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Il lavoro come «la parte ornamentale della vita»

"Sentiamo di aver perso qualcosa e, a meno che non siamo molto irrealistici e privi di risorse, dovremmo in breve tempo tentare di sopperire a questa perdita. Finché ne sentiremo la mancanza, l'arte non sarà mai morta. Questo affermo, e sebbene probabilmente tenteremo molte vie tortuose per colmare questa mancanza, tuttavia alla fine saremo portati a imboccare la strada giusta per concludere che, nonostante tutti i rischi e tutte le perdite, il lavoro triste e servile deve finire."152 William Morris

Le fonti storiche non lasciano dubbi sull'esistenza di un forte contrasto tra il mondo dell'artigianato e quello dell'industria. Il suo inizio rinvia al movimento dei luddisti153, che prevedeva la distruzione dei macchinari presenti nei vari distretti manifatturieri dell'Inghilterra da parte di artigiani e più in generale da parte di lavoratori che l'introduzione del telaio a vapore aveva condannato alla

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W. Morris, L'architettura gotica, cit., pag. 62 153

Il nome del movimento luddista deriva dal «generale Ned Ludd», che forse non è mai esistito o forse non si chiama Ludd. Esistono varie ipotesi tra gli studiosi, John Blackner, storico di Nottingham, fa risalire il nome Ludd ad un episodio avvenuto nel Leicestershire, in cui un giovane di nome Ludlam dopo che il padre tessitore gli ordinò di aggiustare gli aghi del telaio, prese un martello e ridusse il telaio in pezzi. Un'altra versione narra che nel 1779 viveva, sempre nel Leicestershire, un giovane di scarsa intelligenza, chiamato Ned Ludd, che era divenuto lo zimbello dei ragazzi del villaggio. Un giorno particolarmente irritato per le prese in giro inseguì uno dei ragazzi che lo beffeggiava fin dentro casa e, incapace di raggiungerlo, sfogò la sua ira distruggendo i due telai che li si trovarono davanti. Secondo un'altra variante di questo racconto, pubblicata dal Nottingham Review nel 1790, Ned Ludd era un apprendista a Anstry, vicino a Leicester. Era descritto come un ragazzo ribelle e inquieto che rifiutava di apprendere il mestiere di tessitore. Il suo datore di lavoro ebbe il permesso dal magistrato di frustarlo per l'inadempienza dei compiti. Come risposta, Ned Ludd distrusse a martellate il telaio che odiava tanto. Quale sia stata la vera storia di Ned Ludd rimane ancora un mistero, certo è che nel linguaggio corrente «luddista» divenne sinonimo di distruttori di telai, e successivamente sinonimo di distruttore di macchine. (L. Salvadori e C. Villi, Il Luddismo: l'enigma di una rivolta, Editori Riuniti, Roma, 1987, pag. 111)

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disoccupazione. La polemica contro il lavoro dell'industria vede protagonisti John Ruskin e William Morris, i quali contrapponevano l'ideale di un modello di lavoro ricco e creativo, in contrapposizione al modello vittoriano, in cui avrebbe dovuto incarnarsi il mito del progresso, ma di cui già Engels aveva denunciato le drammatiche conseguenze154. Una cosa era infatti il mito, altra cosa la realtà delle condizioni della classe operaia, brutalizzata dalla fame, dallo squallore e dall'alcolismo e del tutto priva di protezione sul lavoro. Soprattutto le donne e i bambini risentivano tragicamente dei faticosi ritmi di fabbrica che si svolgevano in ambienti insalubri. Le stesse misure adottate dal Factory Act, entrato in vigore nel 1833, prevedevano la limitazione del lavoro dei bambini a dodici ore giornaliere155, non solo e non tanto per un intento umanitario, ma per risolvere il problema della concorrenza sleale da parte di chi sfruttava al limite, senza controllo e senza alcun rispetto, il lavoro femminile e infantile. Se molte delle riforme sociali e i progetti concepiti per risolvere i contrasti di classe miravano in realtà al consolidamento del nuovo sistema industriale (che faceva dell'Inghilterra il modello per tutte le nazioni dell'Europa continentale), certamente l'impegno di Morris appare diretto a scalzare, punto per punto, i fondamenti ed i valori dominanti della società contemporanea, con la negazione del successo imprenditoriale ed economico quale valore primario, la ferma opposizione al processo di meccanizzazione come fine, e l'esigenza di riconoscere la dignità di ogni individuo.

