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NON QUOTATE

4.4 Il patto di non alienazione

Il patto di non alienazione delle azioni, se contenuto entro i limiti temporali indicati dall’art. 1379 c.c. e corrisponde ad un apprezzabile interesse di uno dei contraenti, può essere considerato valido, ma è necessario determinare i convenienti limiti di tempo che, secondo la norma richiamata, ne costituiscono una qualità essenziale e specificare la natura dell’interesse al quale il divieto deve rispondere.

Il divieto di alienazione priva il destinatario del potere di disposizione sulla cosa che ne è oggetto ed, in quanto limitativo della capacità di agire del soggetto e della commerciabilità della cosa, non può che avere una breve durata, la quale rende le limitazioni comparabili con la natura giuridica del potere di disposizione e con quella della cosa cui si riferisce. Con riferimento alla speciale natura del patto parasociale ed al suo oggetto, si può rinvenire una linea giuda nell’ art. 2355 bis, il cui primo comma, nel consentire che lo statuto della società azionaria possa vietare il trasferimento delle azioni nominative, fissa inderogabilmente il termine non superiore a cinque anni, con decorrenza dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto.

Questa norma non subordina la validità della clausola se non alla durata temporale della sua applicazione, la quale, nella stima fattane dal legislatore, è apparsa compatibile con il

regime naturale della libera circolazione delle azioni

nominative. Così, in un patto parasociale, che dovesse vietare il trasferimento delle azioni nominative, la durata temporale non potrebbe superare il quinquennio, proprio perché una

eventuale eccedenza contrasterebbe con quella scelta che il legislatore ha fatto, comparando gli interessi della società e dei soci, e che non può non vincolare i contraenti di un patto parasociale, avente la stessa causa della clausola statutaria in esame.

Quanto all’interesse, al quale il divieto deve rispondere, dato che l’art. 1379 non lo specifica, non dovrà necessariamente essere di natura economica; lo stesso potrà avere natura morale, come per esempio quello con cui il socio, che abbia alienato a titolo di liberalità una parte delle azioni, intenda vincolare il potere di disposizione dell’acquirente, al quale sia legato da rapporto parentale, allo scopo di metterlo nella condizione di meglio apprezzare l’importanza e il prestigio della società e quindi di stimolarlo a rendere permanente la sua partecipazione alla compagine societaria. Altro esempio potrebbe essere costituito dal frazionamento di una posizione azionaria di maggioranza con lo scopo di attenuarne l’apparenza tirannica.

La pattuizione di una durata temporale superiore

contrasterebbe sia con l’art. 1379 c.c. sia con l’art. 2341 bis, comma 1, lett. c) c.c., il quale, con riferimento ai patti parasociali indicati espressamente, fra i quali quello qui in esame, dispone l’inefficacia della durata eccedente il quinquennio e la sua riduzione entro il detto limite. Questa durata massima, individua i “convenienti limiti di tempo” indicati dall’art. 1379 c.c. ma, in relazione al patto in argomento, deve escludersene la prevista rinnovabilità, e quindi la proroga del termine consentita dall’art. 2341 bis c.c., in considerazione del fatto che nel patto il divieto di alienazione riguarda azioni

nominative, la cui legge di circolazione non consente limitazioni che ne alterino la natura giuridica.

L’art. 2341 bis non pone, come condizione di validità del divieto, la sua corrispondenza ad un interesse del contraente che lo pone; tuttavia, non sembra che a questo silenzio possa attribuirsi efficacia parzialmente abrogante dell’art. 1379 c.c., la cui natura di norma generale nella disciplina dei negozi giuridici ne determina una funzione integrativa delle norme speciali, se non esclusa da una espressa volontà del legislatore.

Il patto potrebbe applicarsi anche alla società a responsabilità limitata, se lo statuto non avesse vietato la libera trasferibilità delle quote, e potrebbe anche avere durata illimitata in conformità alla intrasferibilità che l’art. 2469, comma 1, c.c. prevede come lecita clausola statutaria. Se lo statuto può vietare ai soci di trasferire le loro quote, lo stesso potere deve essere riconosciuto ai soci in sede parasociale. La legge deroga espressamente alla regola contenuta nell’art. 1379 c.c. quando consente agli statuti di società a responsabilità limitata di vietare il trasferimento delle quote di capitale e questa deroga non può non valere anche nel caso in cui i soci, anziché accordarsi in sede societaria, negozino fra di loro l’intrasferibilità delle loro quote.

Il patto può comprendere anche il divieto di trasferimento a causa di morte, che non contrasterebbe con il secondo comma del citato art. 2469, sebbene questa norma, nel consentirlo, lo bilanci con il diritto di recesso dei soci, il cui esercizio può essere sottoposto ad un termine non superiore a due anni, decorrenti dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione. Non vi è contrasto, perché il patto parasociale nasce dall’accordo dei contraenti fuori dalla

elaborazione dello statuto, le cui regole imposte dalla società all’osservanza di tutti i soci potrebbero anche essere il risultato della volontà non unanime dei medesimi soci, specialmente se approvate dall’assemblea dopo la costituzione della società. Sarebbe difficile ritenere che questo patti si ponga in violazione dell’art. 458 c.c., il quale vieta i patti successori, in quanto non impedisce al socio di disporre del valore relativo alla quota, ma solo di trasferire il rapporto societario sotteso alla quota. Tuttavia, potrebbe ipotizzarsi che un patto parasociale del tipo in esame avrebbe efficacia solo se prevedesse l’obbligo degli eredi del socio, contraente del patto, ad alienare la quota agli altri contraenti del patto, nel quale essi succedono. In mancanza di un simile obbligo, gli eredi succedono nel rapporto societario, dal quale non potranno recedere in difetto di una causa legale o statutaria che lo consenta.