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PAURE PER IL FUTURO: ADOLESCENZA E ETÀ ADULTA DEI FIGLI DISABIL

5.3 L’integrazione sociale

Accanto a paure e ansie da parte dei genitori si trova anche la presa di consapevolezza che i propri figli hanno dei diritti e che questi devono essere rispettati. Molti di questi genitori «sono capaci di comprendere i bisogni reali dei propri figli, capiscono le necessità ed operano affinché le risorse territoriali possano corrispondere con competenza alle loro legittime attese. Sono genitori sempre più competenti, pienamente coscienti dei nuovi orizzonti utili al raggiungimento di una piena integrazione»418. Dalle ricerche condotte da D’Alonzo419

emerge che il passaggio da un grado scolastico all’altro ha comportato una diminuzione di difficoltà nei ragazzi stessi, segno che l’integrazione ha dato, in alcuni casi, i frutti sperati. Tuttavia i genitori sanno che

417

Giani Gallino T. (a cura di), L’altra adolescenza, op. cit.

418 D’Alonzo L., Verso l’integrazione totale, in Cappai G.M. (a cura di), Percorsi

dell’integrazione. Per una didattica delle diversità, Angeli, Milano, 2003, p. 22.

l’integrazione scolastica è solo una conquista parziale, se ad essa non si affianca un’integrazione sociale nella comunità che apra una vita relazionale e lavorativa significativa.

Perché si possa parlare di integrazione totale, occorre allora riguardare alle autonomie in modo che queste comprendano, non solo quelle esposte nel paragrafo precedente, ma anche una cura più attenta agli aspetti personali della vita quotidiana. L’autonomia legata alla cura igienico-personale, per esempio, dovrebbe andare oltre per abbracciare la cura della persona. Infatti, troppo «spesso notiamo ancora come sia diffusa l’idea che la persona con deficit non debba curare la propria immagine, comunemente notiamo come la grande maggioranza dei soggetti disabili indossino tute ginniche e scarpe da tennis. La dignità della persona passa attraverso le piccole cose ed anche l’abbigliamento merita di essere considerato attentamente se vogliamo concorrere alla maturazione di una persona in grado di inserirsi in questo mondo. Dobbiamo riflettere su questa importante sfera dell’autonomia personale, non dimenticando mai che viviamo in un contesto socio-culturale dove l’immagine individuale si veicola attraverso l’abbigliamento»420

.

Altre riflessioni sulla presa delle autonomie, all’interno delle mura domestiche, riguardano l’abituare il soggetto disabile a prendersi cura della propria stanza, in modo che impari a organizzare i propri spazi in modo autonomo, l’acquisire comportamenti socialmente accettati, soprattutto in alcune circostanze, come ad esempio a tavola. Queste acquisizioni, che possono apparire come banali, giocano un ruolo veramente importante nello sviluppo dell’integrazione sociale, poiché rientrano nel processo di normalizzazione, come ricorda il manifesto di Nirje. Anche un disabile grave ha bisogno di un ritmo del giorno scandito da momenti di lavoro e da momenti di riposo e di tempo libero, perché le ore non sono tutte uguali e vissute nello stesso luogo, perché il posto di lavoro non corrisponde al luogo dell’abitato. Lo scandire del tempo riguarda anche la settimana e l’anno che passa con le giornate del week-end e le giornate di ferie in cui può essere scelto ciò che si desidera fare421. Al di là delle bellissime

420 D’Alonzo L., Verso l’integrazione…, op. cit., p. 24. 421 Ianes D., La speciale normalità, op. cit.

parole che appaiono nel manifesto occorre indagare cosa attende il ragazzo dopo la scuola dell’obbligo.

