CAPITOLO IV: ASPETTI SOCIOLOGICI, CRITICHE E
4.5. Il mancato adeguamento dell’art.143 all’evoluzione delle
Abbiamo dedicato una consistente parte del presente elaborato a percorrere le diverse tappe dell’istituto dello scioglimento comunale ed abbiamo analizzato le varie trasformazioni che sono state effettuate sul tema dagli anni ’90 sino ai recenti interventi. Certamente è stata posta estrema attenzione a rendere maggiormente punitivo il connubio tra amministrazioni comunali ed associazioni mafiose, introducendo la possibilità di prorogare la durata dello scioglimento, istituendo il comitato di sostegno e di monitoraggio dell’azione delle commissioni straordinarie e creando un canale preferenziale per gli enti soggetti allo scioglimento che volessero accedere a finanziamenti statali per la realizzazione di opere pubbliche. Tuttavia, ciò di cui il legislatore non ha tenuto conto è stata la capacità delle organizzazioni mafiose di cambiare nel tempo e di evolversi, al punto tale che il modus operandi non è più quello utilizzato quando vi erano in continuazione guerre per strada tra clan rivali – e ancora una volta siamo costretti a prendere ad esempio il caso di Taurianova – bensì oramai tendono ad agire in maniera estremamente sofisticata. Infatti un tema delicato che deve portare le Istituzioni e la cittadinanza a riflettere è quello della repentina metamorfosi delle mafie per opporsi all’azione di contrasto dello Stato e per influenzare in maniera originale il territorio137. Non è trascorso molto tempo da quando negli anni ’80 ed agli inizi degli anni ’90 le associazioni criminali agivano con metodi principalmente violenti, infatti si vedeva la mafia come un fenomeno “d’emergenza”. Dalla seconda metà degli anni ’90, invece, si è passati ad una mafia sommersa che intendeva dimostrare la propria forza con una raffica di omicidi che riguardava soprattutto uomini dello Stato tra cui carabinieri, magistrati e politici, in maniera tale da considerarsi come una sorta di stato nello Stato. Quando a perdere la vita sono state figure, come Falcone e Borsellino, vi fu un clamore mediatico ma soprattutto sociale che portò ad una netta risposta dello Stato che ha fatto pensare – e sperare – che la mafia fosse un fenomeno controllabile perché aveva smesso di far
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esplodere bombe e quant’altro. In realtà è proprio il silenzio che influisce sull’attività del legislatore e che non fa rendere l’idea del problema sociale che le associazioni di stampo mafioso rappresentano. A questo punto è utile ricordare due momenti delicati per la storia del nostro Paese e della legislazione antimafia: la legge antimafia del 1982 è stata emanata poco dopo l’assassinio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ed altre leggi in materia sono state adottate dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Una volta terminata la stagione sanguinosa delle mafie, la questione “mafie” ha smesso di avere le attenzioni dello Stato. Con queste parole non si intende diminuire, anzi, si vuole elogiare il lavoro di ricerca svolto da magistrati, sociologi, studiosi e giornalisti che hanno cercato di captare gli schemi mafiosi – tra tutti l’omertà e l’assoggettamento degli affiliati – grazie ai quali è stato introdotto l’articolo 416bis del codice penale, e tra questi merita una citazione Pino Arlacchi, ideatore della teoria sulla “mafia imprenditrice”, che ne ha spiegato l’evoluzione da organizzazione di potere ad organizzazione dedita alla ricerca della ricchezza138. Dal punto di vista sociologico, è fondamentale osservare il rapporto tra le mafie e la collettività meridionale e quello tra le mafie ed il sistema capitalistico. Si dà per certo che debba essere esclusa una generica discriminazione139: infatti, anziché sostenere che il Meridione sia un sistema sociale mafioso, sarebbe più opportuno riportare la dicitura utilizzata dal dr. Antonio Antonuccio140, ossia “società mafiogena”, laddove per essa si intende una comunità connotata da “fragilità del tessuto sociale, cultura della sfiducia, accettazione dell’illegalità e della violenza, esiguità dell’economia legale, estraneità e complicità delle istituzioni che facilitano il perpetuarsi del fenomeno mafioso”. Abbiamo appurato che le organizzazioni mafiose si manifestano tramite l’esercizio di un controllo capillare e dittatoriale sulle attività
138 Lo stesso Arlacchi successivamente spiegò come tale competizione mafiosa ha contribuito pesantemente a determinare nel Mezzogiorno il blocco delle sue capacità di sviluppo economico e sociale, nonché l’inquinamento dalla radice del suo sistema politico, agendo di riflesso sull’economia generale del Paese e sul degrado della sua classe dirigente. 139 Santino Umberto, fondatore del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe “Impastato”.
140Responsabile di Sede Ufficio Esecuzione Penale Esterna - Amm.ne Penitenziaria - Ministero della Giustizia - Vibo Valentia, Docente a Contratto Facoltà di Scienze Politiche - Università degli Studi di Messina.
