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OBIETTIVI E METODI DELLA RICERCA

2.2 Lo stato dell’arte

Come evidenziano Zanobini, Manetti e Usai i numerosi studi sulle relazioni tra genitori e figli disabili evidenziano spesso dati discordanti. Ciò è dovuto principalmente al fatto che le ricerche quantitative sono caratterizzate non solo da una griglia ristretta di possibilità rispetto alla molteplicità delle situazioni e delle variabili presenti in ogni singola storia, ma anche dalla tendenza di dare per

138 Soresi S., Psicologia delle disabilità, op. cit. 139

Zanobini M., Manetti M., Usai M.C. (a cura di), La famiglia di…, op. cit.

140Malaguti E., Educarsi alla resilienza. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi, Erickson,

Trento, 2005.

scontato numerosi vissuti di sofferenza142. Le enfasi negative sono dovute al fatto che la disabilità è vista come qualcosa di negativo, qualcosa che trova il suo opposto nella normalità. Pertanto se esiste il «normale» come termine che denota il positivo, la parola «disabile» diventa inevitabilmente il suo opposto: la parte che evidenzia un aspetto negativo. Così, quando la disabilità irrompe nella famiglia, seguendo il senso comune e vecchi pregiudizi, non possono che creare relazioni patologiche.

La famiglia con disabilità si ritrova molto più delle altre sotto i riflettori della società e sotto l’analisi dei comportamenti che i genitori intraprendono con i loro figli143. I giudizi che ne emergono non sono teneri con i genitori dei figli disabili: ogni presa di discussione dei genitori su uno dei comportamenti del figlio è stato interpretato spesso dagli esperti come una non accettazione del figlio stesso, finendo così per creare una forte colpevolizzazione nei confronti di padri e madri e nel non ritenerli parte integrante di un processo educativo da costruire insieme. Non sono rari i casi, riportati da specialisti, che pongono in evidenza come l’invio di alcuni casi di disabilità da parte di colleghi fosse accompagnato dalla premessa che i genitori presentassero caratteristiche di opposizione e di non accettazione del deficit dei figli. Descrizioni smentite dal reale incontro dove non solo i genitori dimostravano di considerare il figlio come parte integrante della famiglia, ma si mostravano anche fortemente disponibili per intraprendere collaborazioni educative con i servizi. La tendenza degli «esperti» si concentra, infatti, sul non voler vedere percorsi diversi da quelli di sofferenza o di non accettazione della disabilità del figlio, più che saper sottolineare le parti positive che in questa relazione delicata possono comunque esserci. Secondo Zanobini, Manetti e Usai la scissione netta tra normalità e disabilità è dovuta prevalentemente all’analisi di tipo medico con la quale è stato affrontato il deficit144. Non è un caso che in questi ultimi anni l’OMS alla classificazione del 1980 (ICIDH) abbia fatto seguire ICF per sottolineare il lato sociale della disabilità, poiché questo approccio parla di

142

Zanobini M., Manetti M., Usai M.C. (a cura di), La famiglia di…, op. cit.

143 Trisciuzzi L., La pedagogia clinica. I processi formativi del diversamente abile, Laterza,

Roma-Bari, 2003.

salute e di funzionamento e non di patologie o di disabilità145. Passaggio ben sottolineato da Pontiggia quando nel testo Nati due volte pone sotto riflessione chi il concetto di disabilità e di normalità, differenziazione apparentemente semplice ma che in realtà si rivela molto più complessa e ricca di significato.

Quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. E lo si fa cominciando a negare la normalità. La normalità non esiste. Il lessico che la riguarda diventa a un tratto reticente, ammiccante, vagamente sarcastico. Si usano, nel linguaggio orale, i segni di quello scritto: «I normali, tra virgolette». Oppure: «I cosiddetti normali».

La normalità – sottoposta ad analisi aggressive non meno che la diversità – rivela incrinature, crepe, deficienze, ritardi funzionali, intermittenze, anomalie. Tutto diventa eccezione e il bisogno della norma, allontanato dalla porta, si riaffaccia ancora più temibile alla finestra. Si finisce così per rafforzarlo, come un virus reso invulnerabile dalle cure per sopprimerlo. Non è negando le differenze che lo si combatte, ma modificando l’immagine della norma.