5.3.1 Dopo la scuola dell’obbligo: i centri diurni e residenziali

L’adolescenza costituisce un momento cruciale per la vita di qualsiasi persona, poiché è la fase di passaggio alla vita adulta, in cui l’individuo va definendo la propria personalità e delineando il proprio progetto di vita in direzione di autonomia e indipendenza. L’adolescenza spesso coincide anche con il termine dell’obbligo scolastico e l’aprirsi di un percorso più incerto soprattutto se la costruzione di un progetto di vita non è stata co-costruita dal soggetto, dalle agenzie formative e dai servizi che ruotano intorno a lui. Infatti, il percorso scolastico, talvolta prolungato all’eccesso, finisce «pur con tutti i corsi e ricorsi dei genitori per protrarlo all’infinito, a cui fanno da contrappeso i funambolici tentativi da parte del dirigente scolastico per accontentarli senza venire meno al suo compito (che oggi è anche quello di far quadrare i conti) ed a quello della scuola, lasciando scaturire come da un restaurato vaso di Pandora tutte le insicurezze, le ansie, le paure che sempre la fine di qualcosa che è stato positivo o almeno contenitivo, comporta. Con esso si aprono possibilità più o meno definite e vaghe, ma soprattutto si fa strada la fatidica domanda da parte dei genitori: e adesso cosa ne sarà di mio figlio?»422.

La legge quadro, dopo la scuola dell’obbligo, prevede la possibilità di proseguire il percorso scolastico alle scuole superiori e all’Università; in alternativa la frequenza in centri di formazione professionale; inoltre, nei casi in cui non sia possibile procedere in direzione di inserimento lavorativo, offre la possibilità di usufruire dei servizi territoriali, come centri residenziali o centri diurni. Il lavoro costituisce una fase importante della vita del disabile, tuttavia occorre riflettere sul fatto che non tutte le persone disabili possono arrivare al raggiungimento di un’autonomia da permettere un inserimento lavorativo423

. In quest’ultimo caso l’alterativa al lavoro è svolto dai centri diurni all’interno dei quali è possibile esperire attività simili a quelle che abbiamo visto in precedenza sulle espressioni artistiche. A tale proposito Montobbio è molto critico, poiché

422 Marangi A., La vita adulta…, op. cit., p. 69. 423 Mannucci A., Crescere insieme…, op. cit.

considera i centri diurni come dei luoghi simili a «The Never Land» dove il riferimento a Peter Pan e il suo desiderio di non crescere è molto evidente. Con uno sguardo polemico l’autore individua in questi luoghi una modalità di stare fuori dal mondo dei grandi, di vivere in uno spazio costruito proprio per non far crescere, ma per prolungare l’infanzia. Luoghi così non nobilitano la dignità umana, non permettono all’individuo di scegliersi e progettare la propria esistenza ma sono solo il prolungamento nel tempo di quella campana di vetro entro cui il Signor Down424 passa la sua vita: dalla famiglia, alla scuola al centro diurno425.

In realtà l’inserimento lavorativo non è escluso a priori con la frequenza dei centri diurni da parte del soggetto426, anche perché i centri diurni sono strutturati, come ad esempio la cooperativa «Gaetano Barberi», in modo da acquisire e consolidare le abilità apprese per promuovere l’autonomia e l’integrazione sociale oltre che l’inserimento lavorativo.

I centri residenziali, invece, prevedono la permanenza diurna e notturna dei disabili nella struttura, talvolta questa è la “soluzione” che si compie alla morte dei genitori, eppure esiste anche un’intenzionalità progettuale diversa, una voglia e un tentativo di cambiare questo orizzonte che pare, per molti versi, certo, come emerge dalle parole che Marina rivolge a Claudia.

Ora però dobbiamo pensare al futuro e davanti a noi genitori c’è l’incognita e la preoccupazione del dopo di noi. A parte il fatto che anche il durante noi è importante e molto trascurato dalle istituzioni, per il dopo di noi io non condivido affatto il pensiero comune: non penso che il costruire case famiglia o comunità sia la risposta più giusta per te e per chi vive la tua realtà, non credo che questa soluzione sia ciò che desiderate per la vostra vita, quando noi non saremo più al vostro fianco.

Io lo vedo, sai, quando lasciamo la nostra casa per una passeggiata, una vacanza, oppure per controlli medici e, tornando, arriviamo al portone: il tuo sorriso si fa convinto e deciso, così comunichi la tua felicità di essere nel tuo ambiente, fra i tuoi oggetti; è il tuo nido e qui ti senti protetta e sicura. Perciò sono convinta che il dopo di noi per te

424 Montobbio non utilizza il termine Sindrome di Down, perché ritiene che il termine Sindrome

stigmatizzi in modo eccessivo la storia e l’identità della persona Down identificandola come un portatore di una malattia che legittima l’intervento esterno nella sua progettazione esistenziale senza renderlo protagonista e senza dargli gli strumenti per costruirsi un vero Sé.

