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Le trasformazioni del contesto urbano

«Il cielo è nascosto da croste di nera fuliggine.» 71 William Morris

Il tema dell'arte connessa alla società (il principale assillo di William Morris) e ai mutamenti industriali è analizzabile in riferimento al principale segno delle trasformazioni in atto: lo scenario urbano, perché è in esso che lo sviluppo del commercio e il decollo dell'industria rappresentano le basi della trasformata società capitalistica nell'epoca vittoriana. Ma se volessimo utilizzare una lente di ingrandimento, quali sono state le conseguenze di un tale modello economico e sociale sul contesto urbano, dal punto di vista estetico, e per coloro che popolavano quelle città? Di certo l'avvento della civiltà capitalistica ha portato alla distruzione della città medievale per dare vita alla città mercantile e al proletariato urbano72.

La rivoluzione industriale aveva rapidamente portato nelle città centinaia di migliaia di persone provenienti dalle campagne, un fenomeno che Ruskin aveva descritto come se la popolazione «venisse respinta in masse sempre crescenti contro le porte delle città»73. Ciò accadeva secondo un meccanismo che vedeva come protagonisti due elementi-simbolo della nuova civiltà: la ferrovia e la fabbrica.

71 W. Morris, L'arte sotto la plutocrazia, cit., pag. 170 72

M. Ragon, Storia dell'architettura e dell'Urbanistica moderne Ⅰ, Editori riuniti, Roma, 1974, pag. 18

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La ferrovia nella seconda metà del XIX divenne l’asse portante delle città, penetrando nel cuore degli agglomerati, raggiungendone talvolta il centro storico, favorendo la costruzione intorno ad essa di strutture di diverso tipo, dalle stazioni, alle case cantoniere, ai depositi e magazzini, sino anche moltiplicazione di colline di carbone che serviva per far funzionare le locomotive.

Per quanto riguarda le fabbriche, invece, dapprima esse furono insediate nelle campagne e nelle zone rurali lontane dagli agglomerati urbani, per reperire più facilmente la manodopera e reclutare operai che non godessero delle tutele delle corporazioni, ottenendo così dipendenti senza alcuna difesa, preludio, tuttavia, del futuro proletariato74. Ma con lo sviluppo e il potenziamento del sistema ferroviario, finalizzato ad incrementare i collegamenti, le fabbriche finirono per seguire le ferrovie, insediandosi in un primo momento nelle immediate vicinanze dei centri urbani e successivamente perfino nei centri storici75.

Quando salì al trono la regina Vittoria c'erano soltanto cinque località in Inghilterra e nel Galles, oltre a Londra, con più di centomila abitanti. Verso la fine del secolo ce ne erano circa ventitré. A Londra tra il 1841 e il 1891 la popolazione passò da 1.873.676 (cioè l'11,75% di tutta la popolazione dell'Inghilterra e del Galles) a 4.232.118 abitanti (cioè il 14,52% della popolazione totale)76.

Non è un caso che molti autori vittoriani definiscano il loro periodo «un'epoca di grandi città», cosa che per molti di loro era motivo di orgoglio, giacché l'estensione dei centri urbani era visto come simbolo di sviluppo e di progresso. Per altri intellettuali dell'epoca, invece, un crescente numero di persone nelle città costituiva motivo di preoccupazione e persino di allarme. Questo timore si era già chiaramente manifestato, ancor prima dell'avvento definitivo della nuova società industriale, nel constatare l’aumento della popolazione della città di Londra. Così il giornalista William Cobbet (1763˗1835) esprimeva il seguente pensiero rivolgendosi ai giovani: «Se dopo tutto a una scuola ci si deve pur andare, fate sì che sia il meno popolata possibile […]. Le prigioni, le caserme, le fabbriche non corrompono con le loro mura, ma con l'eccessivo numero di persone che vi si

