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1. Il percorso scientifico inerente alle polifonie

1.1 I primi decenni del Novecento

Già nelle intenzioni di Guido Adler, colui che si ritiene fra i fondatori della musicologia intesa come disciplina scientifica, in una riflessione del 1908, le forme di polifonia attestate ma non appartenenti alla grande storia della musica di matrice europea venivano considerate quali manifestazioni eterofoniche.

Vale la pena soffermarsi sul significato di eterofonia, se non altro in merito alla distanza concettuale rispetto a polifonia. Circa il significato di quest’ultimo termine si è già precedentemente riportato una definizione; eterofonia identifica, invece, ancora secondo la proposta critica di Guido Adler, un assetto comunque non monodico, le cui stratificazioni e deviazioni rispetto all’unisono siano tuttavia considerate non sistematiche, poco stabili nel tempo, e generalmente non connesse ai rapporti strutturali e armonici che la tradizione classica europea assegna alle diverse linee melodiche componenti l’apparato polifonico. In altri termini eterofonia come procedura in cui le pur diverse linee melodiche siano fra loro pressochè indipendenti benchè sincroniche e non interdipendenti come le matrici polifoniche afferenti alla tradizione classica prescrivono per l’assetto polifonico.

La riflessione di Adler suggeriva la considerazione di pratiche non ad unisono, appartenenti ad altre tradizioni, come esiti di procedure poco determinate e sovente esito dello scarto dall’unisono da parte di cantori improvvisati o dalla scarsa concentrazione. Il riferimento Adleriano non porta con sé alcun intento oppositivo nei confronti di una tradizione scientifica musicologica bensì è solamente inteso quale riflessione circa il generale contesto in cui, nei primi del novecento, sincronicamente alla formazione della disciplina musicologia, gli studi concernenti la polifonia prendevano vigore, attestandosi prevalentemente in termini di notazione scritta e di datazione a partire dai secoli centrali del Medioevo europeo.

In merito a questa coincidenza fra le prime occasionali abitudini notative e la (presunta) nascita della polifonia s’è già fatto cenno, ora si può intervenire con più completezza notando come questa confusione informi (ancora) la storia della musica, anche trattata in

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testi o compendi in uso presso i conservatori di musica, esito di una operazione di taratura sulle fonti simboliche scritte, le quali, in ambito musicale, presero vita fra i secoli IX-X-XI. Ne è derivata la convinzione che prassi e modalità di trasmissione visuale (notazione scritta) della prassi abbiano avuto comune origine temporale.

Circa questa problematica sovrapposizione fra invenzione di un sistema di segni e ideazione di una procedura espressiva ci informa Andrè Schaeffner:

La nascita della polifonia (…) aveva costituito un avvenimento unico, che, non localizzato con precisione, aveva avuto luogo verso il IX secolo d.C. in qualche parte ad occidente della nostra piccola Europa, fra la Francia e l’Inghilterra, o fra Scozia e Scandinavia. Tale polifonia aveva preso corpo fra gli usi del acanto liturgico; vi era pervenuta abbastanza tardivamente per beneficiare quasi immediatamente dei progressi compiuti dalla notazione musicale. Dei dubbi venivano espressi nei riguardi dell’esistenza di una polifonia durante l’antichità greco-romana; tutt’al più il cauto termine di eterofonia concedeva alle musiche altre alcuni rudimenti di polifonia. Ma era chiaro che i paesi che praticavano il canto gregoriano erano i soli ad averli superati. Non abbiamo con ciò voluto formulare un quadro caricaturale ma è vero che ancora una volta scadiamo in una forma di provincialismo europeo confessionale (Schaeffner 1979, cit. in Agamennone 1998, p. 5).

Posto il critico e dibattuto versante della cronologia di sviluppo delle pratiche polifoniche, lo studioso francese sollecita un ulteriore elemento di discussione, particolarmente fertile anche per altri studiosi: le origini geografiche del fenomeno polifonico.

Infatti con tale questione si confrontarono almeno altri due studiosi che operarono nei decenni precedenti il secondo conflitto mondiale: il bulgaro Vasil Stoin ed il georgiano Viktor Michajlovic Beliaev. Ambedue, pur se da prospettive e matrici culturali difformi, misero in discussione le rigidità precedentemente configurate circa il paradigma di sviluppo del fenomeno polifonico, rilevando ed analizzando analoghi costrutti polivocali viventi nelle rispettive aree e giungendo a tesi talora ardite, in relazione alla comune credenza circa un’origine europea della polifonia.

Stoin, analizzando le polifonie a due parti così diffuse in diverse regioni bulgare all’inizio degli anni venti, avanzò l’ipotesi che la diafonia (assetto espressivo peraltro piuttosto simile alla forma attestata dalle prime notazioni apparse in area europea in periodo medievale) avesse visto la nascita proprio in Bulgaria.