425 Montobbio E., Il viaggio del…, op. cit. 426 Marangi A., La vita adulta…, op. cit.

dovrà essere qui a casa tua, in questa grande casa che ha visto crescere te, tuo fratello e tua sorella; qui vi sono i ricordi, le gioie, i momenti difficili, scritti invisibilmente sulle pareti. Tutta la nostra casa è imbevuta di noi, dei nostri respiri, del nostro amore.

Come arrivare a realizzare questo progetto ancora non so; non è facile far capire alle istituzioni l’importanza di un dialogo in cui i disabili e le loro famiglie partecipino attivamente con le loro proposte. Questo progetto è forse un’altra creatura marziana, ma molte famiglie condividono il mio pensiero e stiamo lavorando per concretizzare questo nostro grande ultimo sogno da donare a te, mia bella principessa dai capelli rossi.427

5.3.2 L’inserimento lavorativo

Nella vita adulta la possibilità di entrare nel mondo del lavoro per il disabile rappresenta una forma di autonomia e di dignità: assegnare un lavoro significa anche assegnare un ruolo, ciò diventa possibile se lo sguardo sulla disabilità si connota in prospettiva di pensare il soggetto disabile come adulto. Uno sguardo che inizia in famiglia, anche se spesso i genitori hanno bisogno di sostegno per sviluppare la capacità di vedere il proprio figlio fragile e speciale crescere e diventare adulto. Ma anche gli operatori svolgono un ruolo importante nella mediazione e nella ricerca di accompagnare il soggetto a inserimenti lavorativi definitivi. La consapevolezza che accompagna tale progettualità riguarda il fatto che imparare un lavoro non significa imparare a lavorare. Infatti nel «primo caso, si tratta di acquisire determinate capacità operative, indipendentemente dalla motivazione e dagli obiettivi per cui si fanno le cose; nel secondo caso, si tratta di maturare una mentalità, una attitudine, una modalità di intendere il mondo»428. È per questo motivo che Montobbio contrasta le attività dei centri diurni perché per quante autonomie e attività possono essere apprese, l’insegnamento e la presa di coscienza di avere un ruolo riconosciuto, che comporta anche avere diritti e doveri e il farsi carico delle proprie responsabilità, avviene solo se si apprende l’attitudine a lavorare.

Il lavoro di mediazione degli operatori è un’attività molto importante e che non si esaurisce con il semplice inserimento lavorativo. Nella progettazione lavorativa rientra in primo luogo l’orientamento, attraverso il quale il soggetto

427 Cometto M., Claudia & family, op. cit. , pp. 26-27. 428 Montobbio E., Il viaggio del…, op. cit., p. 49

disabile può riconoscere i propri interessi e le proprie attitudini, perché nell’eseguire un’attività lavorativa è anche importante che il lavoro svolto non appartenga ad un’attività messa in atto tanto per fare qualcosa, ma che sia vissuta come la propria professione scelta in base alle proprie capacità e interessi. È un progetto e un processo che dovrebbe legarsi alla vita scolastica e non porsi come problematica alla fine del percorso didattico. «Importanti sono anche i supporti che vanno previsti per stimolare la collaborazione dei familiari al fine di ridurre gli effetti negativi che possono derivare dalla presenza di eventuali atteggiamenti negativi nei confronti della disabilità e del lavoro. Alcuni, ad esempio, possono avere difficoltà a riconoscere che i loro figli stanno diventando adulti, che possiedono delle risorse spendibili nel contesto lavorativo, che il lavoro sia utile unicamente “per tenerli occupati”, denunciando di fatto, così, la loro poca fiducia nelle capacità decisionali e produttive di questi giovani e arrivando persino, alcune volte, a ostacolare la ricerca di un’occupazione nel timore di perdere diritti e sussidi pubblici»429. Da una ricerca di Cacciato e Valorio, risulta che i soggetti disabili (nel caso della ricerca delle studiose rivolto a persone con Sindrome di Down) mostrano una buona autostima ma al tempo stesso poca autonomia nel muoversi nella quotidianità senza il supporto della famiglia. Le ricercatrici concludono che il problema ha radici nel rapporto di iperprotezione in cui i ragazzi crescerebbero, che se da una parte crea autostima, dall’altra li limita ad indirizzare il proprio progetto e la propria esistenza in uno spazio ristretto rispetto a quello che potrebbero svolgere430.