74M. Ragon, op. cit., pag. 26 75

Ivi, pag. 21

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addensa. Le città popolose corrompono per la stessa ragione.77» Anche Rousseau nel secolo precedente aveva affermato nell'Émile un simile concetto, dichiarando che gli uomini non sono fatti per raggrupparsi «in formicai», ma per spargersi su tutta la terra onde evitare di essere più facilmente corrompibili. Sono, infatti, proprio le grandi città che rappresentano la debolezza di uno stato, sino a farlo implodere perché «la ricchezza che producono è una ricchezza apparente e illusoria, è molto denaro e poco rendimento […]. Non solo il popolo mal distribuito non è un vantaggio per lo stato ma è una rovina superiore allo stesso spopolamento, per il fatto che lo spopolamento dà un prodotto nullo e il consumo mal inteso dà un prodotto negativo»78. Inoltre, Rousseau aveva espresso l'idea che più l'uomo vive a contatto stretto con la natura più si manifestano la sua bontà e purezza ed un maggiore attaccamento ai valori morali, mentre, al contrario, vivendo in una grande e popolosa città, vengono fuori i suoi vizi ed i suoi difetti più grossolani e dannosi. Quest'ultima tesi, apparsa nell'Émile, opera scritta nel 1762, trova riscontro nei risultati ottenuti nell'unico censimento religioso eseguito in Inghilterra durante l’epoca vittoriana, nel 1851, dal quale emerse che i lavoratori delle zone rurali frequentavano in proporzione molto maggiore le comunità religiose rispetto ai lavoratori delle grandi città79. Un semplice esempio, tuttavia significativo di questi risultati, è ciò che emerge da un'inchiesta svolta da Henry Mayhew (1812-1887), giornalista divenuto celebre per i suoi articoli su temi sociali che riguardavano la grande metropoli. Alla domanda «Che cos'è St. Paul's?», posta dal giornalista a un venditore ambulante di Londra scelto a caso, la risposta è stata: «Una chiesa, signore, a quanto ho sentito dire. Io non sono mai stato in chiesa.»80 Risposta che indicava il sintomo del forte cambiamento che

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A. Briggs, Città Vittoriane, cit., pag. 54 78

J. J. Rousseau, Émile o dell' educazione, con un saggio di Michel Tournier, BUR Rizzoli, Milano, 2009, pagg. 594-595

79Secondo l'esperto di statistica, Horace Mann, «Nelle zone rurali si andava in chiesa in proporzione molto più alta che nelle città. I luoghi in cui la presenza nelle chiese era più bassa erano tutte le grosse città segnate nel censimento come centri cotonieri, le più grandi città laniere, Leeds e Bradford, tutte le città minerarie eccetto Wolverhampton, e i due grandi centri metallurgici di Birmingham e di Sheffield. Ovunque, nelle città piccole e grandi, i preti parlavano della difficoltà di ottenere la simpatia delle masse.» Anche a Londra, in particolare nei distretti più popolosi di Lambeth e Tower Hamlets, la frequenza dei luoghi religiosi, era per lo più scarsa. (A. Briggs, Città Vittoriane, cit., pag. 57)

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riguardava la comunità all'interno del contesto della nuova città capitalistica, nella quale il commercio rappresentava l'anima pulsante e ne dominava il lavoro produttivo81.

Verso la metà del secolo la Gran Bretagna aveva il più alto livello annuo di urbanizzazione seguita di poco dal Belgio82. La concentrazione nelle città ebbe conseguenze vistose per quanto riguarda la struttura edilizia. Accadde, infatti, che la convenienza di possedere immobili per poi affittarli spinse alla frenetica costruzione di tuguri multipiano in cui alloggiare il maggior numero possibile di famiglie meno abbienti. Conseguentemente ogni area verde o libera venne cementificata e l'ambiente preesistente sconvolto. Affittare appartamenti, d'altra parte, costituiva un'ulteriore fonte di reddito per le classi agiate, e queste così dette «case di speculazione» venivano, spesso, costruite nei terreni meno favorevoli alla residenza, cioè tra la strada ferrata e la fabbrica.

Nella capitale inglese la distanza tra i diversi ceti sociali si espresse anche da un punto di vista geografico, accentuandosi il divario tra West e East End, area, quest’ultima, costituita da vecchie case, vicoli stretti, bui e mal pavimentati, i cosiddetti “rookeries”. Questo fenomeno non riguardò solo Londra ma anche le altre grandi città.

