509 al 1514. Insieme con Erasmo, che gli dedicò il più arguto dei suoi scritti, l’Elogio della follia (1511), More fu il promotore del più eloquente e brillante programma di riforma del cristianesimo.

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Fu proprio questa brillante erudizione che Enrico volle mettere al servizio della sua causa politica negli anni turbolenti che videro lo scisma da Roma. Seppure esitante e consapevole dei pericoli che comportava diventare il consigliere del tirannico e imprevedibile Enrico, More accettò l’incarico: “I miei pensieri e il mio cuore erano a lungo stati disposti a una vita ritirata, quando improvvisamente, senza avviso, sono stato gettato in una massa di affari di vitale importanza”, scriveva a Erasmo nel 1529.

Quando Martin Lutero, dopo aver fatto circolare le sue celebri 95 tesi nel 1517, fu scomunicato (1521) e dichiarato fuorilegge da Carlo V, il programma di rivitalizzazione del cristianesimo dal suo interno si era trasformato in un attacco dall’esterno.

Guerra di libri

Lutero non rimase passivo di fronte alla scomunica. La prima reazione fu la pubblicazione di La prigionia di Babilonia, un trattato in latino indirizzato a un clero colto in cui proponeva la liberazione della spiritualità cristiana dalla corruzione delle istituzioni della Chiesa cattolica. Inoltre, respingeva la validità di tutti i sacramenti a eccezione del battesimo e dell’eucarestia.

Se Lutero da una parte destituiva il clero di ogni potere sulla vita spirituale del fedele (il solo principio di autorità sono le Sacre Scritture), dall’altra accresceva immensamente quello di Dio. Si tratta di quella che Calvino definirà più tardi teoria della predestinazione, una teoria inconciliabile con quella cattolica.

Per i cattolici la grazia si guadagna con le “opere”, per Lutero essa dipende interamente dalla imperscrutabile decisione divina.

Le due tesi avevano naturalmente conseguenze etico-sociali del tutto divergenti. E sono queste conseguenze che maggiormente interessavano More. In primo luogo, la negazione delle opere e la giustificazione tramite la fede sostenute da Lutero avrebbero portato a una graduale apatia sociale e civile. More scriveva nel Dialogue Concerning Heresies (Dialogo sulle eresie,1528).

L’ostinata iconoclastia di Lutero minacciava la comunicazione con Dio e tra gli uomini. More, come Erasmo, pur condividendo con Lutero la necessità di una riforma, temeva più di ogni altra cosa la disobbedienza civile e la frammentazione dell’Europa cristiana. Ma se Erasmo rifiutò di prendere partito, per More l’unità del

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cristianesimo e il sistema giuridico garantiti dalla Chiesa cattolica andavano difesi a tutti i costi. Qui i toni sono duri, seri, decisi, sarcastici, anche violenti. E lo divennero ulteriormente quando l’”infezione” dell’eresia di Lutero si diffuse inevitabilmente sul suolo inglese.

William Tyndale (1495-1536)

Non fu Lutero, tuttavia, il più accanito avversario di More, bensì l’inglese William Tyndale.

Tyndale nacque nel Gloucestershire nel 1495, si laureò a Oxford nel 1515 e pronunciò i voti nel 1528. Nel 1523 arrivò a Londra con la speranza di produrre, sotto la protezione del vescovo Tunstall, una Bibbia inglese “che anche un aratore potesse capire”. Ma la traduzione dei testi sacri incominciò a essere identificata con la causa luterana e la richiesta di Tyndale fu respinta. Tyndale si recò all’università di Wittenberg dove conobbe Lutero, e da liberale ed erasmiano divenne convinto luterano. Nel 1526 completò la prima traduzione in inglese del Nuovo Testamento.

Enrico, ancora fedele difensore della Chiesa cattolica, rafforzò l’operato del clero annunciando pene severe per coloro che si avvicinavano alla “falsa e corrotta traduzione” di Tyndale. Ma le misure repressive si dimostrarono impotenti di fronte alla forza dirompente di trasmissione della cultura e delle idee che fu la stampa. Il Nuovo Testamento di Tyndale continuò a essere stampato a Anversa e distribuito clandestinamente in Inghilterra.

Tradotto dall’originale greco, il NuovoTestamento di Tyndale è scritto in un inglese semplice, non solenne, diretto. A lui si devono neologismi significativi basati sull’ebraico come passover (“passaggio”) e scapegoat (“capro espiatorio”). Ma la scelta di tradurre parole chiave come ekklesia con congregation (“congregazione”) piuttosto che con church (“chiesa”), o presbyteros con senior (“anziano”) piuttosto che con priest (“prete”) suscitò l’ira filologica di More. La versione inglese del Nuovo Testamento di Tyndale, scriveva More contestandola parola per parola, era tendenziosa. Seguendo Lutero, Tyndale proponeva una lettura “semplice” e “fedele”

del testo:” Attieniti al testo e al semplice racconto” scriveva rivolgendosi al lettore nel Prologo alla Genesi, tradotto insieme agli altri quattro libri del Pentateuco nel 1530, e applica gli “esempi” alla tua situazione immediata. La Bibbia non era più testo di pochi ma guida morale e spirituale della vita quotidiana di tutti.

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Il dibattito tra More e Tyndale è stato definito “guerra linguistica” che percorrerà tutto il secolo e oltre in un paese ormai decisamente diviso, e che sfocerà in una vera e propria guerra civile.

Tyndale fu giustiziato per eresia nel 1536, ma il suo Nuovo Testamento continuò a essere letto. Per ironia della sorte, la traduzione della Bibbia che venne autorizzata dallo stesso Enrico nel 1537, e in seguito, la famosa Bibbia di Ginevra del 1560, così come quella del 1611, la Bibbia di Giacomo I, si avvalsero a piene mani, senza mai riconoscerlo, di quella di Tyndale.

Non fu l’interpretazione della Bibbia che divise radicalmente More e Tyndale, ma l’interpretazione del potere del sovrano. Per confutare le accuse di istigazione alla disobbedienza civile Tyndale pubblicò The Obedience of a Christen Man (L’obbedienza dell’uomo cristiano, 1528). Disobbedire alle leggi del clero, scriveva Tyndale, non significava disobbedire alla legge di Dio.

Né Tyndale né i suoi confederati erano convinti sostenitori della supremazia del sovrano. Tyndale la difese al solo scopo di affermare la massima supremazia. Ma Enrico fu ovviamente attratto da una teoria che lo liberava dalla sottomissione alla regola ecclesiastica.

Tyndale non assecondò mai il divorzio del re e con questo rifiuto pose il sigillo sulla sua vita. E’ stato detto, tuttavia, che l’spirazione dell’Obedience si può rintracciare in ogni atto del Parlamento che condusse alla Sottomissione del clero e all’Atto di supremazia del 1534.

Ragioni di Stato

L’Inghilterra divenne una nazione protestante non tanto per motivi di fede religiosa quanto per motivi dinastici. Enrico voleva a tutti i costi divorziare da Caterina d’Aragona, che non aveva dato alla luce un erede di sesso maschile. E voleva a tutti i costi sposare Anna Bolena. Il papa Clemente VII negò per il solo motivo che Caterina, figlia di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, aveva nel papa un potente alleato. La corte di Enrico si divise allora nettamente in due fazioni, una filocattolica che faceva capo a Caterina, l’altra filoluterana che faceva capo ad Anna Bolena.

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Enrico capo della Chiesa

Con l’aiuto di Thomas Cromwell, potente segretario di Stato, e dell’arcivescovo di Canterbury Thomas Cranmer, Enrico privò gradualmente il clero di tutti i diritti acquisiti nei secoli. Con l’Atto di sottomissione del clero nel 1531, esso perse ogni autorità spirituale e giuridica. Con l’Atto di supremazia (1534) Enrico si arrogò ogni diritto giurisdizionale sul suo paese, compreso quello spirituale. Nacque così la Chiesa inglese (più tardi chiamata Anglicana ecclesia). Enrico divorziò da Caterina, e Cranmer incoronò la nuova regina Anna Bolena nel 1533.