Quando Eistein, alla domanda del passaporto risponde “razza umana”, non ignora le differenze, le omette in un orizzonte più ampio, che le include e le supera.

È questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una discriminazione, sia a chi per evitare una discriminazione, nega la differenza.146

2.2.1 L’indagine dei vissuti genitoriali

La ricerca condotta da Zanobini, Manetti e Usai (tra il 1996 e 1999 condotta su 91 famiglie che tra i propri membri avessero un figlio certificato e frequentante la scuola dell’infanzia o primaria) parte da un assunto di normalità, nel senso che non intende indagare l’eventuale patologia della famiglia, ma intende analizzare i fattori che influenzano le strategie di coping, i processi di cambiamento e la qualità/quantità del supporto sociale. Le variabili prese in considerazione dalle studiose riguardano l’età dei genitori, i livelli di istruzione e il tipo di attività svolto (es. per le madri la differenza è posta sulle occupate e sulle casalinghe).

145 OMS, Classificazione internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute,

Trento, Erickson, 2002.

Dall’indagine risulta, per quanto riguarda il rapporto con le istituzioni, che le madri non istruite dichiarano di avere buoni rapporti, mentre per le istruite il dato non è così ottimale. Probabilmente perché le madri con un titolo di studio richiedono «più spiegazioni e hanno esigenza di un tipo di interazione più partecipata, soprattutto sul piano delle spiegazioni e della progettulità sul bambino. Potrebbero manifestare una maggior tendenza a voler capire, non solo i perché della malattia ma anche il senso degli interventi e della riabilitazione; questo può produrre più divergenze cui fa seguito una minor soddisfazione»147. Discorso analogo si ha per la scuola dove sono le madri non occupate ad evidenziare una maggiore percezione di collaborazione con le figure professionali di riferimento, mentre le occupate (che corrispondono anche alle più istruite) lamentano la poca continuità educativa e di trovarsi spesso in disaccordo con l’insegnante di sostegno. Per quanto riguarda l’età essa non influenza la percezione di collaborazione con le istituzioni, così come non rappresenta una variabile significante sui processi di aggiustamento. Nei processi di aggiustamento le aree che appaiono colpite dal cambiamento sono l’emotività, l’aspetto finanziario, la relazione di coppia e la situazione lavorativa (non presenterebbero cambiamenti statisticamente significativi i rapporti con i colleghi e gli altri figli, l’abitazione, i rapporti con parenti e amici). Sono le donne con istruzione medio- alta a lamentare un cambiamento negativo della situazione lavorativa ed economica. Una percentuale molto alta (il 47%) evidenzia un peggioramento della relazione di coppia, e anche in questo caso sono soprattutto le donne con un titolo di studio medio-alto a sottolineare tale cambiamento negativo, dato che si trova in opposizione alla percezione dei padri, che invece, come un paradosso, sottolineano un miglioramento nella vita di coppia. Il peggioramento della situazione emotiva è evidenziato, invece, soprattutto dalle madri con un titolo di studio basso. Per quanto riguarda l’attivazione di stili di coping positivi, questi risultano maggiormente attivati dalle donne con un più alto grado di istruzione.

Le risposte che hanno fornito i padri al medesimo questionario portano delle differenze significative soprattutto su due punti: il primo riguarda la percezione della coppia, dove, soprattutto coloro che hanno un titolo di studio

medio-basso, evidenziano un miglioramento; il secondo riguarda l’emotività: coloro che possiedono un titolo di studio medio-basso presentano un miglioramento (i padri con titolo di studio alto evidenziano al contrario un peggioramento dell’emotività).

2.2.2 Le ricerche sul ruolo del padre

Altra idea che caratterizza le famiglie con disabilità consiste nel ritenere che il padre abbia un ruolo latitante e marginale rispetto a quello della madre. Quest’ultima infatti sarebbe maggiormente implicata nella relazione di cura del figlio e quindi soggetta a stress. Dalla letteratura quello che emerge è che i ruoli tra i due coniugi diventano fortemente e rigidamente strutturati: da una parte si trova una madre che lascia il proprio lavoro, rinunciando così alla possibilità di carriera, dall’altra si trova il padre che finisce per concentrare tutta la sua esistenza nel lavoro risultando assente e delegante nell’educazione del figlio disabile. Questa tendenza è evidenziata anche dall’indagine clinica di Sorrentino148, anche se presenta caratteri meno stereotipati e rigidi rispetto al senso comune.

