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Il nesso donne, ambiente e sviluppo: ecofemminismo

PARTE II Gender And Development: concetti e misure oltre la dimensione

5. Evoluzione del discorso negli anni Ottanta

5.1 Il nesso donne, ambiente e sviluppo: ecofemminismo

La connessione tra il mondo delle donne, la casa, e l’ambiente naturale era stata al centro dell’attività e del pensiero di una donna americana: Ellen Swallow (1842-1911). Chimica, esperta di mineralogia e di nutrizione, la prima donna ad essere ammessa al Massachusetts Institute of Technology, per prima, nel 1892, usò il termine “ecologia” in senso moderno. Con esso intendeva “lo studio di ciò che circonda gli esseri umani nelle conseguenze che produce sulla loro vita”. La purezza dell’acqua, dell’aria, la qualità del cibo erano per Swallow i fondamenti della “ecologia” o “economia della casa”. Il suo lavoro pionieristico, tuttavia, fu svalutato come una sorta di “economia domestica” e presto dimenticato.

Nel 1962, l’opera Silent Spring, di Rachael Carson, denunciava le conseguenze sulla vita umana e animale degli insetticidi e di altri “elisir di morte”. La biologa americana ricordava la maggior vulnerabilità delle donne e dei bambini all’inquinamento (Carson 1962, p. 204) e muoveva alla scienza una critica radicale che anticipava quella dell’ecofemminismo contemporaneo: la volontà di dominio sulla natura, concepita come pura risorsa, stava distruggendo la vita sul pianeta.

Inascoltata e derisa dagli ambienti governativi e industriali, l’opera di Carson ebbe invece influenza sui movimenti che, un decennio più tardi, videro la luce negli Stati Uniti. In quei movimenti – femministi, pacifisti, antinucleari, animalisti, ambientalisti – infatti, si andò progressivamente

affermando la consapevolezza che l’ideologia che giustifica l’oppressione in base alla razza, alla classe, al genere, alla sessualità, alla specie, è la stessa che sancisce il dominio sulla natura.

Il termine ecofemminismo compare per la prima volta nel 1974 in uno scritto di Françoise d’Eaubonne, intitolato “Le féminisme ou la mort”. In esso la femminista francese si soffermava sui costi ambientali dello “sviluppo” e individuava nelle donne i soggetti del mutamento. Nel 1978 fondò il movimento Écologie et Féminisme che ebbe scarsa risonanza in Francia, ma che susciterà un grande interesse in Australia e negli Stati Uniti.

Sempre nel 1974 appare un breve scritto dell’antropologa statunitense Sherry Ortner che diverrà un punto di riferimento fondamentale del pensiero ecofeminista. In “Is Female to Male as Nature Is to Culture?”, Ortner, prendendo le mosse dall’universalità della subordinazione femminile in tutte le culture, invitava a indagare in profondità le origini della violenza e, per tracciarne la storia, proponeva di risalire alle differenze inscritte nel corpo. L’uomo, che manca di funzioni creative naturali, deve (o ha l’opportunità di) affermare la propria creatività artificialmente, attraverso la tecnica. “Così facendo, crea oggetti relativamente durevoli, eterni, trascendenti, a differenza delle donne che creano semplicemente esseri umani, effimere creature mortali” (Ortner 1974, p. 75). Questo spiegherebbe, secondo l’autrice, perché le attività volte a sopprimere la vita (le armi sono stati i primi artefatti) hanno sempre goduto di grande prestigio, mentre quelle femminili volte a creare e a conservare la vita sono state svalutate.

Negli anni Settanta i movimenti femminili che si svilupparono in tutto il mondo in modo spontaneo rivelarono la connessione tra la salute e la vita delle donne e la distruzione della natura. La consapevolezza della vulnerabilità femminile di fronte al degrado ambientale e la volontà di avere voce nei processi decisionali accomunavano quelle lotte sorte spontaneamente. Nel 1973 prendeva avvio il movimento Chipko in difesa delle foreste dell’Himalaya e dell’economia di sussistenza portata avanti

dalle donne in armonia con la natura. Nel 1977 Wangari Maathai dava inizio al progetto di riforestazione in Kenya i cui obiettivi principali erano la promozione di una immagine positiva delle donne e della loro autonomia (Weber 1988; Michaelson 1994; Shiva 2002; Maathai 2006; Maathai 2010). Tra il 1980 e il 1981 due eventi di grande rilievo resero visibile il movimento a livello internazionale: nel 1980 a Washington duemila donne circondarono il Pentagono per protestare contro il nucleare e nel 1981 si svolse la protesta alla base missilistica di Greenhan Common in Inghilterra. Il possibile annientamento del pianeta a causa di una tecnologia distruttiva fu tra le prime preoccupazioni di quelle proteste.