La tipica città industriale era come se fosse abitata da due comunità i cui membri, nonostante fossero governati dalle stesse leggi e amministrati dalla stessa classe politica, vivevano, secondo l'espressione di Disraeli , in «due nazioni» della stessa piccola isola83. I sobborghi in cui vivevano gli operai con le proprie famiglie erano costituiti da edifici costruiti con materiali mediocri. Inoltre le fondazioni di tali strutture, insufficientemente protette dalla risalita dell'umidità, lasciavano che il salnitro corrodesse i muri. Questi edifici venivano costruiti a ridosso l'uno

81 H.J. Dyos e M. Wolff, The Victorian City: Images and Realities, volume Ⅰ, Routledge & Kegan Paul, Londra e Boston, 1973, pag. 110

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E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia, Editori Laterza, Bari, 2003, pag. 257 83

Questa espressione, prima di Disraeli, che ne fece il sottotitolo del suo romanzo del 1845, Sybil, venne utilizzata dal famoso dottor William Channing di Boston, uno dei più grandi pastori unitari d'America che cercò di capire e di spiegare il significato morale della crescita delle città. «In quasi tutte le grandi città si può dire che ci siano due nazioni che si capiscono tra loro così poco, che hanno tra loro così pochi rapporti come se vivessero in terre diverse. […] Un tugurio in uno dei sobborghi che essi conoscono meno parrebbe a gran parte dei londinesi strano come un villaggio delle foreste africane.» (A. Briggs, Città Vittoriane, cit., pag. 58)

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dell'altro, al fine di ottimizzare l'utilizzo del terreno, comportando che metà delle stanze non avesse alcuna finestra e, dunque, nessuna areazione diretta né illuminazione naturale. Ad ogni famiglia era assegnata una sola stanza e per ogni immobile non vi era che un solo gabinetto ubicato nello scantinato. I rifiuti venivano gettati direttamente dalle finestre e ingurgitati dai maiali che all'epoca vagavano liberamente per le strade della città. In quegli stessi edifici sovraffollati, privi di igiene, circolavano topi portatori di colera, pidocchi propagatori di tifo, cimici e mosche. In alcuni quartieri poveri vi era mancanza di acqua tanto che, spesso, donne e bambini erano costretti a recarsi nei quartieri borghesi per mendicarne un po’. Queste aree povere, che coprivano chilometri quadrati di superficie, evidenziavano il paradosso "del mito del progresso", tanto decantato negli ambienti borghesi, poiché per gli uomini trapiantati in tali tuguri, il mito non si traduceva in uno stile di vita migliore e dignitoso. In queste "tane", anzi, poteva nascere una razza di uomini degenerati. La possibilità che si verificassero malattie era molto alta a causa dell'indigenza e delle cattive condizioni igieniche: la mancanza di sole poteva provocare spesso rachitismo infantile; la cattiva alimentazione causava malformazioni degli organi e della struttura ossea e cattivo malfunzionamento delle ghiandole endocrine; l'inquinamento microbico ed il sovraffollamento favorivano malattie infettive come vaiolo, tifo, scarlattina, difterite e tubercolosi. A queste si aggiungevano le malattie, come bronchiti, polmoniti e altre dovute all'ambiente di lavoro anch'esso malsano84 per la presenza di cloro, ammoniaca, monossido di carbonio, e altre sostanza chimiche nocive che permeavano l'atmosfera. Facendo un raffronto tra campagna e città, tra quartieri borghesi e quartieri poveri, tra zone scarsamente popolate e zone ad alta intensità demografica, l'incidenza di gran lunga maggiore di malattie e di morti si verificava nel secondo gruppo.85

La più nota testimonianza di simili condizioni di vita proviene da Engels, il quale, nel suo saggio del 1845 "La situazione della classe operaia in Inghilterra", denuncia gli orrori del primo capitalismo industriale che si manifestavano nella city.

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L. Mumford, La città nella storia, Edizioni di comunità, Milano, 1963, pag. 581 85 Ibidem

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Gli occhi di Engels passano in rassegna il degrado di alcuni quartieri di Londra come quello nelle immediate vicinanze di Oxford Street, di Trafalgar Square e dello Strand. In quest'area era presente un addensamento di alte case, con strade strette, contorte e sporche, nelle quali regnava un'animazione simile a quelle delle vie principali delle città, solo che ad abitare questo quartiere, St. Giles, erano le persone che appartenevano alla classe operaia. Quando per le strade venivano organizzati i mercati con l'esposizione di ceste piene di ortaggi e di frutta, «naturalmente tutta pessima e quasi non commestibile»86, si restringeva ancora di più il passaggio tra gli edifici, e contemporaneamente si sentiva un puzzo disgustoso simile all'odore che proviene dalle macellerie. Inoltre la rovina delle abitazioni superava ogni immaginazione:

"qui è difficile trovare un vetro intatto, le mura sono sbriciolate, gli stipiti delle porte e le intelaiature delle finestre spezzati e sgangherati, le porte sono formate da vecchie tavole inchiodate insieme o non vi sono affatto, in questo quartiere di ladri non sono necessarie le porte, poiché non vi è nulla da rubare. Dappertutto sono sparsi mucchi di immondizie e di cenere, e l'acqua sporca gettata dinnanzi alla porta si raccoglie in pozzanghere puzzolenti. Qui abitano i più poveri tra i poveri, gli operai peggio pagati, insieme con ladri, furfanti e vittime della prostituzione in un miscuglio eterogeneo."87

E non si tratta solo del quartiere di St. Giles per Engels, il quale viene, non a caso, citato dallo storico Ronald Max Hartwell come il più importante rappresentante di una corrente di pensiero che aveva un «atteggiamento di rispetto sentimentale per il passato e di condanna del presente»88. Engels scrive che prima dell'industrializzazione «i lavoratori vegetavano abbastanza comodamente e

86 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Introduzione di E. J. Hobsbawm, Editori Riuniti, aprile 1972, Roma, pag. 67

87 Ibidem 88

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conducevano una vita dabbene e tranquilla in tutta devozione e rispettabilità; la loro posizione materiale era di gran lunga migliore di quella dei loro successori »89. E non c'erano, sempre per Engels, segni di progresso nemmeno nella vita intellettuale del periodo successivo alla rivoluzione industriale. Tra i lavoratori, infatti, erano pochissimi quelli che sapevano leggere e scrivere, mentre la loro esistenza si esauriva nell'impegno del lavoro90. Di certo, ci si asteneva dallo svolgere attività politica e dall’avere conflitti con le classi più elevate della società: una condizione che porta Engels ad affermare che questi lavoratori erano «intellettualmente morti»91. La rivoluzione industriale non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, portando la classe operaia ad un livello di miseria e di avvilimento mai raggiunto precedentemente, in una città in cui dominava il colore nero. Nere erano infatti le nuvole di fumo che uscivano dalle ciminiere delle fabbriche, e ovunque le locomotive seminavano nell’aria scorie e fuliggine. La rottura dell'equilibrio tra uomo e ambiente trova piena espressione nella metafora di Dickens: «la città che friggeva nell'olio»92. Tale espressione non è il frutto di una visione immaginaria dell'autore, ma la fotografia di un mutamento radicale subito dall'ambiente a seguito dell'industrializzazione.

Il simbolo più rappresentativo delle conseguenze negative dell’industrializzazione è la città immaginaria di Coketown, pensata da Dickens, il cui nome (“città del carbone”) allude significativamente al materiale su cui si fonda tutta la civiltà dell’Ottocento:

"Era una città di macchinari e di alte ciminiere, dalle quali interminabili serpenti di fumo si diffondevano nell'aria all'infinito senza mai arrivare a srotolarsi. C'era un canale nero, e un fumo che scorreva violaceo e maleodorante per le tinture che vi venivano riversate, e vaste officine dalle innumerevoli finestre nelle quali lo sferragliare e il tremolare durava ininterrotto per tutto il giorno, e dove il

89

F. Engels, op.cit., pag. 44

90 I lavori per lo più venivano eseguiti in casa dal lavoratore con l'aiuto della famiglia come ad'esempio nel caso della tessitura e la filatura. (Ivi, pag. 43)

91 Ivi, pag. 45

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pistone del motore a vapore continuava monotono ad andare su e giù, come la testa di un elefante preso da malinconica follia. La città conteneva diverse grandi strade tutte molto simili l'una all'altra, abitate da persone altrettanto simili l'una all'altra, tutte che uscivano di casa e vi rientravano alle stesse ore, producendo gli stessi suoni sui marciapiedi, dirette a fare lo stesso lavoro, e per le quali ogni giorno era uguale a ieri e a domani, e ogni anno l'equivalente di quello passato e di quello a venire."93

