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Il percorso verso l’integrazione scolastica

L’INTEGRAZIONE SCOLASTICA E L’ALLEANZA SCUOLA FAMIGLIA

4.1 Il percorso verso l’integrazione scolastica

La complessità del lavoro che si articola intorno alla persona disabile richiede una presa in cura che coinvolge la famiglia, la scuola e i servizi territoriali, pertanto il lavoro di equipe e la collaborazione tra le agenzie educative che accompagnano il soggetto in formazione hanno un notevole peso sulla riuscita del raggiungimento del potenziale e della messa in atto di un progetto di vita autentico del bambino disabile. In questo capitolo l’indagine è volta ad analizzare i vissuti genitoriali al momento in cui i figli speciali iniziano il loro percorso scolastico e ad esaminare le dinamiche relazionali tra genitori ed insegnanti.

4.1.1 La disabilità nella storia

Lo sguardo che la società ha rivolto alla persona disabile, come ricorda Trisciuzzi, risponde a quattro modalità che nel tempo si sono susseguite, sviluppando, grazie ad una ricerca scientifica, una sensibilità e una presa in cura del soggetto disabile. Il primo periodo corrisponde all’antichità, dove «il bisogno di sopravvivenza alimentare e il pregiudizio, visto come immaginario collettivo»291, predominano per cui le persone più deboli non vengono prese in considerazione, tanto meno l’indagine sulle loro potenzialità, si scelgono, infatti, forme più radicali ed estreme per risolvere il problema della disabilità, come, ad esempio, l’infanticidio.

Il secondo periodo si connota di un volto più umano: è il periodo della pietà cristiana che non tollera, almeno come tendenza di principio, l’infanticidio, per cui propone altre soluzioni come quella assistenziale. Nascono così degli istituti preposti per accudire i più deboli, le cui funzioni rispondono prevalentemente all’assistenza e alla chiusura: non vi è l’intento di recupero o di integrazione, la presa in cura risponde più all’aspetto del togliere e nascondere la situazione degli svantaggiati dallo sguardo dei «normali».

291 Trisciuzzi L., L’educazione degli svantaggiati in Italia dal 1900, in Vertecchi B. (a cura di), Il

Il terzo periodo corrisponde alle scoperte di carattere medico e scientifico, alle ipotesi evoluzioniste, grazie alle quali la disabilità indica un accidente naturale e non una colpa o una disgrazia, anche se nella percezione comune il legame della disabilità con colpa e disgrazia continuerà a permanere. È una presa di posizione che prova e tenta una forma di guarigione, finendo, così, per incentrare il suo sguardo più sulla malattia che sulla persona292. Tuttavia rimane un passaggio importante poiché si «tratta di uno spostamento che passa da un immaginario collettivo, fondato su aspetti fisiologici, etici e religiosi, a una visione storico- scientifica»293.

Il quarto periodo si sviluppa dal terzo e considera l’uomo come prodotto storico e la disabilità come un’alterazione di tale prodotto. Lo sguardo non è solamente medico, ma anche umano, per cui si tenta non di guarire il disabile ma di conoscerne le caratteristiche, sia della disabilità in generale sia della storia individuale e personale che rende tale soggetto come unico e irripetibile. Diventa così possibile individuare percorsi di recupero e di sviluppo del potenziale, senza avere l’intento di guarire294

, ma di prendere in cura, «del farsi carico affettivamente e socialmente, del cercare di realizzare le condizioni perché migliori la qualità della vita di ciascuno. Per ribadire che una civiltà si misura anche e soprattutto dalla capacità di prendersi cura dei soggetti più deboli»295.

4.1.2 L’iter legislativo dell’integrazione scolastica in Italia

Lo sguardo sulla disabilità cambia anche in relazione all’obbligo scolastico. La prima legge che crea un collegamento tra disabilità e obbligo scolastico risale alla Riforma Gentile, ovvero al Regio Decreto n. 3126 del 1923, che prevedeva per ciechi e sordi, purché non presentassero altre anomalie, l’ingresso nelle scuole speciali o nelle classi differenziali, poiché viene riconosciuto il diritto-dovere dell’istruzione ai disabili sensoriali. In realtà, l’educabilità dei soggetti sordi e ciechi aveva una lunga storia che inizia nel Cinquecento per quanto riguarda i

292 Trisciuzzi L., Fratini C., Galanti M.A., Manuale di pedagogia…, op. cit. 293

Trisciuzzi L., L’educazione degli svantaggiati…, op. cit., p. 308.