Il tema del rapporto tra scienza, donne,e natura fu tra i primi a destare l’attenzione del pensiero ecofemminista. L’ecofemminismo metteva in evidenza lo sfruttamento degradante del patriarcato sulle donne e sulla natura, includendo nella critica anche il paradigma di progresso del "socialismo reale" e dei partiti comunisti caratterizzati da scarsa considerazione per il rispetto dell’ambiente. La corrente essenzialista dell'ecofemminismo presuppone l’esistenza di un'essenza femminile che pone le donne più vicino alla natura degli uomini, tale che “women appear to be a kind of hope for humanity and the conservation of nature on the basis of the supposition that because of their very essence, women are more likely to protect living beings and have an ethic of care, which originates from the maternal instinct” (Aguinaga et al, 2013).

Secondo un'altra tendenza dell'ecofemminismo, che trova espressione in Vandana Shiva, Maria Mies e Bina Agarwal, l'origine della maggiore compatibilità delle donne con la natura è radicata nella costruzione sociale e storica del genere, che è specifica per ciascuna cultura. Questa corrente considera lo "sviluppo" come una strategia di colonizzazione occidentale: “recent trends are geared towards an environmental apartheid in which, through the global policy established by the ‘Holy Trinity’, Western multinational companies, backed by the governments of economically powerful countries, try to conserve the economic power of the North and the wasteful life of the rich. In order to do so, they export the environmental costs to the Third World. (Shiva 2001, 1). Il corpo

femminile è centrale nel pensiero dell'ecofemminista tedesca Maria Mies che considera i corpi come una terza colonia, dopo gli Stati colonizzati e alla natura sottomessa. Da questa radice, Mies si concentra sulla ricerca di forme complesse di decolonizzazione e smantellamento delle relazioni patriarcali. Il corpo non può essere separato da una critica parallela alla divisione del lavoro sessuale che (ri) produce potere e ricchezza in base alle posizioni di genere, razza e classe. Mies ha messo in discussione le scienze sociali che “conceal the preconditions that make wage labour possible, but do not figure explicitly in the capitalist model of accumulation: caring, women’s reproduction, the work of small farmers that guarantee subsistence or that local basic needs are met (often left to women with men absent as migrant workers)” (Aguinaga et al, 2013).

Secondo l'ecofemminista brasiliana Ivone Gebara, lo sviluppo sarebbe un discorso egemonico del pensiero modernista. Per Gebara, le donne e la natura soffrono la stessa oppressione: le donne oppresse, subordinate ai rapporti coniugali e alla famiglia; la natura, dominata dallo spirito scientifico maschile. L'ecofemminismo rintraccia un comune destino per gli oppressi e la Terra: “Every appeal to social justice implies eco-justice” (Aguinaga et al, 2013). Il contributo fondamentale di Shiva e dei suoi contemporanei risiede nella critica radicale alle ipotesi epistemologiche del modello di sviluppo dominante; ha messo in discussione il modello di sviluppo occidentale, presentato come l'unico modello possibile e, grazie al suo lavoro, è possibile ripensare la povertà in termini di valori e percezioni: ciò che è reale povertà materiale e ciò che è culturalmente percepito come povertà.

Il lavoro di Shiva ha anche influenzato i movimenti ambientali del Nord e ha trovato ampio spazio nelle Conferenze internazionali sullo sviluppo dell'Onu. Il culmine delle richieste delle donne per l'uguaglianza alla Conferenza mondiale sui diritti umani del 1993 quando il documento finale adottò le dichiarazioni secondo cui i diritti umani delle donne sono una parte inalienabile, integrale e indivisibile dei diritti umani universali. Tinker (Tinker, 2004) sottolinea che questa dichiarazione “was a frontal attack on patriarchy because it implies that existing laws which privilege

men and maintain the subordination of women must be eradicated” (Ibidem, 2004).