Se, il forte temperamento artistico di Morris, che si manifestava nel lavoro artigianale della firm, ha contribuito a formare questa concezione del lavoro , non sono state da meno le letture dei saggi di Carlyle e di Ruskin. Sia Carlyle che Morris consideravano il lavoro quale impegno che permetteva la piena realizzazione dell'uomo, rivestendolo di una sacralità156 che ricordava quella del

154 Le fonti sulla condizione della classe operaia inglese sono numerosissime, dai Reports parlamentari largamente citati da Karl Marx nella Ⅱ parte del Capitale, all'opera già citata di Engels, importantissimo contributo per la conoscenza diretta della realtà industriale inglese. 155 E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Volume Ⅰ, Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore, Milano, 1969, pag. 341

156 Fra i passi Carlyleani,che si potrebbero citare in riferimento al concetto di sacralità del lavoro, vi è l'imbarazzo della scelta. Tra le innumerevoli formulazioni di questo concetto viene ripreso il seguente passo tratto da Past and Present: "Noi condividiamo pienamente l'opinione di questi monaci di un tempo: Laborare est orare. In mille modi, in tutto il significato della parola, il vero

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monastero medievale: centro nevralgico della comunità, nel quale si manifestavano e si alimentavano tutte le dinamiche relazionali e sociali, e che era simbolo dell' accrescimento spirituale e morale di chi vi viveva. Ma per Carlyle ogni lavoro era nobile e sempre buono in sé, perfino quello industriale sotto il giogo di Mammone:

"Il lavoro non è un demone, anche quando è in mano al Mammonismo: il lavoro riveste sempre un Dio imprigionato, lottante, coscientemente o incoscientemente, per sfuggire a Mammone!"157

Ciò non significava che Carlyle non denunciasse le forme che il lavoro aveva assunto nell'età vittoriana. Tuttavia, egli predicava il lavoro come un "il vangelo" che l'impegno in esso (qualunque esso fosse) doveva sempre e comunque essere preferito all'ozio, allo spettacolo ripugnante di chi (la nobiltà) poteva e doveva vivere senza lavorare.

Alle formulazioni carlyleane, per cui il lavoro è comunque santificante, Morris risponde con argomentazioni contrarie. In una conferenza tenuta nel 1884 all'Hampstead Liberal Club di Londra egli sostiene:

"In poche parole, l'idea che ogni lavoro sia buono in quanto tale è diventata per la morale moderna un articolo di fede ˗ una credenza ben comoda per coloro che vivono grazie al lavoro degli altri. Ma quanto a questi ultimi, che li sostengono, li raccomando di non prendere la cosa in parola, ma di considerare la questione un po’ più a fondo.[…] E tuttavia, dobbiamo dire, in contrapposizione all'ipocrita elogio di qualsivoglia lavoro, a cui prima accennavo, che esistono alcuni tipi di lavoro i quali, lungi dall'essere una benedizione, sono piuttosto una disgrazia; che sarebbe meglio per la comunità e per il lavoratore che quest'ultimo

lavoro è una preghiera. Chi lavora, qualunque sia il lavoro compiuto, riveste di un corpo la forma di cose fino allora invisibili; ogni lavoratore è un piccolo poeta."(T. Carlyle, op. cit., pag. 313) 157Ivi, pag. 316

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incrociasse le braccia e rifiutasse di lavorare, e si lasciasse morire, oppure rinchiudere in una casa di lavoro o in un carcere: come preferite."158

Se il pensiero di Carlyle si manifestava nell'opera morrisiana con l'idealizzazione del medioevo come forma di riscatto dalle ansie del presente, nell'ideologia del lavoro questa influenza si esauriva completamente159, mentre prendeva maggiore spazio la visione ruskiniana. Morris, in un articolo apparso su Justice il 16˗6˗1894, ammise che entrambi gli autori lo influenzarono maggiormente nella ribellione contro lo smisurato potere del liberalismo, anteponendo, tuttavia, Ruskin come la figura più importante, non solo per la sua formazione, ma anche per l'Inghilterra stessa.