In altri studi, condotti da Cacciato431, su aspetti emotivo-relazionali, sulla qualità di vita, sulla progettualità e sui livelli di autonomia, mostra come i genitori percepiscono i loro figli con sindrome di Down alle soglie della vita adulta. Dai risultati ottenuti emerge che l’autonomia è presente solo per attività di igiene personale, il futuro è visto altamente problematico e le aspettative dei genitori sul lavoro dei figli sono molto ridimensionate rispetto alle aspettative per i figli «normali». Ai genitori, infatti, è stato chiesto in primo luogo quale lavoro

429

Soresi S., Psicologia delle disabilità, op. cit., p. 294.

430 Cacciato G., Valorio P., Adolescenti con Sindrome di Down, in Giani Gallino T. (a cura di),

L’altra adolescenza, op. cit.

ipotizzavano per i propri figli e successivamente quale lavoro ritenessero più idoneo: con la seconda domanda vi era un passaggio dal piano ipotetico ad uno più concreto e verosimile. Alla prima domanda sono state proposte varie alternative, anche se modeste: molti prediligono per il figlio un lavoro in ufficio, oppure come aiutante ed anche un lavoro a contatto con la natura, una piccola percentuale preferisce l’assegno assistenziale a vita in alternativa ad un posto di lavoro. Alla seconda domanda, invece la percentuale molto alta è data dalla risposta «non so». I genitori, quindi, faticano a pensare il figlio concretamente idoneo per una mansione che possa creare possibilità di autonomia.

Secondo Soresi un valido aiuto ai genitori può essere proposta attraverso programmi di Parent training attraverso i quali aiutare i genitori ad abbandonare il pregiudizio secondo il quale il proprio figlio è legato per tutta la vita al mondo dell’infanzia, per vedere le possibilità reali di efficacia e di autonomia432

.

Lavorare con genitori che hanno fiducia nei loro figli comporta raggiungere risultati altamente incoraggianti. A tale proposito Silvia narra la propria storia e il proprio inserimento lavorativo:

Sono Silvia e quest’anno compio ventitrè anni. Nella mia vita ho conosciuto delle persone stupende che mi hanno aiutata a superare il mio handicap.

Innanzitutto, c’è la mia famiglia: mamma, papà, Maurizio, Renato, Stefania, Damiano e Daniele che mi hanno accettata e qualche volta e anzi qualche volta ci scherziamo sopra all’handicap.

Alla «Nostra Famiglia» dove ho fatto fisioterapia per anni, mi sono trovata molto bene. Mia mamma l’ha notato perché doveva fare sempre «su e giù». Anche al mio paese ho fatto ginnastica fino al compimento dei diciotto anni, poi ho smesso per scelta.

Alle elementari mi sono trovata bene, gli insegnanti sono stati pazienti con me, alcuni miei compagni di scuola li vedo e li sento ancora. Mi ricordo che quando sono stata operata, per non saltare le lezioni sono andata a scuola con il gesso ed i miei compagni mi hanno fatto la firma.

Alle medie, quando sono entrata, c’erano molti ragazzi e ragazze che mi guardavano stranamente. Mi ricordo che alla ricreazione ero sempre sola; per fortuna c’era mio cugino Andrea che mi faceva compagnia.

Al CFP433 è stato bellissimo! Questa scuola è la mia preferita delle tre che ho frequentato. C’erano molti lavori: falegnameria, ceramica, confezioni, meccanica per i ragazzi.

Il primo anno abbiamo fatto anche noi ragazze falegnameria, ed era fantastico! Ho fatto anche il quarto anno per l’inserimento al lavoro. Ho fatto degli stages alla «Confezioni Lucy» per un po’, poi ho lavorato anche da mia zia Maddalena che ha una stireria.

Lì facevo vari lavoretti: mettevo i bottoni dentro ad un sacchettino, oppure giravo i pantaloni con una macchina, tiravo i pantaloni fuori dai sacchi ed attaccavo i catellini nei pantaloni.

Ovviamente, qui lavora Maurizio, mio fratello maggiore, che mi accompagnava con la sua macchina; ho lavorato anche presso la Cooperativa «Verlata» e mi sono trovata bene.

Al primo novembre di quest’anno sono quattro anni che lavoro. Il mio compito è imbustare le camicie.