Cromwell mise in moto il dissolvimento di circa settecento conventi tra il 1536 e il 1539. I beni di settemila monaci, suore e frati furono confiscati e venduti o donati. I luoghi dedicati ai santi, meta dei pellegrini, furono distrutti.

La fine di More

More rassegnò le dimissioni nel 1532. Fu rinchiuso nella Torre di Londra per essersi rifiutato di prestare giuramento all’Atto di supremazia, di riconoscere ciò Enrico come capo della Chiesa d’Inghilterra. Qui scrisse le sue ultime opere: Dialogue of Comfort upon Tribulations (Dialogo di conforto nei giorni di tribolazione), Treatise to Receive the Blessed Body of Our Lord (Trattato per ricevere il corpo benedetto del nostro Signore), Treatise upon Passion (Trattato sulla Passione). Abbandonato ogni argomento politico e cosciente della morte imminente, More ritornò alla sua voce interiore cercando nella coscienza individuale l’ultima roccaforte.

Le ragioni di Stato non potevano più sottostare a quelle della religione, e la religione che pretendeva di essere universale divenne religione nazionale. Utopia e Dialogue of Comfort rimangono due opere supreme della carriera letteraria di More come umanista e come teologo. More fu decapitato nel 1535 per alto tradimento.

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Poeti alla corte di Enrico: Skelton, Wyatt, Surrey

Sebbene per Tyndale la lingua inglese fosse all’altezza del greco e dell’ebraico, non tutti erano della stessa opinione all’inizio del secolo.

Se ne lamentavano soprattutto i poeti, e per primo lo fece John Skelton (1460?-1529), il più vecchio dei poeti della corte di Enrico. Nella sua poesia Phyllip Sparrowe (Il passero Phyllip, ca. 1505), la protagonista, Dame Mergery si duole di non poter comporre un epitaffio per il passero nella sua lingua madre: “Our naturall tong is rude, | and hard to be ennuede” [La nostra lingua naturale è rozza | e difficile da invidiare] il suo vocabolario è povero, piatto, goffo.

John Skelton

Per qualche tempo tutore del giovane Enrico VIII, Skelton è una figura di poeta in bilico tra Medioevo e Rinascimento.

Skelton non sembrò assorbire le novità culturali che venivano importate dall’Italia da More e da Erasmo, ma, al contrario, assunse posizioni conservatrici sulla cultura e sullo studio del latino. Da Oxford e Cambridge ricevette il titolo di “poeta laureato”

e prese gli ordini nel 1498.

The Bowge of Courte

Il suo verso, famoso per la travolgente vitalità e il ritmo mozzafiato, sembra essere stranamente adatto alla satira impetuosa ed energica della corte e dei suoi abitanti in quello che è considerato il suo capolavoro: The Bowge of Courte (1499). Ma le note più aspre e aggressive Skelton le riservò per il cardinale Thomas Wolsey, il potente e avido ministro di Enrico che guidò quasi del tutto indisturbato la politica interna ed estera dell’Inghilterra fino alla morte.

Ed è come “secondo re” che Skelton lo attacca in Speak Parrott e Why Come Ye Not to Court? (1521-22). La corte di Hampton è la sontuosa dimora di Wolsey sul Tamigi, la quale, Skelton insinua, può essere impropriamente confusa con quella del re. Wolsey lo fece imprigionare per qualche tempo ma poi lo rilasciò.

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Le sue “satire aperte”, come vengono chiamate, sono scritte in un verso irregolare, breve e rimato. In Collyn Clout (ca. 1522) è Skelton stesso a darci una definizione della sua poesia, definendo il suo verso “ispido | cencioso e frastagliato, | rozzamente rimato”, ma dotato tuttavia di “qualche profondità”.

Il verso strano, rozzo e antiquato, ma non incolto, di Skelton è in grado di attaccare gli abusi e l’ipocrisia del clero, oppure di evocare in modo vivo e sorprendente l’atmosfera di una birreria gremita dei suoi esuberanti avventori come in The Tunning of Elynour Rummynge (ca. 1520). Skelton rimane ancora un poeta medievale, ma chiuso a ogni influenza della grande produzione poetica del continente.

Thomas Wyatt (1503-1542)

Thomas Wyatt (1503-1542) fu il primo poeta inglese che importò la lirica italiana e latina in Inghilterra. Wyatt nacque a Allington Castle nel Kent e studiò al St John’s College di Cambridge. Fu cortigiano di Enrico e servì come ambasciatore in Spagna presso la Corte dell’imperatore Carlo V. Fu imprigionato per ben due volte nella Torre di Londra: la prima, nel 1536, a causa di una lite con il duca di Suffolk, la seconda, nel 1541, perché accusato di alto tradimento durante la congiura che condusse Anna Bolena alla condanna capitale. Il mondo infido della corte divenne l’argomento di gran parte delle sue poesie più famose.

Wyatt acquisì la consapevolezza del significato della traduzione di una lingua in un’altra, in un’Europa in cui nessuno, a eccezione degli Inglesi, parlava inglese.

Molte delle sue poesie sono libere traduzioni delle Rime sparse di Petrarca. Della poesia italiana, Wyatt importò la disciplina formale che mancava al verso medievale inglese, aiutandolo così a separarsi gradualmente dalla musica. La rima più comune della sua poesia, è abba abba cddc ee, tre quartine e un distico finale, diversa dunque dalla forma del sonetto di Petrarca che è invece composto da una ottava e una sestina.

L’importazione del mondo culturale e letterario di Petrarca in quello immensamente diverso di Wyatt non avveniva senza modificazioni creative e soggettive.

Il sistema chiuso dell’amante petrarchesco incapace di raggiungere la sua donna se non nella memoria o nella fantasia viene, per così dire, aperto al vigoroso contatto con un’amata oggetto di un desiderio problematico e concreto: dalla meditazione sullo stato irrimediabilmente infelice di un amore senza oggetto, perché sfuggente o

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assente, al dialogo vivo e diretto con una donna non fredda e distante come quella petrarchesca, bensì volubile e frivola. Per esempio:

“Madame, withouten many wordes Ons I ame sure ye will or no;

And if ye will, then leve your bordes, And use your wit and shew it so.

[Signora, senza tante parole | una volta sarò sicuro se voi volete o no; | e se volete, allora lasciate stare il vostro scherno, | e usate la vostra arguzia per mostrarlo.]

Non è solo l’eros, fantasticato o sollecitato, il centro delle poesie di Wyatt. La meditazione del protagonista riguarda anche la corte e i suoi abitanti. Se il corpo dell’amata è “vivo” e presente, altrettanto viva e pressante è la politica di corte.

Nella sua “traduzione” di Una candida cerva di Petrarca, la famosa Whoso List to Hunt, l’eros è intimamente intrecciato con il potere – qui il potere concretissimo e vicino di Enrico VIII. La cerva inseguita appartiene a “Cesare”, a qualcuno, cioè, immensamente più potente del poeta. E’ stato scritto che la cerva alluda a Anna Bolena. Che sia o no allusivo, il sonetto dimostra la duttilità di Wyatt nell’adattare il testo originale.

E’ alla cinica politica della corte che è dedicata la sua poesia più importante They Flee from Me, scritto questa volta nella rhyme royal, prediletta da Chaucer.

Il poeta non può che constatare con amarezza la mutabilità e l’imprevedibilità del mondo cortese. Un mutamento repentino e arbitrario che riguarda tanto i rapporti con i suoi rivali a corte quanto i rapporti con una capricciosa amata. Wyatt esprime il desiderio di fuggire dalla “pressione della corte” (press of courts) e di ritrovare la pace dell’anima e la verità della filosofia. Ma il desiderio di fuga è tanto forte quanto ambiguo. La corte è il solo luogo da cui può scaturire e dentro cui si può consumare, nel bene e nel male, il desiderio d’amore e di potere.