In particolare, ricostruendo le vicende inglesi anteriori alla nascita del socialismo, Morris identificò nell'ambito della società tre gruppi di individui. I primi, del tutto soddisfatti della civiltà del secolo, i secondi, insoddisfatti, ma costretti al silenzio dal potere del liberalismo, e infine i terzi così rappresentati:

"c'erano alcuni in stato di aperta ribellione contro lo spirito whig ˗ alcuni, diciamo due, Carlyle e Ruskin. Quest'ultimo, prima della mia adesione al socialismo pratico, mi fu maestro sulla via di quell'ideale; e guardandomi indietro, non posso fare a meno di dire a questo proposito quanto sarebbe stato mortalmente noioso venti anni fa se non fosse stato per Ruskin! Attraverso di lui ho imparato a dare forma al mio scontento, che debbo dire, non era affatto vago. A parte il desiderio di produrre cose belle, la passione dominante della mia vita è stata ed è l'odio della civiltà moderna."160

158 W. Morris, Lavoro utile e fatica inutile, cit., pagg. 3˗4 159

Guido Bulla ci offre un'interessante analisi sulle influenze ricevute da Morris nella sua ideologia circa il lavoro, sostenendo, in particolare, come la linea di Carlyle venisse assunta alla fine come esempio negativo dall'artista.(G. Bulla, William Morris fra arte e rivoluzione, Editrice garigliano-cassino, 1981, Siena, pag. 35)

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Pochi uomini, la cui visione era considerata dai vari "Gradgrins"161 come una «defezione» dalla realtà, sfidavano appunto apertamente il sistema capitalista, vivendo per scopi diversi dall'utile: scopi che certo non erano alla portata immediata dei milioni di individui che rappresentavano la classe lavoratrice. John Ruskin, ne era un fondamentale esempio, rappresentando il critico più accanito della nuova organizzazione industriale.

A lui si deve il merito di avere evidenziato il rapporto fra economia capitalistica e decadenza dell'arte, dimostrando che l'operaio moderno non poteva più essere artista (l'artista-artigiano di Pugin), perché con la divisione del lavoro gli era stata sottratta quella integrità e interezza della persona che l'artigiano medioevale possedeva:

"Abbiamo molto studiato, e molto perfezionato, negli ultimi tempi, la grande e civile invenzione della divisione del lavoro, solo che la chiamiamo con un falso nome. Non è a parlare sinceramente, il lavoro ciò che viene diviso, ma gli uomini: divisi in puri frammenti di uomini, frantumati in piccoli brani e briciole di vita; dimodoché tutta la piccola quantità d'intelligenza che a un uomo rimane non è neppur sufficiente a fare uno spillo, o un chiodo, ma si esaurisce nel fare la punta di uno spillo o la capocchia di un chiodo.

E il grande grido che proviene da tutte le grandi città industriali, sopraffacendo il boato degli altiforni, ha, in tutta verità, questo significato: noi lì produciamo qualunque cosa, fuorché uomini. Sbianchiamo il cotone, tempriamo l'acciaio, e raffiniamo lo zucchero, e modelliamo ceramiche; ma non si s'inserisce mai nel preventivo dei profitti il far risplendere, il raffinare, il modellare anche un solo spirito vivente.[…]È un male che si può fronteggiare solo con la corretta comprensione, da parte di tutte le classi, di quali tipi di lavoro siano bene per gli

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Thomas Gradgrind è un personaggio del romanzo di Dickens, un utilitarista, fondatore del sistema scolastico di Coketown. Contraddistinto da un eminente pragmatismo, egli rappresenta la severità e il rigore dei Fatti, delle statistiche e di altre materie matematiche. Solo dopo il crollo della figlia Louisa capisce che la fantasia e l'immaginazione non sono, tutto sommato, delle "dannosissime sciocchezze". Tuttavia, anche alla fine del romanzo, è descritto come un personaggio piatto, attraverso il quale l'autore vuole condannare l'utilitarismo.(C. Dickens, Tempi difficili, cit., pag. 22)

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uomini, li elevino, li facciano felici; col ben determinato sacrificio della comodità, della bellezza o del risparmio ove essi siano tenuti soltanto mediante la degradazione del lavoratore; con la altrettanto determinata richiesta di cose che siano il prodotto e il risultato di un lavoro salubre e nobilitante."162

Il mito di Sisifo, che spinge un macigno su per una montagna per poi vederlo precipitare in basso appena raggiunta la cima, dovendo ricominciare tutto da capo, può metaforicamente esemplificare il dramma della vita lavorativa cui sono sottoposti gli operai dell'industria: l'operaio esegue tutti i giorni gli stessi movimenti allo stesso macchinario cui è addetto, per la stessa lunga durata di tempo, e una volta terminata l'estenuante giornata lavorativa, tutto ricomincia da capo il mattino dopo. La regola è sempre la stessa, dato che non vi è alcuna possibilità di progredire: o si regredisce o si rimane tutt'al più nella stessa situazione.

