DIECI SECOLI DI TEATRO INGLESE
IL TEATRO LAICO MEDIEVALE
1. Il teatro delle tradizioni popolari
Benché quasi tutte le storie del teatro inglese comincino con il Quem quaeritis e con la nascita del teatro religioso, l’accordo in favore di una discesa diretta dello spettacolo elisabettiano da questo non è affatto unanime.
“Non riesco a convincermi che né i Misteri, né i loro successori, le moralità, abbiano avuto alcun influsso sostanziale, sul corso successivo della tragedia”, scrisse uno storico già nel 1908. Di avviso diverso E.K. Chambers, il quale però affianca al teatro religioso almeno altre due origini: “Il teatro moderno è nato da una fonte triplice, la liturgia ecclesiastica, la farsa dei mimi, i ripristini classici dell’umanesimo”. Uno studioso più moderno, Richard Southern, ha di nuovo segnalato l’importanza delle fonti laiche, dividendo il teatro secolare tardoquattrocentesco e cinquecentesco in tre filoni, quello sontuoso dei masques di Corte, destinato a culminare nelle fastosità spettacolari italianate di Inigo Jones; quello “dotto” delle Inns of Court e delle Università, contrassegnato dal recupero rinascimentale di testi classici e della loro imitazione; e infine quello professionistico, costituito da compagnie di attori che durante il regno di Enrico VIII e in seguito vennero specializzandosi nell’esecuzione dei cosiddetti Interludes, strutturalmente abbastanza vicini a tarde moralità come Mankind, Hickscorner e lo stesso Everyman. Quest’ultimo, il teatro degli Interludes, sarebbe il vero antecedente di quello di Shakespeare.
Ma era mai esistito un teatro del tipo che oggi si definirebbe alternativo? La risposta è, sì. Malgrado i suoi reiterati tentativi, in nessun momento del Medioevo la Chiesa arrivò a detenere quel monopolio degli svaghi popolari al quale aspirò. Il Chambers lo chiama genericamente “folk-drama”: “Il folk-drama non ha contribuito a quel fiume possente che con il più tenue dei rivoli”. Studiosi venuti dopo si sono sforzati di allargare i confini già elastici del “folk-drama”, prendendo in considerazione oltre alle feste popolari, alle mascherate, alle esibizioni di menestrelli e giocolieri e alle numerose altre manifestazioni già esplorate dal Cambers, anche le processioni cittadine, i tornei cavallereschi, certe solennità straordinarie come le accoglienze tributate a un sovrano in visita a una città; ma senza riuscire a segnalare più di qualche analogia, in definitiva poco suffragata da fatti concreti. Col metodo di considerare teatro quasi tutto si può andare avanti all’infinito. Ma volendo limitarsi a quanto è teatro autoconsapevolmente, il campo si restringe parecchio.
La strategia della Chiesa fu, spesso, quella di sovrapporsi e di incorporare là dove non riusciva a estirpare; e gli etnologi non hanno fatto fatica a rintracciare sotto alcuni degli appuntamenti più solenni della liturgia le vestigia di celebrazioni molto anteriori al cristianesimo, e genericamente connesse alla propiziazione, comune a tutti i popoli, della preziosa regolarità del ciclo naturale, nei quattro momenti fatidici dei solstizi e degli equinozi. L’albero di Natale, i fuochi di San Giovanni sono solo alcune di tali osservanze pagane giunte fino a noi.
Limitandosi fra consimili pratiche a quelle che presentino perlomeno qualche punto di contatto con lo spettacolo teatrale, il Chambers è stato però costretto a lavorare su documento molto tardi.
E la pur assai interrogata Mummer’s Play, di cui sopravvivono numerose versioni, non compare in testi antecedenti al diciottesimo secolo. Si tratta di una filastrocca con un’azione scenica generalmente basata su un duello fra un San Giorgio e un antagonista turco o moro, con morte di questi e sua miracolosa resurrezione operata da un “dottore”: se ne veda il quadretto fattone da Thomas Hardy nel romanzo Ritorno al paese.