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Henry Howard conte di Surrey (1517-1547)

Fu Henry Howard conte di Surrey che per primo riconobbe il merito di Wyatt di aver rinnovato il verso inglese attraverso l’uso ingegnoso del modello italiano,

“traducendo” anch’egli alcuni sonetti di Petrarca.

Figlio del duca di Norfolk, Surrey apparteneva a una famiglia della vecchia aristocrazia cattolica. Fu un guerriero, come tutti gli aristocratici che si rispettano.

Surrey crebbe insieme con il figlio illegittimo di Enrico VIII, il duca di Richmond. La sua fortuna fiorì quando la cugina, Catherine Howard, andò in sposa al re, e decadde quando Enrico decise di sposare Jane Seymour.

Anch’egli conobbe la prigione nel 1537 per un litigio a corte; di questa esperienza rimane una splendida poesia: Prisoned in Windsor, dove il poeta rammenta il tempo dell’infanzia trascorso piacevolmente con il suo coetaneo il duca di Richmond.

Surrey fu decapitato in seguito a un’accusa di alto tradimento dieci anni più tardi.

Surrey mise a punto la forma definitiva del sonetto inglese: tre quartine e un distico finale con rima abab cdcd efef gg. Inoltre, inventò il verso che ebbe poi una notevole fortuna nei successivi quattro secoli: l’endecasillabo sciolto, il famoso blank verse. E’

soprattutto nel confronto con Wyatt che Surrey appare meno audace e profondo.

Rispetto a quelli di Wyatt i sonetti di Surrey presentano una forma più regolare e musicale; il loro effetto, però, è meno vigoroso. Ma è proprio nell’avere seguito l’esempio di Wyatt che sta forse il merito maggiore di Surrey. Che offriva al futuro della poesia inglese un albero genealogico che affondava le sue radici nella grande poesia italiana e latina.

Né Wyatt né Surrey pubblicarono le loro poesie in vita. Esse furono pubblicate solo nella famosa raccolta di poesie dal titolo Songs and Sonnets, Written by the Right HOnorable Lorde Henry Howard Late Earle of Surrey, and Other (1557), comunemente nota come Tottel’s Miscellany. Richard Tottel è il nome dello stampatore che decise di raggruppare 97 poesie di Wyatt, 40 di Surrey, 40 di Nicholas Grimald, e 94 di “autori incerti”. Tottel dichiara esplicitamente che lo scopo della pubblicazione è quello di rendere onore alla lingua inglese mostrando che essa è in grado di competere con il latino e l’italiano. Fu questo libro che diffuse la poesia del Rinascimento europeo fuori dell’ambiente cortese.

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Gli umanisti: educazione e traduzioni. Elyot e Ascham

L’umanesimo significò innanzitutto il recupero del sapere dell’antichità. La qual cosa poteva avvenire solo attraverso la traduzione dei testi latini e greci, allo scopo di forgiare il presente alla luce dell’esempio del passato. Con l’umanesimo nacque la filologia, la riflessione sulla lingua, sulla politica, sulla storia, sull’arte.

La funzione della pedagogia

Uno degli aspetti costanti dell’umanesimo europeo fu l’enfasi posta sulla pedagogia.

Si poteva insegnare a governare, a comportarsi correttamente a corte, a pregare, a danzare, a scrivere poesia, a cavalcare, a cucinare. Per questo i maggiori umanisti furono spesso tutori di re e di aristocratici.

Thomas Elyot (1490-1546) visse alla corte di Enrico VIII e a lui dedicò l’opera più nota The Book Named the Governour (Il libro del Governatore,1531) il cui scopo è quello di dimostrare, in linea con il pensiero umanista europeo, che il buon governo dipende da una buona educazione dei giovani rampolli della classe dirigente.

Nessun principe o esponente dell’aristocrazie seguì mai davvero le buone proposte degli umanisti europei, che l’istruzione non fu mai una virtù aristocratica, e che le regole del gioco di corte erano dettate dalla competizione o semplicemente dalla sottomissione al potere piuttosto che dalla buona creanza.

Questi principi aiutarono a guidare le società europee nella difficile transizione da una organizzazione di tipo feudale a quello che si definirà più tardi lo Stato moderno.

Se il principe diventa la figura cruciale della nazione, sarà quindi logico che egli debba essere guidato dal wisdom (“ragione”) piuttosto che dal suo will (“capriccio”).

In Of the Knowledge Which Maketh a Wise Man (Della sapienza che fa un uomo saggio, 1533), il prevalere della “saggezza” o di foolishe affectis (“sciocche emozioni”) nelle decisioni del re distingue il buon sovrano dal tiranno. Certo, Enrico VIII era più incline a incarnare quest’ultima ipotesi piuttosto che la prima. Le opere di Elyot cercavano di comunicare come un re e un nobile avrebbero dovuto essere, non come effettivamente erano.

Intorno alla figura del sovrano verranno imbastite tutte le teorie che definiranno e legittimeranno il potere dello Stato, esse diverranno argomento problematico delle opere dei maggiori poeti dell’epoca: da Sidney a Spenser, da Shakespeare a Jonson.

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Le traduzioni

L’umanesimo ebbe inizio in Italia per il motivo molto concreto che l’Italia era esattamente la terra sulla quale la cultura e la storia del mondo classico si erano svolte. La continuità storica con l’antichità era evidente nei luoghi, nelle rovine e nella lingua. L’Inghilterra mancava quasi del tutto di un passato e di una cultura all’altezza di quelli italiani. E la lingua inglese, diversamente da quelle romanze, sembrava ai traduttori del tutto incapace di accogliere tanta eredità latina, antica o moderna. E benchè un umanista erudito come Elyot contribuisse alla graduale immissione di latinismi nella lingua inglese producendo il primo dizionario inglese- latino nel 1538, il numero di traduzioni dal latino, dall’italiano e dal francese salì vertiginosamente nella seconda metà del XVI secolo.

L’Inghilterra fu letteralmente invasa da opere di traduzioni.

Roger Ascham (1515-1568)

Una simile invasione non lasciò indifferente Roger Ascham che nel suo The Scholemaster (1563-1568) lanciò un attacco veemente contro la cultura italiana importata in Inghilterra e mise in guardia dalla cattiva influenza che essa esercitava sulle giovani menti inglesi: “Questi sono incantesimi di Circe portati dall’Italia per contaminare i costumi dell’Inghilterra”. La tirata di Ascham, tutore della regina Elisabetta I, è solo un sintomo dell’ansia provocata dal rischio che tanta importazione di cultura dal continente impedisse il decollo della fragile identità nazionale.

L’immagine dell’Italia incomincia ad assumere aspetti sinistri.

Il vero bersaglio dell’invettiva di Ascham è la vita di corte, vita di inganni e seduzioni. Nella sua opera più nota, The Scholemaster, Ascham è impegnato in un serio programma di educazione dell’aristocrazia inglese attraverso il recupero della cultura latina e greca verso la quale nutre una profonda ammirazione. Per questo diffida della superficiale intelligenza di coloro che definisce quick wits (“intelligenze veloci”), adatti alla politica di corte, a cui oppone i costanti e profondi hard wits (“intelligenze salde”). Non fu solo la nobiltà di corte, tuttavia, a beneficiare del nuovo sapere ma soprattutto le università di Oxford e Cambridge nelle quali furono educati uomini di lettere e di scienza privi di nobili natali.

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La stampa

La stampa significò innanzi tutto la drastica riduzione del prezzo del libro e la sua conseguente accessibilità a un numero sempre più vasto di lettori. In secondo luogo essa strappò al clero prima e alla corte poi il monopolio della cultura fondata sul manoscritto.

Oltre che a diventare strumento della propaganda politico-religiosa, ora il libro diventa per la prima volta merce e occasione di profitto. Il libro entra a far parte dell’inventario del mercante. Una volta venduto il manoscritto per cifre a volte irrisorie, l’autore cedeva loro ogni profitto.