Per Ruskin la divisione del lavoro significava degradazione del lavoratore, peggioramento della sua condizione di miseria non solo materiale ma anche intellettuale, a fronte della necessità di rivendicare, invece, il diritto di ogni uomo a quell'armonioso processo di elevazione che doveva consistrere nel lavoro. Per il teorico dell'arte non si trattava soltanto del riconoscimento delle esigenze del corpo e della mente di ogni lavoratore, ma di una forma di realizzazione globale dell'individuo che non poteva altrimenti concretizzarsi se non nell'attività lavorativa.

Morris "tende la mano" a Ruskin nell'elaborare la propria visione del problema del lavoro,nella comune prospettiva di una forte vocazione artistica che concepisce l'opera dell'uomo come una vera e propria arte di creare.

In una lettera rivolta al suo amico Cormell Price, nel giugno del 1856, egli scriveva:

"Il mio lavoro è la realizzazione dei sogni in una forma o nell'altra"163

162 J. Ruskin, The Stones of Venice, Longmans, Green and co. New York, 1903, pag. 196, disponibile alla pagina: http://www.lancaster.ac.uk/depts/ruskinlib/Stones%20of%20Venice

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Sogni che successivamente, nella firm in Queen Square, avevano preso la forma di vasi dipinti, mobili, scrigni, sedie, cassoni, vetri colorati, stoffe da arredamento, prodotti artigianali, ben distanti, per tipo di lavorazione ed originalità, dalla produzione in serie delle manifatture. Non era un caso che Morris venisse definito "l'artista romantico", poiché il romanticismo in tutte le sue manifestazioni, da Goethe ai fratelli Grimm, da Rousseau a Hugo, e da Shakespeare a William Morris, conteneva un massimo comune denominatore: esprimere nella realtà gli aspetti più profondi ed essenziali dell'animo umano.164 Questo aspetto, per così dire "umano", sembrava essere svanito nel palcoscenico dell'industria, e su questo stesso palcoscenico occorreva, secondo Morris, sgombrare il campo da tutta una serie di luoghi comuni riguardanti il lavoro, tornando appunto a parlare di uomini. Per l'artista romantico, infatti, affermare che ogni lavoro fosse una "benedizione in sé" era completamente errato. È ciò che Morris sostiene durante la conferenza dal titolo "Useful Work versus Useless Toil", da lui tenuta a Hampstead il 23 gennaio del 1884. Nell'appello rivolto al pubblico, invitava a non essere insensibili ai bisogni dei lavoratori: un paradosso congratularsi con gli operai per un'operosità, in realtà utile soprattutto a coloro che vivevano della fatica degli altri. È il caso della classe aristocratica:

“che non lavora, sappiamo tutti che essa consuma in abbondanza senza produrre niente. È evidente quindi che debba essere mantenuta a spese di coloro che lavorano, così come avviene per gli indigenti, e che non è altro che un peso per la comunità”165.

È per Morris diverso il caso dell’alta borghesia, che «comprende gli addetti al commercio, alla manifatture e alle professioni che operano nella nostra società»166: classe sociale più complessa da definire ma di certo impegnata in una forsennata ed interminabile gara, in patria e all’estero, per l’accumulo della

164 L. Mumford, Tecnica e cultura, Il Saggiatore, Milano, 1961, pag. 305 165

W. Morris, Lavoro utile e fatica inutile, cit., pag. 7 166 Ivi , pag. 8

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ricchezza e lo sfruttamento della fatica dei veri lavoratori. Nelle parole di Morris, coloro che ne fanno parte:

"sono i parassiti della proprietà; talvolta, come nel caso degli avvocati, in modo neppur mascherato; talaltra, come per i dottori e gli altri summenzionati, professandosi utili, ma rivelandosi troppo spesso di nessuna utilità se non nella loro funzione di sostenitori del sistema insulso, fraudolento e tirannico al quale appartengono."167