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locali e tramite il condizionamento delle istituzioni. Senza alcun dubbio la presenza delle mafie sui territori sfavorisce gli investimenti, limita lo sviluppo e condiziona negativamente il reddito delle famiglie; ciò non implica, però, che la mafia generi in maniera meccanica una situazione di sottosviluppo. Non sono pochi, infatti, i casi di imprese d’eccellenza presenti nei territori dove le organizzazioni criminali esistono da più tempo. Anzi, come dimostrato dalle attività investigative, è divenuto complicato discernere tra economia lecita ed economia illecita che spesso coesistono. Purtroppo, infatti, le organizzazioni criminali hanno assunto una dimensione capitalistica che le allontana dalla strada, e, quindi, dalla visibilità, e le avvicina al mondo del business grazie ad un percorso formato da quattro momenti:
1. Accumulo di risorse economiche derivanti da attività illegali;
2. Reimpiego di tali risorse in ulteriori attività illecite; 3. Riciclaggio di tale capitale;
4. Investimento di quanto riciclato in settori legali legati all’economia reale ed alla finanza.
Da questo schema consegue che le mafie creino aziende direttamente loro riconducibili, quindi gestendole in prima persona, oppure affidandosi a dei prestanome che sono titolari di imprese partecipate da membri delle organizzazioni malavitose al fine di nascondere agli occhi dello Stato gli investimenti effettuati. Questo processo rende complicata l’attività degli inquirenti che devono ricostruire la provenienza dei capitali investiti, devono dimostrare che hanno origine illecita e devono sequestrare, prima di confiscarli, i beni riconducibili a componenti di associazioni criminali. Ciò trova riscontro comunque in tutto ciò che abbiamo descritto fino a questo momento, ovverosia un efficace controllo del territorio da parte delle associazioni di stampo mafioso. Inoltre questo schema permette agli imprenditori ed ai mafiosi di instaurare una pacifica convivenza per motivi opportunistici dal momento che entrambi intendono agire per ovviare al conflitto – nemico principale degli
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affari – che li porterebbe entrambi a vedere sfumati i rispettivi piani.
In ogni caso, a trarne vantaggio è sempre l’associazione di stampo mafioso. Come spiegato ancora una volta dal professore Antonuccio, infatti, “i gruppi criminali si consolidano nelle regioni autoctone e si ramificano successivamente in tutte le regioni d’Italia. I rapporti delle Forze dell’Ordine ormai segnalano che le famiglie mafiose prosperano con le loro attività nelle realtà di regioni come: Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino Alto-Adige, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Lazio. Pare che quelle che sono state definite le loro “filiali di rappresentanza” si sono ormai trasformate in operose e ricche aziende, tanto floride da superare, in qualche caso, il volume d’affari della “casa madre”. In uno scenario come questo, è facile pensare e guardare agli affari delle holding della criminalità su ritmi annuali di centinaia di milioni di euro, senza trascurare che tale patrimonio è “protetto” con una gestione oculata in Paesi e mercati cosiddetti “offshore”. Allo stato, è facile intuire come la Sicilia vada forzatamente incontro ad una situazione di grave svantaggio socio-economico: impoverimento diffuso e, conseguentemente, mancata possibilità occupazionale. Ciò è spiegato dal fatto che i sodalizi criminali, oltre alla tendenza ad esportare i “tesori” accumulati, agiscono con il loro “prelievo fiscale” operato sugli imprenditori locali attraverso quello che volgarmente chiamiamo la “mazzetta” o, per dir si voglia, “pizzo””, ossia tasse pretese dalle mafie.
Il danno è sotto gli occhi di tutti, a partire dall’economia sociale, che è sempre più martoriata, ai redditi che tendono a non aumentare o, peggio ancora, a diminuire: la diretta conseguenza è l’arretramento dei territori locali, quasi sempre meridionali, e l’aumento del divario tra nord e sud. Le suddette considerazioni ci portano a sostenere convintamente che i sistemi criminali riflettono sulla quotidianità della cittadinanza e che i modi d’agire delle associazioni mafiose sono sempre più complicati da rintracciare. Pertanto la facilità delle organizzazioni malavitose nel cambiare la propria natura dovrebbe allarmare lo Stato e cercare di mettere in atto delle misure
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in grado di identificare le presenze criminali sui territori, le quali – non essendo sempre facilmente riconoscibili –
hanno minore difficoltà ad entrare nei rami
dell’amministrazione comunale (esemplificativo è il caso analizzato di Roma Capitale). Non si tratta di una sconfitta delle Istituzioni, semmai dovrebbe trattarsi di acquisire la consapevolezza delle odierne strutture mafiose rispetto alle quali la disciplina dello scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose non si è ancora adeguata a causa di una visione errata delle mafie riassumibile con le parole di Umberto Santino: “la mafia esiste quando spara, è un fenomeno preoccupante quando uccide molte persone, diventa una questione nazionale quando colpisce i vertici istituzionali”.
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