La stampa in Inghilterra

In Inghilterra la stampa fu introdotta da William Caxton (1422-1491), stampatore, traduttore e autore che l’aveva appresa e praticata nei Pesi Bassi.

Furono pubblicati 26 000 libri tra il 1475 e il 1640: libri di devozione e polemica religiosa innanzi tutto, ma anche romanzi, libri d’istruzione o di condotta, pamphlets, ballate, poesie, e così via. La maggior parte degli stampatori e dei rivenditori di libri operava a Londra dove, nel cortile della chiesa di St Paul, era situato il centro del mercato del libro.

La censura

Una tale rivoluzione culturale non poteva che mettere in allarme le autorità. La censura fu la triste contropartita dell’esplosiva diffusione della parola scritta in una società che era stata per secoli organizzata sulla alfabetizzazione della sola classe dirigente. Autori e stampatori dovevano sottostare a rigidissime regole: qualsiasi cosa scritta doveva passa4re il vaglio dell’arcivescovo di Canterbury e del vescovo di Londra oltre che del Consiglio privato della Corona. Le stamperie, inoltre, non potevano superare un determinato numero, e nulla poteva essere stampato al di fuori di Londra o delle università di Oxford e Cambridge.

Oggetto della censura furono soprattutto gli scritti di carattere religioso. Ma lo erano anche scritti che esprimevano apertamente un dissenso politico oppure pamphlets

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satirici. John Stubbs fu punito col taglio della mano per aver scritto un pamphlet dal titolo The Discovery of a Gaping Gulf (La scoperta di un golfo abissale, 1579) nel quale manifestava la sua disapprovazione per il programmato matrimonio di Elisabetta I con il francese duca d’Alençon. Per lo stesso dissenso espresso in una famosa Letter to the Queen (1579), Sir Philip Sidney fu bandito dalla corte.

Fu dunque anche a causa della censura che poeti, filosofi e drammaturghi usarono un linguaggio altamente metaforico e poetico.

I figli di Enrico: Edoardo, Maria, Elisabetta.

Enrico VIII morì nel 1547 lasciando il trono al figlio Edoardo VI avuto dalla sua terza moglie Jane Seymour. Giovanissimo (aveva nove anni), precoce e malato, Edoardo salì al trono per regnare solo sei anni sotto il protettorato del potente e convinto protestante duca di Somerset. Con il suo regno la Riforma prese un aspetto radicale che non aveva ancora assunto con Enrico. L’obbligo del celibato dei sacerdoti fu cancellato, le immagini che ancora sopravvivevano nelle chiese furono distrutte, nuove terre furono confiscate agli ordini religiosi.

Book of Common Prayer

Nel 1549 il primo Book of Common Prayer (Libro delle preghiere comuni) “un conveniente, pulito e ordinato rito e modo di preghiera comune” fu scritto dall’arcivescovo Cranmer e altri teologi, discusso in Parlamento e imposto in tutte le chiese e le cattedrali. Questo libro, rivisto nel 1552 e nel 1558 in una progressiva evoluzione in chiave protestante, è particolarmente importante perché costituisce una vera e propria rivoluzione liturgica al pari di quella messa in opera dal concilio di Trento.

Fu per la varietà sociale e per la tenacia della tradizione che la Riforma di Edoardo non fu accettata di buon grado da tutta la popolazione, che fu privata, senza nessuna sostituzione, di tutti i riti tradizionali e le cerimonie cattoliche intorno alle quali era organizzata la socialità del territorio.

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Nella liturgia protestante non esistono né santi né diavoli. Alcuni dicono che la sua bellezza consiste nella sua sobria semplicità.

Bloody Mary

La rivoluzione di Edoardo non durò a lungo. Quando il giovane re morì nel 1553 gli successe la sorella Maria, figlia della cattolica Caterina d’Aragona. Anch’essa fervente cattolica, Maria si circondò di consiglieri devoti piuttosto che esperti. Salita al trono all’età di trentasette anni, nubile, sposò il figlio del cugino Carlo V, Filippo II, futuro re spagnolo alleato di Roma, provocando non poco dissenso e addirittura una vera e propria ribellione capeggiata da Sir Thomas Wyatt il giovane, figlio del poeta, in un’Inghilterra che aveva subito la pressante propaganda antipapista e antispagnola di Enrico VIII. Il primo atto politico di Maria fu quello di ricucire lo strappo con Roma e di disfare le riforme religiose del padre e del fratello. Tra il 1555 e il 1558 mandò sul rogo almeno 287 protestanti per eresia – una persecuzione che le valse il titolo di Bloody Mary (“Maria la Sanguinaria). Né la sua politica estera fu meno dannosa e sconveniente per l’Inghilterra. Proprio alla fine del suo regno, nel 1558, l’Inghilterra perse la sua ultima postazione in Francia. La perdita di Calais – un simbolo del nazionalismo inglese – segnò l’umiliazione finale di Maria.

John Foxe (1516-1587)

La sua monumentale raccolta di storie di sofferenze subite dai protestanti durante il regno di Maria, Acts and Monuments, nota come The Book of Martyrs (Il libro dei martiri), pubblicato per la prima volta in inglese nel 1563, fu uno dei libri più letti della seconda metà del secolo in Inghilterra.

I protestanti perseguitati da Maria assurgono al rango di santità attraverso il martirio allo stesso modo dei martiri cristiani perseguitati dalla Roma imperiale. Il carattere apocalittico e istericamente anticattolico ne fecero uno dei capisaldi della letteratura protestante, fu accettato e sostenuto dai vescovi di Elisabetta e fu situato accanto alla Bibbia in molte chiese e parrocchie del regno.

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Il regno di Elisabetta

Dopo i brevi ma turbolenti anni del regno del padre e dei fratelli, Elisabetta regnò per quarantacinque anni, fino alla sua morte, nel 1603, e il suo regno fu ricordato come uno dei più fortunati e pacifici della storia d’Inghilterra.

Figlia della seconda moglie di Enrico, Anna Bolena, Elisabetta parlava francese, italiano e spagnolo e aveva un comando assoluto della propria lingua. Cautissima, conservatrice e parsimoniosa, detestò la guerra, fu diffidente di fronte a ogni innovazione e, pur proclamandosi protestante, non fece mai professione di una fede.

Mantenne nella cappella reale l’apparato cattolico, compreso il crocifisso, le candele e gli organisti.

Quando salì al trono il 18 novembre del 1558, all’età di venticinque anni, Elisabetta si trovò a dover governare un paese drasticamente diviso in una minoranza di attivi e convinti protestanti e una maggioranza di cattolici. Elisabetta non accontentò né gli uni né gli altri. Una Chiesa simile non piacque certo a papa Pio V, che scomunicò la giovane regina nel 1570, né ai protestanti più estremisti per i quali la Chiesa di Elisabetta era ancora troppo cerimoniosa e politica: in una parola, papista.

La Chiesa di Elisabetta era principalmente politica. In realtà Elisabetta regnò in condizioni estremamente sfavorevoli: dalla mancanza di un esercito, ai limiti al suo potere posti dal Parlamento, all’assenza di un efficiente ed esteso sistema amministrativo e burocratico, alla cronica dipendenza del tesoro della Corona dal finanziamento dei mercanti di Londra. Inoltre, ella dovette tenere a bada i continui complotti intentati contro di lei da parte dei membri più ribelli dell’aristocrazie, oppure delle potenze cattoliche (Spagna e Roma).

La forza di Elisabetta

Di tutti questi svantaggi Elisabetta riuscì a fare ottime virtù. Ella concentrò sulla immagine della sua persona tutte le forze sociali. La questione cruciale sulla quale s’imperniò il culto d’amore per la regina fu il suo celibato. Elisabetta rimase nubile e dichiarò infine di essere sposa unicamente alla sua nazione.