Una caratteristica di questa città-modello della rivoluzione industriale è l’uniformità: strade, case, fabbriche, e qualunque altra struttura si presentano in forme identiche le une alle altre. Come scrive Dickens: «La prigione avrebbe potuto essere l’ospedale, l’ospedale avrebbe potuto essere la prigione, il municipio avrebbe potuto essere o l’uno o l’altro oppure tutti e due, o anche qualsiasi altra cosa, perché nulla, nelle linee aggraziate di quegli edifici, serviva a identificarli94». Perfino l'immagine delle persone che entrano ed escono tutte alla stessa ora, facendo lo stesso tragitto, per svolgere lo stesso lavoro, sembra associare al tempo una dimensione di uniformità dal quale appare impossibile uscire. Questa stessa immagine richiama la tendenza a concentrarsi esclusivamente sulle attività economiche e a considerare come spreco di tempo gli sforzi dedicati ad altre attività. Tale tendenza veniva rafforzata in un sistema capitalistico che sostituiva i vecchi principi della cultura rurale con quelli del successo e del profitto, trasformando ogni angolo della città in un prodotto commerciabile. Inoltre la condizione di veri e propri schiavi delle miniere, concepita in origine come punizione per i criminali, diveniva la vita normale dell'operaio industriale. Nessuna delle città inglesi dell'epoca vittoriana tenne conto del vecchio detto «All work and no play makes jake a dull boy95». Coketown evidentemente si specializzò nel rendere sciocchi gli uomini.

93

Ivi, pag. 37 94

Ivi pag. 38

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Lo stesso capitolo, da cui è tratta la precedente citazione di Hard times, si intitola “La tonica”, termine con il quale viene indicata nel linguaggio musicale la nota iniziale di una scala che determina la tonalità dell’intero brano musicale. In questo caso la metafora utilizzata da Dickens vuole riferirsi alla dimensione sonora (il rumore senza sosta dei macchinari) della città industriale. A confermare l'elevata produttività dei macchinari, le scorie raggiungevano proporzioni talmente elevate che si formavano tante piccole montagne di rifiuti, mentre gli esseri umani venivano pressati dagli intensi ritmi pari a quelli dei campi di battaglia.

La capitale inglese non si allontanava da questa città-simbolo descritta da Dickens nel suo romanzo. Il fumo nero delle ciminiere che per dodici, quattordici ore al giorno o addirittura ininterrottamente, avvolgevano la city, il degrado urbano e l'inquinamento del Tamigi colpiscono la sensibilità di Morris, il quale esorta sempre a difendere l’ambiente urbano dallo squallore e dalla tirannia della produzione industriale sfrenata. In particolare, Morris nei suoi saggi sull'architettura scritti nel 1882, protesta energicamente contro la sporcizia e l'inquinamento della capitale e fa sua la lezione di Ruskin, il quale, sulla base di una visione estetica della società, aveva contestato le conseguenze del macchinismo e il capitalismo del tempo, con specifica attenzione ai problemi dell'assetto urbanistico e soprattutto delle abitazioni degli operai.

Ruskin paragona gli alloggi sovraffollati degli operai, dall’aspetto malsano e degradato, alle tende degli zingari, nella convinzione peraltro che, mentre queste ultime si aprono all'aria pulita e fresca del cielo, quelle operaie si affacciano in un ambiente sgradevole, con l’impossibilità di chi vi abita di vedere lo stesso colore del cielo. Ciò per Ruskin «non è un male benigno e senza conseguenza, ma un male cattivo, contagioso e da cui deriveranno altri malanni.»96 Lo stesso Morris, pur senza disporre di strumenti tecnici capaci di stabilire il grado d'inquinamento dell'ambiente, esprime nei suoi articoli una visione altrettanto drammatica. La città di Londra e le altre città commerciali appaiono ai suoi occhi come «ammassi di sordidezza, sudiciume e squallore, cosparse di pompose sistemazioni di volgare mostruosità, non meno rivoltanti per l'occhio che per la mente di chi ne avverta il

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valore»97. Egli insiste col dire che dovrebbe essere compito dell'uomo mantenere le strade decorose e ordinate, l'aria pura e i fiumi puliti e lasciare sopravvivere i parchi che spezzino l'orrenda monotonia dei muri di calce e mattoni.

Morris, attaccando energicamente la hurry of modern civilization, esprime lo spirito romantico che lo contraddistingue. La sua aspirazione del ritorno ad un passato remoto in cui esistevano antichi villaggi con piccole chiese, poderi e case padronali immerse nella campagna, associa alla natura il ruolo di una forza armonizzante del tutto.

Lo stupore che colpiva Morris di fronte alla natura selvaggia e grandiosa, da lui ammirata durante il viaggio in Islanda , era simile a quello avvertito dagli artisti

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