Maggiori punti di contatto con uno spettacolo vero e proprio sembra avere il cosiddetto gioco di Robin Hood e di Marian. Come personaggio l’arciere di Sherwood, eroe di moltissime ballate e anche di non poche commedie elisabettiane e giacobiane, non sembra attestato in Inghilterra prima della fine del XIV secolo.
L’origine, o una delle origini, è francese; o perlomeno si presume che in qualche maniera Robin, eroe di pastourelles, abbia varcato la Manica per quindi identificarsi con qualche eroe popolare locale, e successivamente innestarsi sopra l’antica festa primaverile del maggio, comportante gare sportive, scalata del palo della cuccagna, ecc., e sempre avversata dalla Chiesa in quanto pretesta di licenza sessuale. A un certo punto Robin e Marion avrebbero assunto le parti di re e regina del maggio, protagonisti della festa sviluppatasi su antichi riti della fertilizzazione. Nel secolo XV la diffusione del personaggio Robin Hood e del suo seguito era diventata vistosissima, e accanto alle numerose ballate comportò certamente anche plays popolari, di cui non restano però che tre frammenti, il più antico dei quali, databile agli anni 1470, descrive una serie di giochi atletici (Robin sconfigge un cavaliere al tiro con l’arco, alla lotta, al getto della pietra, alla scherma; da ultimo, lo uccide).
Altre tradizioni medievali imparentate con lo spettacolo hanno lasciato maggior ricordo di sé nelle testimonianze dei tentativi mediante i quali a più riprese la Chiesa tentò di combatterle.
Avversatissime in tutta Europa furono per esempio le varie versioni della cosiddetta festa degli sciocchi, ben documentata soprattutto in Francia ma certo presente anche in Inghilterra, dove, proibita nel 1236, sopravviveva ancora più di un secolo dopo. In questa ricorrenza, che coincideva con la Circoncisione ovvero con l’Epifania, le gerarchie si ribaltavano e, per un giorno o, secondo i casi, per un certo periodo, gli ordini minori assumevano il comando. Si ragliava in chiesa, si recitavano litanie grottesche, si impartivano sacramenti blasfemi. A questo clima appartengono anche le feste connesse al regno burlesco dei bambini, descritto per esempio in un ordinarium di Rouen (XIV sec.) come Officium Infantum; in Inghilterra abbiamo il comando di un boy bishop o vescovo fanciullo, a sua volta paragonabile a un altro sovrano, adulto, di sregolatezze e sovversione, l’Abbott of Unreason.
Il tempo è sempre quello natalizio, e l’identificazione del 6 gennaio con una particolare licenza di mattane è ricordata da Shakespeare nel sottotitolo della Dodicesima notte (O, quel che volete).
2. I menestrelli
Ma il maggiore, anche se non troppo documentabile, legame “laico” fra il teatro elisabettiano e il mondo dello spettacolo dell’antichità precristiana è dato dalla presenza, durante tutto il Medioevo, di quella singolare figura di outsider che fu il menestrello ambulante.
Con la fine del teatro antico, costretto a soccombere di fronte al crollo generale della civiltà romana e all’ostilità della Chiesa cristiana, i mimi diventarono nomadi, e al nord si fusero con gli scop, i germanici cantori di gesta. La gamma di questi vagabondi, genericamente compresi sotto il nome di joculatores è vastissima, e va dagli acrobati e dagli specialisti in giochi di destrezza, ai “matti” esperti in sciarade burlesche, fino ai vati, ovvero ai bardi suonatori di arpa che si trovano alle origini dell’epica altomedievale. Le autorità, soprattutto quelle ecclesiastiche, perseguitarono ovvero tentarono di scoraggiare questi anarchici della rigida gerarchia medievale. E proprio dai decreti emanati a getto continuo abbiamo un’idea abbastanza vivida delle specialità di tali girovaghi.
Un indizio del favore con cui venivano accolti in quel periodo per loro prospero lo dà il fatto che William de LongChamp, cancelliere di Riccardo I, importò un certo numero di menestrelli francesi allo scopo di far cantare le proprie lodi in luoghi
pubblici. Ben accetti nei castelli, ebbero almeno in certi periodi una gran voga a Corte.