La sua corte divenne allora la scena sulla quale la regina impersonò il ruolo di eroina romantica. Diventare la regina vergine, amata e venerata come Cinzia o come Maria,

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fu il modo più astuto di affrontare un paese profondamente diffidente verso il sesso femminile e dove l’autorità delle donne veniva considerata “mostruosa”.

La sua fu la prima corte inglese che potè competere con quelle europee e nella quale e introno alla quale sorse una delle più strabilianti produzioni di opere di poesia e di teatro dell’Europa del tempo e della letteratura inglese.

La corte. Castiglione e Puttenham

Ma che cos’è una corte del Rinascimento? Innanzitutto il centro di tutta la vita politica di un paese. Qui l’aristocrazia, la classe dirigente del feudalesimo, depone quelle armi che sono segno e strumento della sua supremazia sul resto della popolazione, e deve imparare a trasformare il conflitto guerresco in conflitto politico:

dalla spada alla parola.

Tutti qui vorranno fare carriera mettendo alla prova il talento, l’ambizione, l’energia e l’astuzia. Qui ha inizio ciò che chiamiamo Stato moderno, con la sua burocrazia e amministrazione centralizzata, con le sue leggi e, inutile dirlo, con i suoi intrighi.

Il libro del Cortegiano

Il libro più diffuso e importante del Cinquecento europeo sulla corte fu Il libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione del 1528, tradotto in inglese da Sir Thomas Hoby nel 1561. Castiglione stabilì i principi estetici e morali del comportamento cortese. Chi vorrà apparire come il primo dovrà nascondere oltre che la sua origine sociale, lo sforzo per farlo. Il cortigiano ideale rinuncia alle esigenze del suo narcisismo, detesta lo sfarzo e l’esagerazione per fare posto alla discrezione e al decoro.

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The Art of English Poesy

Il “manuale di condotta” più noto e più letto in Inghilterra negli anni Ottanta fu The Art of English Poesy (L’arte della poesia inglese, 1586) di George Puttenham (1529- 1591). Come dice il titolo, il trattato di Puttenham parla di poesia, ed è diviso in tre libri. Nell’ultimo libro, intitolato Of Ornament (Dell’ornamento), la figura cruciale del “decoro” è discussa in termini di un appropriato comportamento cortese: “Questo decoro, nella misura in cui riguarda la nostra arte, si trova nella scrittura, nella parola, e nel comportamento”. La stessa retorica vale tanto per la poesia quanto per la condotta.

L’analogia socio-poetica, è stato scritto, è presa a pretesto dal Cortegiano di Castiglione. The Art di Puttenham si rivolge al poeta professionista che non appartiene al circolo cortese e che usa la poesia come mezzo per entrarci.

L’arte della poesia, l’arte del comportamento e l’arte della politica diventano a corte una sola cosa.

Tutti i poeti della corte di Elisabetta sono venuti a patti con questa retorica, osteggiandola, denunciandola, discutendola o valorizzandola: dal gentiluomo Sir Philip Sidney, al poeta di umili origini Edmund Spenser al cortigiano di talento Walter Ralegh, al geniale drammaturgo William Shakespeare.

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LA POESIA ELISABETTIANA

Philip Sidney (1554-1586)

Philip Sidney è divenuto il simbolo della corte elisabettiana. Paradossalmente, però, lo divenne dopo la sua morte, sopravvenuta per una ferita ricevuta a Zutphen (Fiandre) nel 1586, nella guerra che Elisabetta aveva dichiarato (con riluttanza) agli Spagnoli che occupavano i Paesi Bassi. Sidney non aveva neanche trentadue anni quando morì, e ricevette uno dei funerali più maestosi del tempo per un uomo del suo rango.

Nelle centinaia di elegie scritte per la sua memoria, quasi tutti i poeti professionisti della fine del secolo, individuarono in Sidney il perfetto precursore della loro stessa poesia attribuendogli il valore di poeta nobile d’animo e di natali.

Le leggende inventate dai poeti per i funerali furono poi riprese da Fulke Greville, suo amico d’infanzia, in una famosa e agiografica Life of the Renowned Sir Philip Sidney scritta nel 1610 e pubblicata solo nel 1652. Cortigiano, cavaliere, poeta, soldato caduto per la causa “giusta”, Sidney divenne il candidato ideale per la formazione di un mito nazionale, “di ciò che un inglese dovrebbe essere”, come si scriveva ancora a metà dell’Ottocento.

Ma non fu certo, come fu poi sostenuto, “esemplare suddito elisabettiano”.

Sidney partecipò attivamente alla politica del tempo. Forse, a giudicare dalla reazione della regina, troppo attivamente. Fu bandito da corte a causa di una lettera scritta in risposta al negoziato in corso nei primi anni Ottanta sul matrimonio della regina con il cattolico duca d’Angiò, figlio di Caterina dei Medici. Il matrimonio non venne mai stipulato, ma la regina non ammetteva consigli nella sua politica matrimoniale, soprattutto da coloro ai quali non li richiedeva.

Studiò all’università di Oxford dove non si laureò. Negli anni Settanta partì per la Francia e l’Italia e poi in missione diplomatica per la Germania, inaugurando quello che in seguito prese il nome di grand tour, il giro sul continente europeo che doveva coronare la perfetta educazione del gentiluomo. Fu testimone del massacro di circa 50 000 ugonotti iniziato la notte del 14 agosto del 1572 noto come “massacro di San Bartolomeo”, che certo dovette consolidare le sue simpatie protestanti e anticattoliche. Ma venne anche a contatto con la cultura più alta d’Europa a Venezia e a Padova e on i più fini intelletti del tempo.

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Fu influenzato dalla tradizione italiana e latina che assunse agilmente in tutte le sue opere: il primo canzoniere inglese, Astrophil and Stella, The Defence of Poetry, un trattatello sulla poesia, e due romanzi, la cosiddetta Old Arcadia e la New Arcadia, scritta tra il 1580 e il 1581. Tutte le sue opere segnano una tappa decisiva nella storia della letteratura inglese. Eppure fu solo dopo la morte che esse iniziarono a circolare in stampa e che Sidney fu conosciuto come poeta.

Pubblicata postuma nel 1595, la Defence of Poetry è la prima e più influente discussione sulla poesia mai scritta in Inghilterra (per “poesia” s’intendeva all’epoca ciò che oggi chiamiamo “letteratura”). Essa è costruita in buona parte su una serie di idee elaborate già in Italia a metà del Cinquecento. Al contrario dei trattati italiani, tuttavia, la Defence di Sidney non ha un carattere normativo. Essa si presenta piuttosto come un’argomentazione insieme rigorosa e arguta che aspira a convincere il lettore della nobiltà della poesia sulla base del suo passato antichissimo e prestigioso, della sua funzionalità sociale e del suo potere di nobilitare la vita di coloro che la proteggono (“[grazie ai poeti] sarai bellissimo, ricchissimo, saggissimo…”). Riprendendo un concetto già presente nell’antichità classica, Sidnaey afferma che la poesia istruisce attraverso il piacere, che essa cioè trasmette contenuti morali attraverso l’uso di una retorica visiva capace di colpire la mente (“gli occhi della mente”) del lettore più efficacemente di quanto non facciano le prestigiose discipline della storia e della filosofia.

Al poeta Sidney riserva l’attributo di maker (“creatore”), emancipandolo dal ruolo di mero imitatore della natura o delle opere degli antichi di derivazione rinascimentale.

Benché si presenti come una “difesa” della poesia, il trattatello di Sidney è il primo tentativo inglese di definire i suoi attributi specifici e di circoscrivere i limiti dentro i quali stabilirne l’autonomia sia come disciplina, sia dall’argomento, sia dal pubblico di lettori. A quest’ultimo Sidney più di una volta rivolge il monito di leggere con attenzione la poesia, la quale è “di proposito” scritta in modo “oscuro” per non essere

“male usata da spiriti profani”.