Zanobini e Freggiaro149 propongono una ricerca qualitativa sul padre partendo dalle autobiografie. L’analisi proposta dagli autori è volta ad indagare sia da un punto di vista lessicale (dove il maggior numero di parole dei diversi testi riguarda il nome del figlio, o un appellativo ad esso relativo, facendo così emergere la centralità che nel brano tale figlio riveste nei pensieri del padre) sia nel ripercorrere i nodi peculiari che nei racconti di storie ritornano in maniera ridondante (l’impatto; i perché: la situazione di crisi; le dinamiche di accettazione, il contesto e le risorse familiari; il ruolo del padre; conclusioni). La ricerca condotta mostra come il ruolo del padre non sia così marginale nella vita del figlio, perlomeno non sempre. La ricerca pone, inoltre, in evidenza il fatto che

148 Sorrentino A.M., Figli disabili, op. cit.

149 Zanobini M., Freggiaro D., Una nuova immagine della paternità: autobiografie di padri con

l’apatia e la fuga non sono le uniche risposte che il padre manifesta, ma ve ne sono altre maggiormente complesse e ricche di significato.

Questa analisi è in linea anche con le osservazioni di Soresi, il quale afferma che se le prime ricerche individuavano un maggiore stress nella percezione dei vissuti materni, le ultime tendono ad affermare il fatto che entrambi i genitori vivono situazioni parimenti stressanti150. Sia dai dati che emergono sia da una diversa riflessione sull’argomento le immagini stereotipate della rigidità dei ruoli iniziano ad affievolirsi.

2.2.3 Genitori e figli disabili adulti

Un altro filone di indagine ha indagato i vissuti genitoriali in rapporto all’età adulta del figlio. Infatti, con il miglioramento delle tecniche e delle strumentazioni mediche, l’aspettativa di vita in soggetti con disabilità è notevolmente aumentata, aprendo nuove riflessioni e nuove problematiche che esperti e familiari si pongono in relazione anche all’età adulta: i «familiari si trovano più spesso di una volta ad interagire con una persona adulta che, però, solo difficilmente riesce a organizzare autonomamente la propria esistenza. Nella maggior parte dei casi queste persone vivono con i genitori pur continuando a frequentare centri diurni occupazionali o laboratori e cooperative protette e a causa del loro precoce invecchiamento, tendono a sperimentare più intensi sentimenti di solitudine e depressione»151. L’invecchiamento dei figli disabili va a coincidere con l’avanzamento dell’età dei loro genitori che spesso si trovano a dover sostenere situazioni percepite come sempre più pesanti (anche per l’aggravarsi spesso della malattia cronica del figlio), e dove non percepiscono la possibilità di uno spazio autonomo per il figlio, così subentra anche il timore per cosa avverrà nel futuro di quel figlio, quando il genitore non ci sarà più.

Eppure ciò che emerge dalle ricerche e che si contrappone alla paura del futuro è la scarsa autonomia che i genitori tendono a far sviluppare ai figli, come se venissero intrappolati in una campana di vetro, creata da un legame iperprotettivo. Il legame di iperprotezione invade anche le relazioni interpersonali: secondo i genitori, i figli mostrerebbero difficoltà nella relazione con coetanei

150 Soresi S., Psicologia delle disabilità, op. cit. 151 Ivi, p. 227.

normali. La maggior parte dei rapporti che il figlio Down ha, al di fuori della famiglia, si esaurisce tra compagni e amici delle associazioni, mentre i rapporti con altri coetanei (extra-associazione) cesserebbero con la fine del percorso scolastico. Il momento di fine della scuola segna anche un «riaffidamento» del figlio alla famiglia, proprio nella fase in cui la socializzazione extra-familiare risulterebbe necessaria per lo sviluppo della reciproca autonomia genitori-figli152.

Grazie all’analisi delle ricerche effettuate sull’argomento, la scelta metodologica dello studio improntato sulle dinamiche genitori-figli disabili che questa tesi presenta, prende in considerazione un metodo qualitativo per analizzare i vissuti genitoriali attraverso resoconti autobiografici e racconti di vita emersi dalle interviste.