Ho la patente ed il sei luglio sono due anni che ce l’ho. La vita è tutto, non togliamola a nessuno!434

La storia narrata da Silvia ripercorre le fasi della sua formazione dove la scuola media ha prodotto qualche difficoltà nell’integrazione ma non le ha impedito di realizzarsi nel lavoro. Soprattutto dall’enunciazione categoriche delle ultime quattro frasi emerge l’autodeterminazione di questa ragazza di ventitrè anni, accompagnata in questo percorso dalla fiducia che i genitori hanno saputo dare a lei e ai servizi di inserimento lavorativo. A tale proposito Maria Rosa, la madre di Silvia, sottolinea l’importanza che il lavoro riveste per la figlia.

Avete sentito Silvia. Silvia è stata anche fortunata perché ha sempre trovato sostegno nella scuola, all’asilo, alle elementari, ha sempre avuto la maestra di sostegno. Lì è andata avanti sempre bene.

Poi, quando ha fatto il CFP abbiamo conosciuto il SIL435; ha lavorato presso la Cooperativa «Verlata», come avete sentito, e naturalmente adesso sta lavorando ed è contenta.

433 Centro di Formazione Professionale.

434 Dal Molin M.R., Bettale M.G. (a cura di), Pedagogia dei genitori…, op. cit., pp. 144-145. 435 Servizio Inserimento Lavorativo

Io mi ritengo fortunata perché ha trovato un lavoro che le piace, va volentieri, ha un bel carattere, davvero combattivo, non rinuncia mai a niente, forse sarà anche per la famiglia numerosa che le ha dato sempre l’aiuto per andare avanti.

Comunque siamo contenti, grazie anche al SIL con i suoi operatori – bisogna dirlo perché ne sentivo solo parlare da altre persone che avevano figli con problemi – e quando l’ho conosciuto ho capito che è una grande cosa. I suoi datori di lavoro sono contenti proprio grazie anche all’operatore del SIL436.

La madre riconosce a Silvia una grande caparbietà e volontà di animo che le ha permesso di trovare, grazie agli operatori, un lavoro che le piace. Il suo sguardo sulla figlia è in grado di vederla adulta e capace di provvedere a se stessa. La fiducia nelle capacità di Silvia è fortemente presente nello scritto di suo padre Pino:

Silvia è maturata quando è entrata al Centro Professionale, la scuola che maggiormente l’ha «scrollata»; non le ha dato solo nozioni scolastiche. Il Centro Professionale le ha dato nozioni di vita, perché veniva a casa e ci raccontava quello che succedeva. È stato un ambiente eccezionale.

Vi racconto un fatto (lo dico anche a voi, bisogna dare coraggio a questi ragazzi, bisogna dare fiducia!): Silvia dopo tanto tempo che lavorava gratis, perché ha fatto un tirocinio, si è inserita nel lavoro come «fissa».Quando, anche con la collaborazione del

SIL,è stata pronta per sostenere l’esame per la patente di guida, ha fatto gli esami di teoria ed è passata. Io l’accompagnavo sempre a Vicenza a fare le guide, perché bisognava andare a farle con la macchina speciale. Successivamente è andata all’esame di guida: «bocciata!».

Allora venendo a casa da Vicenza si era demoralizzata e diceva: «Quell’ingegnere lì non ha capito niente, io ho fatto giusto, ma l’ingegnere non ha capito niente!».

«Bene» ho pensato, e così senza tornare a casa, siamo andati alla Concessionaria ed abbiamo comprato la macchina nuova. Mi sono rivolto a Silvia dicendole: «Tu sei bocciata e io ti compro la macchina nuova!». Infatti, ho ordinato la macchina e li ha ricominciato ad andare a scuola. Le avevo dato fiducia!

Dopo è andata agli esami per altre due volte, sempre con lo stesso ingegnere, e la terza volta ha preso la patente!

Adesso è contenta: ha il suo lavoro, la sua patente, gira con la macchina come vuole437.

Da questi resoconti emerge anche il ruolo del Centro di Formazione Professionale che ha insegnato a Silvia non un semplice lavoro, ma al lavorare come un modo per rivestire un proprio ruolo. Dare fiducia è importante per aiutare i figli speciali a non rinunciare e a non demordere verso gli obiettivi prefissati. Talvolta nei resoconti dei genitori emerge la paura di lasciare “troppa” autonomia ai figli, preferendo un’autonomia più controllata ed agita negli spazi protetti della