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Le Arcadie e il romanzo pastorale

Le due Arcadie si rifanno a un genere pastorale che risale a Teocrito e Virgilio e fu ripreso pienamente nel Quattrocento italiano. E’ della fine di questo secolo il capolavoro della pastorale europea, l’Arcadia di Jacopo Sannazaro (1498-99) a ci Sideny fa esplicito riferimento sia nel titolo dei suoi romanzi, sia nell’uso alternato di prosa e poesia, sia nel riadattamento di alcune famose liriche che incorniciano il romanzo italiano.

Nell’antichità come nel Rinascimento, il genere pastorale consiste nell’ambientare un’esile trama amorosa (generalmente si tratta di un amore non corrisposto) in un ideale sito naturale, una sorta di natura artificiale, il quale è esplicitamente contrapposto al mondo politico e indaffarato della corte.

La Old Arcadia è completamente immersa nel genere, ma Sidney vi immette una travolgente e innovativa trama romanzesca presa a prestito dal romanzo greco (Le Etiopiche di Eliodoro) e dal rinato romanzo cavalleresco, in particolare l’Amadis de Gaule. Inoltre, si presenta come una tragicommedia in cinque atti (o libri) in cui sono mescolati prosa e versi, con una doppia trama, una seria e una comica. La storia è messa in moto dal re Basilius che decide di ritirarsi in un luogo appartato e chiuso, Arcadia, per paura di vedere avverato un oracolo che minaccia la sua famiglia. Nel frattempo due principi di fama eroica arrivano in Arcadia, a loro interdetta, dove si innamorano delle figlie del re. Per portare avanti il loro corteggiamento i principi devono travestirsi rispettivamente da Amazzone e pastore e trasformare le loro imprese cavalleresche in stratagemmi cortesi.

Divenuto uno stage-play of love (“palcoscenico d’amore”) il locus amoenus di Arcadia finisce per risultare una spassosa parodia delle vicende della corte di Elisabetta. Al re, in particolare, Sidney riserva un trattamento dissacrante. Basilius provoca pasticci, equivoci e il caos tra i suoi sudditi. Ingannato dal travestimento, s’innamora del principe-Amazzone, producendo un comico susseguirsi di eventi assurdi che finiranno con la morte apparente del re. Il re risusciterà, i principi sposeranno le amate principesse, e si ristabilirà la pace nel paese.

Molto meno lieve e umoristica è invece la New Arcadia rimasta incompleta. Non una revisione della Old, ma un nuovo romanzo tout court. La trama si complica al punto da risultare oscura; i personaggi si moltiplicano fino ad arrivare a un centinaio; essi diventano i protagonisti di altrettante vicende che s’intrecciano con quella della famiglia reale fino a offuscarla. Inoltre, lo spazio nel quale le mille storie raccontate in Arcadia hanno luogo si estende ben oltre il chiuso sito della corte. E soprattutto, il tono complessivo del romanzo diventa serio e filosofico. Non più una leggera presa

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in giro della politica del suo tempo, ma una impegnata presa di posizione su come essa dovrebbe essere.

La New Arcadia ebbe un successo strepitoso nel XVII secolo: fu tradotta in olandese, in italiano, in francese, in tedesco, molto prima che altre opere letterarie inglese fossero tradotte, e l’opera completa vide nove edizione a fronte delle tre di Spenser e delle quattro di Shakespeare. Tanta popolarità fu dovuta presumibilmente alla fama di Sidney come soldato e uomo politico.

Le due Arcadie sono romanzi sperimentali che prendono a prestito vari pezzi della tradizione romanzesca latina, italiana e francese e li mescolano in maniera originale e nuova.

Sebbene Sidney sia entrato nella storia della letteratura come “English Petrarck”, Astrophil and Stella (1591) non è un rifacimento del canzoniere italiano. Le convenzioni petrarchesche vi sono spesso parodiate e la riflessione e la sperimentazione sul verso inglese è molto più innovativa di quella dei poeti che lo precedettero.

Astrophil and Stella è composto da 108 sonetti e undici canzoni che raccontano l’amore di Astrophil, il cui nome gioca sul doppio senso di “amante delle stelle”, dal greco, e l’iniziale del nome di Sidney (Phil), per Stella, che Sidney stesso identifica in tre sonetti come Penelope Devereux, sposata con Lord Rich.

Il carattere istrionico teatrale conferisce al canzoniere uno stile arguto e appuntito.

Ma il canzoniere può assumere anche toni tragici e seri. Nello scoprirsi innamorato, Astrophil scopre anche di essere prigioniero di un’emozione che chiama di volta in volta slavery (“schiavitù”), hell (“inferno”), poison (“veleno”). Il tentativo di liberarsene risulta vano.

La retorica di questo amore ha molto a che fare con la retorica che regolava il rapporto tra suddito e sovrano; il canzoniere è stato spesso interpretato come una drammatizzazione del rapporto tra il cortigiano “ribelle” Sidney e la potente Elisabetta. Ma Stella può anche stare a rappresentare la sapienza a cui il pensiero del poeta/filosofo tende senza speranza, secondo l’antichissima tradizione, che assimilava il desiderio della verità a un desiderio erotico.

Quello di cui sembra però occuparsi il canzoniere sotto la forma del racconto di una infelice e turbolenta storia d’amore per Stella o per la sapienza è soprattutto il funzionamento del pensiero e delle emozioni dell’io del poeta in quanto scrittore, che Sidney sembra voler decisamente distinguere dal suo io biografico.

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La riflessione sulla scrittura del poeta e sulla corrispondente lettura del destinatario è una caratteristica molto pronunciata di Astrophil and Stella e giustifica a pieno titolo il diritto di primogenito della sonettistica elisabettiana.

Scrittori e mecenati

Non era facile essere un poeta nel Cinquecento. Non c’era una vera e propria industria editoriale e in realtà, la stessa figura di poeta era diversa da quella che diventerà in seguito. Anche laddove egli possedeva mezzi finanziari propri, l’idea che potesse impiegare interamente il suo tempo nella professione di poeta era inconcepibile. Sidney fu ambasciatore e diplomatico, così Chaucer, Wyatt e il conte di Surrey. Spenser fu segretario di uomini di potere, John Davies fu uomo di legge e Thomas Campion fu medico.

A volte essi risiedevano nelle grandi magioni dei nobili come tutori, oppure potevano offrire le loro opere letterarie come testimonianza della loro capacità linguistica, e quindi diplomatica e politica, a uomini di rango nella speranza di ottenere un incarico amministrativo.

La dedica sollecitava due o tre sterline per un pamphlet o un piccolo volume di poesie. Il protettore stesso traeva i suoi vantaggi dalle lodi del poeta, anche solo quello di soddisfare la sua vanità.

Nota per la sua generosità fu la famiglia Sidney che comprendeva oltre che Philip anche la sorella Mary, contessa di Pembroke, e il fratello Robert essi stessi uomini e donne di lettere. Nelle loro dimore godettero di ospitalità più o meno lunga Samuel Daniel, Edward Dyer e Edmund Spenser. Altrettanto liberale fu Walter Ralegh, potente favorito della regina che mantenne finanziariamente per un periodo Edmund Spenser sostenendolo appassionatamente come “Poeta nuovo” destinato a superare la gloria di Omero e Petrarca sul suolo inglese.

Non sempre le cose andavano così lisce: Robert Greene, per esempio, cambiò ben sedici protettori per diciassette opere.

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Spenser (1552-1599)

Fu il più grande e sicuramente il più ambizioso poeta del regno di Elisabetta. Nacque a Londra nel 1552 e si iscrisse all’Università di Cambridge come sizar, studioso indigente e, al contrario di Sidney, si laureò nel 1576. Ancora diversamente da Sidney, Spenser fu costretto a mostrare il suo talento come uomo di lettere allo scopo di ottenere incarichi nella carriera pubblica.