294 Ivi.

295 Trisciuzzi L., Galanti M.A., Pedagogia e didattica speciale per insegnanti di sostegno e

sordi e nel Settecento per quanto concerne i disabili della vista296, tuttavia le istituzioni che li avevano accolti erano a carattere religioso o filantropico: solo dopo il 1923 le Province prima, e lo Stato poi, si occupano dell’educazione degli svantaggiati sensoriali.

Le scuole speciali spesso erano di carattere residenziale e potevano essere molto lontane dall’abitazione della famiglia: non era raro che il minore con disabilità venisse delegato in toto alle istituzioni a partire addirittura dai primi mesi di vita e nei casi più gravi, anche durante la sospensione scolastica estiva. Nelle scuole speciali e nelle classi differenziali, la prevalenza delle attività erano rivolte all’aspetto riabilitativo, più che all’aspetto integrativo, pertanto, là dove era possibile, veniva insegnato un lavoro da svolgere in alcuni laboratori protetti, coloro che invece non riuscivano ad apprendere tali abilità, al raggiungimento della maggiore età venivano affidati a cronicari e a istituti residenziali di assistenza297, poiché la famiglia non si occupava di loro, non era previsto uno spazio diverso da quello dell’emarginazione298

. «Le persone disabili vivevano quindi una vita “parallela”, fondata sull’educazione separata nelle scuole speciali e nell’isolamento o comunque in una rete di rapporti sociali assai povera che li segnava per tutta la vita, facendone una categoria di persone “diverse”, con scarsissimi diritti di vita comune con gli altri»299. Ancora prevale l’ottica di carattere medico impostato sulla malattia e guarigione, per cui la persona disabile diventava «l’espressione macroscopica di un “difetto” che, proprio perché ingigantito e generalizzato a scapito di altri aspetti della personalità, finiva inevitabilmente per essere vissuto e interiorizzato come una “colpa” da tutti quei soggetti che, loro malgrado, erano impossibilitati a realizzare un livello di “performance” nell’ambito della “normalità”»300

.

In fondo la separazione tra normalità e specialità si basava sui modelli pedagogici di fine Ottocento maturati in seno alle congregazioni religiose e alle conoscenze mediche in campo della disabilità, come ad esempio de Sanctis e Montesano. Infatti i «due modelli pedagogici: quello religioso e quello laico-

296 Zappaterra T., Braille e gli…, op. cit. 297

Nocera S., Il diritto all’integrazione, op. cit.

298 Trisciuzzi L., Fratini C., Galanti M.A., Manuale di pedagogia …, op. cit. 299 Nocera S., Il diritto all’integrazione…, op. cit., p. 30.

scientifico, antitetici su molti fronti, avevano però un punto di vista comune circa la metodologia di recupero del soggetto anormale. Entrambi gli indirizzi ritenevano che la persona handicappata necessitasse di speciali attenzioni e trattamenti differenziali rispetto alla media. Per ottenere risultati efficaci quindi si seguì, in generale tutto il contesto europeo, il modello educativo ispirato alla separazione degli alunni svantaggiati rispetto ai cosiddetti normali»301.

Le prime avvisaglie di disagio per le classi differenziali vengono avvertite dopo la seconda guerra mondiale. Tra le due guerre il divario e la separazione tra chi poteva ritenersi «normale» chi invece portatore di una disabilità era andato aumentando con l’introduzione del QI che finì ben presto per etichettare la diversità ben oltre le mura scolastiche. Con la ripresa economica del dopoguerra e la creazione del triangolo industriale a nord della penisola, il fenomeno che caratterizzò l’Italia fu un esodo che spinse all’immigrazione molti operai del sud verso il settentrione. La scuola si trovò ben presto a incontrare culture e dialetti linguistici eterogenei: diversità a cui il corpo docente non era preparato ad accogliere. Così i nuovi bambini finirono per riempire, ben oltre i limiti, le classi differenziali302, che tra le altre cose non sono regolate da una legge specifica (l’unica che ne parla è la n. 12 del 1962 che è una legge di bilancio e si occupa dello stanziamento della somma da ripartire a tale classi)303, ma da alcune circolari. Su questa situazione la contestazione studentesca degli anni Sessanta, finì per puntare il dito e sottolineare come la scuola contribuiva a mantenere una netta differenziazione tra le classi sociali, permettendo soltanto ad alcuni il diritto allo studio e relegando gli altri in classi che gli avrebbero etichettato per sempre304.