Di questo sistema paga il prezzo anche e soprattutto quella classe impegnata (nonché obbligata) nella produzione di «tutti quegli articoli insulsi e di lusso, la cui richiesta scaturisce dall'esistenza delle classi ricche e improduttive, generi che chi conduce una vita degna d'un uomo e incorrotta non richiederebbe né sognerebbe».168 Si tratta della classe degli operai, considerati gli schiavi del moderno sistema commerciale, malnutriti, mal vestiti e residenti in abitazioni miserabili.169

Morris sosteneva che il gusto della sua epoca per gli oggetti della vita quotidiana appariva stravolto dai nefasti meccanismi di oppressione e sfruttamento economico dell'uomo sull'uomo. Questa "adulterazione" del gusto, che si diffondeva in ogni parte della società, dai livelli più alti a quelli più bassi, portava gli operai, che non potevano permettersi la merce più costosa, a produrre per uso personale dei manufatti, che erano ridicole imitazioni dei generi di lusso dei ricchi. A causa della disarmonica strutturazione del corpo sociale, una classe oziosa ed improduttiva si faceva mantenere da un gran numero di "schiavi" impegnati in un lavoro non gratificante.

167 Ivi pagg. 8˗9 168Ivi, pag. 10 169

E.P. Thompson ci ha riportato un'accurata descrizione degli usi e costumi degli operai inglesi della prima metà dell'ottocento, in particolare svolgendo un'attenta analisi sull'alimentazione, ambiente abitativo e salute degli operai delle più importanti città inglesi di quell'epoca. (E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Volume Ⅰ, Il Saggiatore, Milano, marzo 1969, pag. 320)

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Tale sistema, secondo Morris, doveva essere cambiato, non solo per le condizioni estenuanti di lavoro cui erano sottoposti gli operai, ma anche per fronteggiare il fenomeno dello spreco, concepito come conseguenza perversa della ricchezza di pochi, nonché come risultato di uno stimolo produttivo esasperato che dipendeva non da veri bisogni dei consumatori, ma dalla avidità di guadagno dei proprietari dei mezzi di produzione.

Il primo passo da compiere consisteva, secondo Morris, nell'abolizione delle distinzioni di classe e nella soppressione del privilegio di chi si sottraeva al lavoro, nella ferma convinzione che tutti gli uomini dovevano lavorare e consumare solo in rapporto a ciò producevano. Il lavoro diventa per l'artista «la parte decorativa della vita», a condizione che esso soddisfi i tre requisiti fondamentali che distinguono il lavoro buono da quello cattivo

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La prima caratteristica è la possibilità per i lavoratori di un riposo sufficientemente lungo. Senza un adeguato recupero delle energie della mente e del corpo, verrebbe meno l'efficacia della stessa attività lavorativa. Il secondo elemento è il piacere che si ricava dall'aver realizzato un prodotto, frutto della propria immaginazione, quale risultato del dialogo dell'operaio con la "Natura". Vi è, infine, la gratificazione che l'uomo prova nello svolgere una determinata attività. Morris afferma, infatti, che il lavoro è degno (e quindi fonte di piacere) quando l’uomo vi impiega le proprie energie non solo fisiche, ma anche mentali:

"Nel suo lavoro lo aiutano la memoria e l'immaginazione, le sua mani son guidate non solo dai suoi stessi pensieri, ma anche da quelli degli uomini delle epoche passate, ed egli crea in quanto è parte del genere umano. Se lavoriamo in tal modo saremo uomini, e i nostri giorni saranno lieti e ricchi di eventi"170

La dimensione della creatività viene, quindi, considerata una componente fondamentale del lavoro, in grado di dare una soddisfazione quotidiana, come la ricompensa delle fatiche che esso comporta.

Il lavoro può essere benefico, senza risultare insopportabile e gravoso, solo quando sia finalizzato a uno scopo ben preciso ed abbia una chiara utilità, di cui il

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lavoratore sia pienamente consapevole. Inoltre, per essere attraente, l'attività lavorativa deve essere varia, prevedendo almeno tre "mestieri" diversi e l'alternanza di momenti di occupazione sedentaria e momenti di impegno fisico; poiché «costringere un uomo a svolgere lo stesso compito giorno dopo giorno, senza alcuna speranza di sottrarvisi o di cambiamento, non significa altro che trasformare la vita in un supplizio carcerario.»171 È la tirannia schiacciante del capitalismo che obbliga la maggior parte degli uomini a svolgere un lavoro parcellizzato, monotono, considerato dagli stessi lavoratori triste e insopportabile, in cambio di un salario inadeguato ai loro bisogni.

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