Nel 1580 divenne segretario di Lord Grey de Wilton, Lord deputato dell’Irlanda, dove rimase fino al 1599, poco prima di morire. Dopo aver partecipato alla colonizzazione di una piccola parte dell’isola, Spenser fu cacciato dai ribelli che gli bruciarono la casa. Nel suo View of the Present State of Ireland, pubblicato solo nel 1633, Spenser non esitò a proclamare la superiorità del governo inglese su quello arcaico dell’Irlanda. Morì tornato a Londra, nel 1599, e fu sepolto a Westminster accanto al suo amico Chaucer.

L’ambizione di Spenser si manifestò in primo luogo nella poesia. La sua carriera poetica si ispira esplicitamente a quella di Virgilio. The Shepheards Calendar (Il calendario del pastore, 1579), infatti, una raccolta di dodici ecloghe – brevi poesie pastorali nella forma di un soliloquio o di un dialogo tra pastori – segue dichiaratamente il modello delle Bucoliche di Virgilio.

Gli argomenti variano per ciascuna ecloga (una per ogni mese dell’anno), ma hanno generalmente a che fare con il mondo della corte, sulla quale sofisticati e dotti pastori commentano indicandone i difetti morali. La più nota delle ecloghe è la quarta, April, dedicata a Elisabetta, “regina dei pastori” della quale Spenser fa l’elogio che più tardi svilupperà fino a promuoverla a “regina delle fate” nel suo capolavoro, The Faerie Queene (1590-96).

Ciascuna ecloga, inoltre, è seguita da una “glossa”, commento a margine, dove un anonimo E.K. – che alcuni studiosi identificano con un amico di Spenser, altri con Spenser stesso – fornisce spiegazioni sul lessico arcaico usato da Spenser in omaggio a Chaucer.

Al contrario di Sidney, Spenser non rinnega il passato della poesia medievale inglese.

Nello Shepheardes Calendar sembra piuttosto volere innalzare, o render classico, l’inglese medievale (o rustico) di Chaucer. Se Sidney è un poeta “aristocratico”, per definizione antimonarchico, che invoca l’autonomia della poesia dal potere, Spenser viene definito il primo poeta “nazionale” dell’Inghilterra che mette la sua poesia al servizio della regina. E questo ci porta di conseguenza al capolavoro di Spenser non

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solo dedicato, ma interamente intitolato alla regina stessa: The Faerie Queene, il primo poema epico inglese.

Situato tra il mito e la storia, tra l’ideologia della classe dominante e la poesia, l’epica è insomma il genere che istituisce e forgia l’identità nazionale. Era esattamente di questo che aveva bisogno l’Inghilterra di Elisabetta.

Il progetto dell’opera prevedeva dodici libri, ma Spenser ne riuscì a scrivere solo sei e un settimo incompiuto. Dodici è il numero delle virtù stabilite da Aristotele. Ogni libro è diviso a sua volta in dodici canti, ponendosi così in diretta relazione e competizione con l’epica per eccellenza, l’Eneide. E inoltre dodici era il numero dei giorni nei quali si festeggiava l’ascesa al trono di Elisabetta. La quale non compare solo nella dedica dell’opera, ma è impersonata da Gloriana, regina delle fate, nel cui nome i vari cavalieri compiono le loro imprese.

L’intenzione dell’autore è dichiarata in una lettera indirizzata a Sir Walter Ralegh, che fu pubblicata come Premessa a The Faerie Queene, nel gennaio del 1589: “ Lo scopo generale di tutto il libro è quello di forgiare un gentiluomo o nobile a una virtuosa e gentile disciplina”. A tutta prima dunque The Faerie Queene si presenta come un libro di cortesia che ha lo scopo di istruire e formare la classe dirigente di Elisabetta/Gloriana.

Tra epica e romanzo

Dunque, per la stessa ammissione di Spenser, The Faerie Queene è insieme epica e romanzo. Nella Faerie Queene il centro e il fine etico del poema è Gloriana/Elisabetta intorno alla quale e per la quale i dodici (ma poi sei) cavalieri mettono alla prova le altrettante virtù che rappresentano.

Ma The Faerie Queene è anche romance, perché le storie dei cavalieri avanzano per episodi come un flusso senza fine, rispondendo alle aspettative di varietà, meraviglia e diletto del lettore poco volenteroso e attento, o semplicemente desideroso di svago.

E’ stato scritto che la tensione tra unità (ordine e potere) e varietà (libertà e piacere) nella Faerie Queene riproduce in modo complesso la perplessità di Spenser per la monarchia assoluta di Elisabetta/Gloriana, e che il pericolo continuo che i cavalieri perdano la memoria, insieme al lettore, del fine per il quale essi portano avanti le loro

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avventure, rivela la sua adesione agli ideali di libertà, indipendenza e intraprendenza rappresentati dall’aristocrazia e cavalleresca.

La poesia

Nel canto III del libro VI, il protagonista Calidore, campione della “cortesia”, s’imbatte in un sito pastorale, allegoria di un mondo anticortese dove, sotto la metafora dell’umiltà e della semplicità dei costumi si nasconde la critica alla corruzione e la falsità della politica di corte. Ma il luogo pastorale è soprattutto per Calidore una deviazione dal suo compito morale che è quello di distruggere la Blatant Beast allegoria della calunnia. Calidore si arrampica sul monte Acidale, dove assiste alla danza di cento ninfe al suono del piffero di Colin Clout (controfigura di Spenser già in The Shepheardes Calendar).

Al centro della danza stanno tre donne, e al centro di esse un’altra donna. Uscendo dal suo nascondiglio, Calidore rompe l’incantesimo e mette in fuga le damigelle. La simbologia di questa scena è densissima, ed è lo stesso Colin Clout a spiegarla a Calidore. Questa spiegazione costituisce una delle riflessioni più esplicite sulla poesia di tutto il Rinascimento.

Le tre donne che danzano circondate dalle cento fanciulle, dice Colin Clout, sono le tre Grazie, le quali elargiscono i doni del corpo e della mente. La simbologia iconografica delle tre Grazie risale all’antichità e venne ripresa nel Rinascimento italiano (un esempio canonico è La primavera del Botticelli). Esse rappresentano le tre fasi della liberalità: offrire, accettare e restituire benefici. Al centro delle tre Grazie una donna rappresenta l’amore, o forse anche il potere di Elisabetta. Ma in questa scena Spenser sembra chiaramente indicare che le Grazie, e con loro la civiltà, possono essere evocate solo dal suono suadente della poesia, la musica del pifferaio Colin Clout.

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Allegoria e magia

Le imprese delle dame e dei cavalieri di Spenser si svolgono in scenari fiabeschi, foreste stregate e castelli fatati, alberi magici e palazzi sontuosi. Qui i cavalieri solitari incontrano fate e streghe, draghi, leoni, nano, maghi, mostri e giganti, secondo la migliore tradizione dei romanzi cavallereschi.

Ognuno di questi strani personaggi potrebbe nascondere il nemico, e cioè il vizio corrispondente alla virtù a cui è intitolato il libro, oppure no, perché nella terra delle fate nulla significa una sola cosa.

Nella prima fase della sua lettera a Walter Ralegh il poeta annuncia che il suo libro è

“un’allegoria continua, o figura oscura”, e che dunque richiede l’impegno esegetico del lettore. L’allegoria non sarà mai univoca, e il lettore è invitato a sfogliare i suoi molteplici livelli: dal letterale, allo storico, al politico, al filosofico, al teologico. Per esempio, nel primo libro, il protagonista Redcross (Crocerossa), cavaliere della Santità, è allegoria del soldato di Cristo, e anche di San Giorgio, il santo patrono dell’Inghilterra; egli è incaricato dalla dama di nome Una, allegoria della Verità e della Chiesa d’Inghilterra, di liberare i suoi genitori tenuti prigionieri in un castello da un drago, allegoria del diavolo. Alla fine del libro, dopo numerose e tortuose avventure, Redcross riesce a uccidere il drago e sposa Una.