Abbiamo anche idee sufficientemente precise sul genere di intrattenimento offerto da questi declamatori-cantanti, che Thomas de Cabham, vescovo di Slaisbury (morto nel 1313), divise in base al loro repertorio fra quelle che cantano canzonacce nelle taverne e quelli (più propriamente detti joculatores) che rallegrano l’animo degli uomini recitando le gesta degli eroi e le vita dei santi. Nell’una o nell’altra delle due categorie dovrebbero rientrare anche la canzoni narrative (chansons de gestes), poi confluite nei primi romans d’aventure; i contes; i fabliaux; i lais; le cante-fables (con alternanza di prosa e versi accompagnati da musica). E’ possibile definire questi menestrelli attori nel nostro senso?
Non abbiamo che pochi e pallidi accenni a quella impersonazione che è necessaria per trasformare un dicitore di versi in attore vero e proprio. Il Chambers cita qualche esempio di trovatore travestito, o munito di maschera. Ma di spettacoli teatrali veri e propri non sembra il caso di parlare: anche se senza dubbio gli joculatores anticiparono gli attori dei tempi successivi in alcuni punti non secondari.
3. Il luogo
Dove si esibivano gli ambulanti, oltre che nelle piazze? La risposta ce la dà la struttura stessa delle grandi case di campagna inglesi, circa duecento delle quali sono ancora in piedi e possono rispondere alle nostre domande. Anche quando la raggiunta unità nazionale rese meno necessaria l’arcigna presenza del maniero fortificato, rimase viva per i grandi signori la necessità di continuare a fornire un’immagine tangibile della loro potenza ai rivali più diretti, e soprattutto ai loro sottoposti immediati.
Tutto il cerimoniale che regolava la vita al loro interno dipendeva da questa funzione.
Il grande salone, capace di contenere tutta la “famiglia” (termine con cui si indicavano anche tutti i dipendenti del signore) era il locale attorno al quale la vita della dimora di campagna ruotava. Qui il signore si mostrava quotidianamente nel suo splendore, assiso al posto d’onore al centro della cosiddetta tavola alta, collocata su di una pedana rialzata lungo una parete di fondo. Il rimanente della “famiglia”
prendeva posto, in ordine decrescente di importanza, ai due lati del signore, e quindi alle tavole lungo le pareti laterali: al centro delle quali erano collocate le saliere, e
trovarsi “sopra” o “sotto” il sale è una frase indicativa di qualifica sociale tuttora viva nella lingua inglese.
I grandi saloni erano rettangolari, e la quarta parete, unica contro cui non fossero disposti tavoli – il braccio libero della U – cominciò in epoca Tudor a ospitate una sorta di costruzione caratteristicamente inglese, detta screen, schermo o transenna.
Può darsi che l’origine degli screens Tudor fosse anch’essa medievale.
In epoca Tudor lo screen serviva a ridurre le dimensioni del salone separandolo dalle cucine e fornendo al contempo un passaggio fra due stanze o cortili laterali. Si trattava in pratica di una parete di legno con due porte; questa parete non arrivava fino al soffitto, ed era spesso sormontata da una galleria praticabile. Costituiva anche una specie di fondale decorativo per il salone, adorno di intagli, nicchie per statue, ecc.
Era in questo spazio – la U dei tavoli, con le autorità al centro del braccio più breve; e il fondale costituito dallo screen, con le due porte – che avvenivano nel Medioevo, durante i banchetti, le esibizioni di giocolieri e menestrelli; e più tardi, una volta che se ne fu diffuso l’uso, quelle di vere e proprie piccole troupes di attori. Il dramma storico elisabettiano Sir Tomas More di Anthony Munday (c. 1592) ci mostra una troupe del genere, ingaggiata per una rappresentazione di contorno a un banchetto in onore del sindaco di Londra; l’epoca è il regno di Enrico VIII. Gli attori si trovano in difficoltà: manca una barba finta, e l’uomo mandato a cercarla non è pronto quando viene il suo turno. Allora lo stesso padrone di casa, il potente Lord cancelliere, si alza e improvvisa la parte, sostituendo l’assente. Ma poi l’annuncio che il banchetto è pronto fa rinviare il resto della commedia a più tardi.