La svolta si ebbe negli anni Settanta con la legge 118 del 1971 che formalizzava l’inserimento nelle classi comuni dei disabili, che non presentavano gravi deficienze intellettive o fisiche poiché tali situazioni di gravità avrebbero impedito o reso difficoltoso l’apprendimento nelle classi comuni. «Questa legge,

301 Pruneti F., La politica scolastica dell’integrazione nel secondo dopoguerra, in Cappai G.M. (a

cura di), Percorsi dell’integrazione. Per una didattica delle diversità personali, Angeli, Milano, 2003, p. 57.

302 Trisciuzzi L., L’educazione degli svantaggiati…, op. cit. 303 Trisciuzzi L., Manuale di didattica…, op. cit.

che a prima vista non sembrava dover apportare modificazioni sostanziali all’organizzazione scolastica, ha finito invece per rappresentare un’autentica chiave di volta quando, intorno al 1975, gli specialisti hanno cominciato a rifiutarsi di attestare la gravità dell’handicap»305. La legge, tuttavia, non poneva regolamentazioni o orientamenti per quanto riguarda l’accoglienza o la didattica specifica da mettere in atto. Si parla infatti di «inserimento selvaggio», poiché il bambino veniva di fatto inserito nel contesto classe senza un reale progetto educativo e didattico volto ad una vera integrazione. Così il Ministro della Pubblica Istruzione per dare una risposta concreta allo sforzo sociale che la scuola stava attuando, condusse uno studio sistematico sulle condizioni degli istituti dopo l’entrata in vigore della L. n. 118/71 sulla base del quale venne redatto il Documento Falcucci, dal nome dell’allora Ministro, da cui trasse origine la CM n. 227 del 1975. Questa circolare «tradusse in termini organizzativi i primi orientamenti pedagogici e didattici che avrebbero dato luogo ai principi della “integrazione scolastica”»306

.

Al Documento Falcucci fa seguito la legge 517 del 1977 che abolisce le classi differenziali e le scuole speciali, inserendo i bambini svantaggiati nelle classi comuni, perlomeno per quanto riguarda la scuola dell’obbligo. La legge, inoltre, crea un’organizzazione scolastica per accogliere e formare il bambino disabile, introducendo la figura dell’insegnante di sostegno e riducendo il numero dei bambini della classe. Dal diritto di integrazione scolastica rimanevano esclusi gli alunni disabili delle scuole superiori, poiché la L. n. 118/71 recitava che il passaggio a tale scuola per alunni disabili sarebbe stato facilitato. Solo dopo che i genitori di una studentessa con ritardo mentale si erano visti rifiutare, in seguito alla bocciatura della figlia, la nuova iscrizione alla scuola superiore, con la motivazione che l’alunna non era in grado di seguire le lezioni e che nessuna legge costringeva la scuola ad accettare la nuova iscrizione, impugnarono davanti al TAR l’art. 28 comma 3 della L. 118/71. La Corte Costituzionale accolse il ricorso che, con la sentenza 215 del 1987, mutò la frequenza della scuola da sarà

facilitata a è assicurata307. Con la sentenza si fa strada l’idea che in età evolutiva

305 Cottini L., L’integrazione scolastica del bambino autistico, Carocci, Roma, 2002, p. 20. 306 Nocera S., Il diritto all’integrazione…, op. cit., pp. 34-35.

nessuno può considerarsi irrecuperabile, perché se l’integrazione scolastica è ben fatta costituisce un buon fattore di recupero: con integrazione si intende un aspetto legato al sociale e all’apprendimento, l’interruzione dell’integrazione può risultare come un blocco o come elemento di regressione nella crescita del soggetto308.

Nel 1992 esce la L. n. 104, ovvero la Legge-quadro per l’assistenza,

l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, che garantisce,

nell’articolo 12, alle persone disabili il diritto all’educazione in ogni ordine e grado di scuola, università compresa. Nello stesso articolo si sottolinea anche l’importanza dell’integrazione per la crescita sia della persona disabile, sia della classe che la accoglie, oltre che a specificare che nessuna menomazione o disabilità può rendere legittimo l’esclusione dalla frequenza scolastica. La legge prevede anche quali modalità operative mettere in atto attraverso tre documenti ufficiali: la Diagnosi Funzionale (DF), il Profilo Dinamico Funzionale (PDF), il Piano Educativo Individualizzato(PEI) che saranno perfezionati con il successivo DPR del 24 febbraio 1994: Atto d’indirizzo e di coordinamento relativo ai compiti

delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap309.