Per certi versi ancora più estrema dovette apparire la tesi che Beliaev propose (Beliaev, 1933) circa i fenomeni rilevati in area georgiana: sincronicamente al lavoro condotto da Stoin in area bulgara, Beliaev indagava la polifonia russa e georgiana pervenendo alla convinzione che l’Europa medievale, lungi dall’essere culla del fenomeno polifonico, avesse in realtà solamente mutuato il codice espressivo, dotato di procedimenti e modalità performative già definite altrove, piuttosto che inventato ex novo.

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Beliaev sostenne che, con l’ausilio di ulteriori indagini sulle procedure polifoniche georgiane si sarebbe potuto dimostrare la presenza di procedimenti e operatori simili a quelli presenti e fondanti la polifonia medievale europea quali, ad esempio, organum, discanto, falsi bordoni, moto contrario.

Entrambe le posizioni, come è evidente, scardinarono una trazione che assegnava all’Europa l’incipit che originò il codice polifonico; in questa faglia scientifica si innestò, con il suo contributo di mediazione, il medievalista americano Gustave Reese il quale, pur aprendo alla prospettiva di una possibile convergenza di tradizioni culturali fra aree diverse si dimostrò piuttosto scettico in merito alla tesi di una totale adozione da parte europea del fenomeno polifonico così come poteva pervenire da aree periferiche, sostenendo piuttosto la possibilità mutua, vicendevole, di una spontanea nascita e sviluppo in aree diverse di un simile processo polivocale

Molti studiosi della musica comparata saranno certo d’accordo, almeno in parte con la conclusione del Beliaev. Ma mentre uno studio degli sviluppi musicali fuori d’Europa dà fede alla teoria secondo la quale ‘la cosiddetta polifonia europea prese sviluppo dalla polifonia popolare tradizionale’, non ne segue che l’ Europa abbia “adottato” la polifonia ‘dal di fuori, in forma già stabilita altrove’. La musica può aver preso sviluppo spontaneamente fra gli stessi europei, così come fra altri popoli (Reese 1980, p. 309)

Un’ ulteriore riflessione -dotata di un orizzonte diatopico piuttosto esteso, sotto la spinta di un comune orientamento comparativistico ed evoluzionistico, caratteristica degli studiosi afferenti la cosiddetta Scuola di Berlino- giunse dalle indagini avviate negli anni trenta (poi, peraltro, proseguite fino agli anni sessanta) da Marius Schneider (Schneider, 1969). Il suo contributo modificò l’asse dell’interesse preponderante rivolto verso l’origine geografica della polifonia sostenendo, piuttosto, la propensione ad indagare le motivazioni simboliche alla base dell’atto performativo nonché le possibili fasi di costituzione dello stesso.

Infatti, indagando le pratiche vocali dei cosiddetti popoli di natura egli si convinse che ripetizione e variazione di frasi primariamente monodiche, eseguite da gruppi di cantori, avrebbero nel tempo condotto tali variazioni a consolidarsi nella loro verticalità in parti distinte e gerarchicamente organizzate, in un contesto di pressochè totale indifferenza rispetto ad ipotetiche combinazioni polifoniche attivate, invece, da apparati strumentali. Il doppio binario in cui muove la tesi di Schneider, perciò, in un’ipotesi coerente con l’impianto evoluzionista originario, pone in primo piano due tendenze: da un lato la progressiva (diacronicamente) stabilizzazione di microvariazioni all’interno dell’impianto

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unisono del canto di gruppo e, dall’altro, la marcata indipendenza di questo esito dalle vicissitudini strumentali.

Queste esperienze di ricerca, condotte in un periodo antecedente il secondo conflitto mondiale, si rivelano portatrici di tratti comuni che si cercherà in seguito di sintetizzare, nonostante le concezioni talvolta assai distanti da cui hanno preso vita.

Tuttavia lo sguardo storico porta a considerarle come necessario processo propedeutico alla più vigorosa ed organica produzione teorica successiva. Appare tuttavia fin d’ora piuttosto evidente lo statuto di riferimento comparativo permanente (come raccordo o come opposizione) che i diversi studiosi attribuiscono alla polifonia europea di matrice medievale, nella interpretazione delle intonazioni polifoniche rinvenute in terreni esterni: la polifonia europea conservata in notazione, perciò, è considerata come termine di confronto utile per orientare la trattazione, sia per quanto concerne i processi interni all’agìre polifonico locale, sia, per ciò che attiene a una possibile valutazione storico- culturale in termini più strettamente evolutivi, nella individuazione di percorsi di filiazione e discendenza diacronica.

Gli studi segnalati si configurano quali esiti piuttosto sporadici, connessi alle esperienze talora antesignane e pionieristiche di singoli ricercatori piuttosto che di organici e sistematici ambienti di studio (come si vedrà accadere nei successivi periodi). Inoltre, le indagini prodotte propongono una descrizione assai debole in merito alle effettive occorrenze e ai movimenti strutturali che le voci considerate svolgono nell’impianto esecutivo, rintracciando viceversa alcuni elementi relativi piuttosto alle modalità esecutive da cui desumere o ipotizzare matrici o origini comuni.