Ma questa lettura viene complicata dall’ambiguo statuto di Duessa, allegoria della Chiesa romana, e di Arcimago, un vecchio mago che ha il potere di trasformarsi e di ingannare producendo false immagini e sogni devianti. Duessa è allegoria della doppiezza della verità, è una “falsa strega”. E tuttavia, le immagini che la falsa Duessa e il perfido Arcimago producono per sviare Una e Redcross dal cammino verso la verità sono seducenti e piacevoli. Il concetto di “falsità” diventa allora ambivalente: colui che produce immagini può essere tanto l’ipocrita religioso, di origine cattolica, tanto il poeta che avvolge la verità nel velo dell’allegoria.

Immagini: il poema di Spenser ne è una fucina proliferante. Spenser è capace di fare assumere a ogni concetto una forma visibile attingendo alla simbologia cristiana come a quella pagana, ai dipinti dell’epoca e ai libri di emblemi. Ogni immagine nasce per dar luogo alla successiva nel ritmo melodioso delle stanze incatenate nella rima ababbcbc e sugellate da un alessandrino (o esametro) finale c.

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Gli Amoretti ed Epithalamion

Amoretti è la raccolta di 89 sonetti che Spenser dedicò a Elizabeth Boyle, sua seconda moglie.

Ma Amoretti, al contrario di Astrophil and Stella, racconta una vera storia d’amore il cui esito felice si riversa in Epithalamion, insieme al quale i sonetti furono pubblicati nel 1595. In questo senso gli Amoretti sono un caso unico nella storia della sonettistica elisabettiana. Contengono un grande varietà di momenti o aspetti del desiderio amoroso ma mancano del distacco ironico che caratterizza il canzoniere di Sidney.

Epithalamion significa canzone cantata sulla soglia di una camera nuziale, è una poesia composta di ventiquattro stanze di diciotto versi ciascuna che celebra il matrimonio e la felicità coniugale.

La lirica degli anni Novanta: Daniel, Drayton, Campion, Davies, Mary contessa di Pembroke

Per nominare alcune delle raccolte più significative, cito i canzonieri di Samuel Daniel, Delia (1592), 50 sonetti, di Michael Drayton, Idea Mirrour (1594), 51 sonetti, di Fulke Greville, Caelica, 41 sonetti pubblicati postumi nel 1633.

Di fronte alla produzione così torrenziale e così fugace di sequenze di sonetti negli anni Novanta, gli studiosi hanno risposto con alcune ipotesi parziali. Una potrebbe riguardare l’autore di Astrophil and Stella, la cui morte eroica avrebbe assicurato al sonetto inglese una origine dotata di nobiltà di natali e di meriti, istituendo così il modello imitato dal cortigiano in cerca di favori e promozioni sociali. Il sonetto doveva comprimere e controllare nel suo “piccolo spazio” (small room, come la definì Samuel Daniel) di quattordici versi la storia di un momento emotivo intenso articolandola in un rigoroso ragionamento.

Una seconda ipotesi, non incompatibile con la prima, potrebbe risiedere nell’analogia tra discorso amoroso e discorso politico, tra desiderio d’amore e ambizione sociale.

Già a metà degli anni Novanta il sonetto era diventato di gran moda, e spesso il poeta si trovava a competere non con altri amanti, ma con altri scrittori per il favore della sua donna e signora. Il sonetto era diventato la forma poetica per eccellenza del cortigiano elisabettiano.

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Ma l’analogia socioamorosa non spiega del tutto la straordinaria produzione di lirica degli anni Novanta. Se infatti l’Inghilterra non ha avuto una vera e propria questione sulla lingua, né alcuna discussione sui generi letterari, come la ebbe l’Italia, ne ebbe certo una sulla rima. Oltre che per uno dei canzonieri più belli degli anni Novanta (fatta eccezione per quelli di Sidney, Spenser e Shakespeare), Samuel Daniel (1563- 1619) è famoso per una Defence of Rhyme (1602) che scrisse in risposta a Observations in the Art of English Poesie (1602) di Thomas Campion, poeta e cortigiano, che caldeggiava l’uso del verso quantitativo della prestigiosa poesia greca e latina.

Natura e costume: Daniel difende la musicalità e l’energia del suono della lingua inglese contro l’imposizione astratta di regole che appartengono a un’altra lingua e un’altra civiltà, in nome dell’inevitabile destino che accomuna ogni nazione nella costruzione di una civiltà propria e naturale.

Membro del circolo di Sidney, Daniel dedica la sua Defence a William Herbert, figlio della sorella di Philip Sidney, Mary, contessa di Pembroke, e ammette di aver

“ricevuto le prime nozioni dell’ordine formale di quelle composizioni a Wilton [dimora dei Sidney], che riconoscerò sempre come la mia migliore Scuola”. Delia sembra uno splendido risultato di quella scuola nella quale la sperimentazione sul verso si avvaleva delle teorie neoplatoniche sull’armoniosa rete di corrispondenze che attraversano l’universo. Nel suo canzoniere è la melodia del verso piuttosto che il ragionamento a risaltare.

Non altrettanto riflessivo e grave è il canzoniere di Michael Drayton (1563-1631).

Sebbene Idea sia un titolo neoplatonico, non sempre le parole scelte per l’amata hanno intenzioni idealizzanti.

Poiché non c’è niente da fare, andiamo, baciamoci e separiamoci;

no, ne ho abbastanza, non mi vedrai più, e sono contento, sì, contento di cuore che mi posso liberare così nettamente.

Idea può essere sia il nome dell’amata sia l’immaginazione del poeta. Pubblicato per la prima volta nel 1594 col titolo di Idea Mirrour e nel 1619 con quello di Idea, il canzoniere fu esteso e riscritto per venticinque anni.

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Sebbene potesse apparire conservatore e pedante nella sua difesa della prosodia latina e greca in The Observations in the Art of English Poesie, Thomas Campion (1567- 1620) scrisse 150 poesie tra le più belle in lingua inglese raccolte.

Famosa è Rose-Cheeked Laura (Laura dalle guance rosa). Scritta per illustrare le sue teorie sulla versificazione, questa canzone è un esempio luminoso di come il verso quantitativo (verso fondato sulla durata delle sillabe piuttosto che sulla rima) potesse effettivamente risultare melodioso in inglese:

Rose-cheeked Laura come,

sing thou smoothly with thy beauty’s silent music, either other

sweetly gracing.

Laura dalle guance rosa, vieni,| canta dolcemente con la silente| musica della tua bellezza, l’una adornando dolcemente l’altra.

Una particolare sensibilità musicale aiutò Campion a sperimentare un’abbondante quantità di metri e rime nell’intento di riprodurre la soavità del verso latino dei suoi autori prediletti: Tibullo e Catullo. Celebre è il suo riadattamento di una poesia di Catullo dedicata alla sua amata Lesbia, My Sweetest Lesbia.

John Davies (1569-1626), poeta e compositore oltre che un brillante uomo di legge, per esempio, rende chiaro fin dal titolo della sua opera più importante, Orchestra, or a Poem of Dancing (1594), l’intreccio fondamentale nella cultura cortese, in quella popolare e anche nel teatro del Cinquecento, tra musica, poesia e danza. Il poemetto di Davies (incompleto), che si presenta frivolo e leggero, narra un episodio che nella fantasia del poeta manca nell’Odissea di Omero: corteggiata dai Proci, Penelope rifiuta l’invito a danzare di Antinoo. Ne segue un dibattito nel quale Antinoo dichiara che l’intero universo è ordinato in una danza.

Era un suono armonico per Davies la rima, e per l’umanista Thomas Elyot la danza era requisito essenziale del gentiluomo: essa “simboleggia la concordia”.

Danza, musica e poesia erano abilità che il cortigiano, ma anche tutti i membri della casa reale e delle più illustri famiglie aristocratiche dovevano conoscere a menadito.

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