4.1.3 La documentazione

Nella documentazione il ruolo educativo della famiglia acquista importanza come agenzia formativa in rapporto con la scuola e i servizi sanitari-territoriali. La documentazione che accompagna il bambino disabile inizia con la certificazione che definisce clinicamente il disabile ed è rilasciata dalle strutture sanitarie, presso le quali il bambino è in cura. La certificazione, inoltre, dà il via a tutta una serie di servizi e di diritti di cui può beneficiare il bambino disabile, come ad esempio, il diritto ad avere un insegnante di sostegno a scuola310.

308 Nocera S., Il diritto all’integrazione…, op. cit. 309

Ianes sottolinea il fatto che trattandosi «di compiti direttamente connessi alle prassi di integrazione scolastica ci si poteva attendere una partecipazione all’elaborazione di tali norme anche da parte del Ministro della pubblica istruzione, invece non fu così, e questa assenza spiega, almeno in parte, le anomalie di questo testo di legge, predisposto esclusivamente dal Ministero della Sanità di concerto con quello degli Affari Regionali, ottenuto il parere favorevole del Consiglio sanitario nazionale e della Conferenza permanente Stato-Regioni». (Ianes D., La

diagnosi funzionale secondo l’ICF. Il modello OMS, le aree e gli strumenti, Erickson, Trento,

2004, pp. 14-15).

La diagnosi funzionale è un documento che raccoglie tutte le informazioni dell’anamnesi prossima e remota del soggetto sia da un punto di vista fisiologico che patologico. La DF comprende anche la diagnosi clinica redatta dal medico specialista di riferimento, che oltre ad indicare la patologia compie una previsione dell’evoluzione naturale. L’analisi, inoltre procede ad approfondire vari aspetti della vita del soggetto (aspetto cognitivo, affettivo-relazionale, linguistico, sensoriale, neuropsicologico, possibilità di autonomia) per individuare eventuali risorse e punti di forza311. La diagnosi funzionale si presenta come un’articolata e complessa raccolta di informazioni, che per renderle usufruibili da un punto di vista didattico, occorre uno strumento «di trasformazione e di sintesi, un “organizzatore” dei dati di conoscenza che li trasformi in progettazione di attività didattiche e linee educative e gestionali da utilizzare nel quotidiano»312 questo è possibile grazie al PDF313.

Alla Diagnosi Funzionale, infatti, fa seguito il Profilo Dinamico Funzionale che ha il compito di operare una sintesi alle molte informazioni emerse nella fase precedente. Viene redatto dall’unità multidisciplinare che segue il bambino, dagli insegnanti curricolari e di sostegno, dai familiari dell’alunno. Il PDF ha il compito di individuare un prevedibile livello di sviluppo in tempi brevi, sei mesi, e tempi medi, due anni, seguendo gli assi (cognitivo, affettivo-relazionale, linguistico, sensoriale, motorio prassico, della comunicazione, dell’autonomia, dell’apprendimento), dando una descrizione effettiva dell’allievo e l’individuazione di potenzialità per ogni asse. Il linguaggio dell’Atto di indirizzo risente molto dell’approccio medico: molti sono i riferimenti che più che appartenere al mondo pedagogico appartengono ad una concezione sanitaria. Si parla, infatti, di prevedibile livello di sviluppo o il raggiungimento del potenziale soggettivo in periodi più o meno brevi. «È ovviamente importante che nel profilo vi sia un’ottica positiva, che metta in evidenza le capacità dell’alunno e stimoli a promuovere sviluppo e crescita, al di là di un’ottica patologica e legata al pessimismo del deficit. Ma non è certo con queste concezioni “prognostiche”,

311

Ivi.

312 Cottini L., Didattica speciale e integrazione scolastica, Carocci, Roma, 2004, pp. 29-30. 313 Ianes D., Cramerotti S., Il piano educativo individualizzato. Progetto di vita. Guida 2005-2007,

ancora molto legate ad una concezione medica, che si rende operativa in senso pedagogico e didattico quest’ottica positiva»314

. In senso pedagogico e didattico il percorso educativo e formativo si traccia giorno dopo giorno poiché tante sono le variabili che incidono sullo sviluppo del soggetto in formazione, per cui il percorso diventa più un moto di tensione verso gli obiettivi stabiliti, senza, però, avere a priori la certezza di raggiungerli perché è possibile spostare e rivedere i traguardi a cui giungere in itinere.

Se nel PDF vengono individuati gli obiettivi nel PEI (Piano Educativo Individualizzato) si definiscono i mezzi, le strategie, i tempi e gli spazi attraverso i quali raggiungere tali obiettivi. Il PEI viene scritto dopo due mesi dall’inizio della scuola per avere un tempo sufficiente di osservazione del bambino. Questo documento è redatto dagli operatori che lavorano con il bambino, dagli insegnanti curricolari e di sostegno, dalla famiglia. Questa multidisciplinarietà che ruota intorno alla stesura del PEI sottolinea l’importanza dell’integrazione e collaborazione degli educatori, operatori, insegnanti (sia della classe che di sostegno) e della famiglia: sia in funzione di una continuità educativa che comprenda anche l’extrascuola315

sia per promuovere l’inclusione scolastica316. Il PEI prende in considerazione sia il progetto didattico degli insegnamenti sia lo sviluppo e la promozione della socializzazione317.

Al PEI si lega anche il Progetto di vita, ovvero la costruzione di un immaginario che accolga la possibilità di pensare il soggetto disabile come adulto318.

4.1.4 L’insegnante di sostegno

Con l’inserimento degli alunni speciali nelle classi comuni divenne necessaria l’introduzione di una nuova figura professionale: quella dell’insegnante di sostegno. Già il documento Falcucci sottolineava l’importanza di affiancare il docente della classe con una professionalità maggiormente specializzata. Dal 1975

314 Ianes D., La diagnosi funzionale…, op. cit., p. 46. 315 Ianes D., Cramerotti S., Il piano educativo…, op. cit. 316

Ivi.

317 Cottini L., Didattica speciale e…, op. cit.

318 Goussot A., Il disabile adulto. Anche i disabili diventano adulti e invecchiano, Maggioli,

al 1977 tre circolari ministeriali319 regolano e organizzano tale figura professionale che non può essere «costruita» dai vecchi corsi di carattere fisiopatologico, poiché per la nuova figura professionale si richiedono compiti e competenze differenti rispetto a quelli richiesti dall’insegnante della scuola speciale. Nascono i corsi polivalenti che vennero avviati nell’anno scolastico 1979-1980, per cui i primi specializzati entrarono nella scuola nell’anno scolastico 1980-1981320. A evidenziare la professionalità del ruolo dell’insegnante, dal 1998 la formazione docente diventa universitaria e la specializzazione per il sostegno prevede delle semestralità in più rispetto alla semplice abilitazione. Molte discussioni sono state fatte per incrementare ulteriormente la preparazione dell’insegnante di sostegno321, tuttavia è anche importante sottolineare l’aspetto di preparazione accademica che si è andato a costruire nel corso degli anni.

Il ruolo dell’insegnate di sostegno che si è andato delineando prevede un doppio aspetto: sia il potenziamento degli apprendimenti e delle competenze del soggetto disabile sia l’agevolazione dell’integrazione e inclusione nella classe. La conquista dell’integrazione nella scuola di tutti è stata molto faticosa e molto del suo peso è caduto sulle spalle dell’insegnante di sostegno e ciò «li ha esposti, e tuttora li espone, a un duplice rischio: un coinvolgimento eccessivo, da un lato, in un certo tipo di relazioni interpersonali psicologicamente molto impegnative e gravose […] e, dall’altro, a uno stato di emarginazione e di solitudine»322

. Questa posizione rischiosa è dovuta, secondo Fratini, al fatto che da una parte l’equipe socio-medica e il corpo docente delega in toto la formazione del soggetto disabile e la progettazione pedagogico-didattica all’insegnante di sostegno che così finisce per trovarsi spesso privo di orientamenti e indicazioni che garantirebbero un lavoro didattico più professionale con un progetto condiviso. Si parla così della solitudine dell’insegnante di sostegno che rischia un isolamento a due, poiché il docente finisce per creare una forma di emarginazione di cui fa parte l’allievo e il maestro di supporto. Come ricorda Fratini le responsabilità per la costruzione di una relazione di solitudine sono molteplici: se da una parte vi è la delega del

319

La n. 227 del 1975, la n. 228 del 1976 e la 216 del 1977.

320 Trisciuzzi L., Manuale di didattica…, op. cit. 321 Nocera S., Il diritto all’integrazione…, op. cit.

corpo docente all’insegnante di sostegno, dall’altra vi è, da parte di quest’ultimo, la presa della delega: ovvero il pensare di essere l’unica figura in grado di «salvare» il soggetto in formazione disabile, per cui si crea un forte legame di