Anche le istituzioni devono specializzarsi e differenziarsi per poter crescere, ma così facendo rischiano di perdere il senso di clan che avevano conquistato: gli stakeholder hanno il compito di organizzare gli eventi affinché tale principio non vada perduto. In tal modo, il pubblico considera artistico solo ciò che avviene in un contesto artistico; non vi è più arte a priori, ma è arte solo ciò che detiene i valori dettati da istituzioni predefinite.
Secondo il sociologo Howard Becker104 le opere d’arte vanno concepite come il
prodotto delle attività di cooperazione di più attori che stipulano convenzioni per determinare cosa può considerarsi parte del mondo dell’arte. E’ solo attraverso la comunicazione, però, che riescono a convincere gli esterni che il lavoro da loro prodotto è arte: il significato dell’evento, supera l’oggetto dell’esibizione per diventare un fenomeno di costruzione sociale.
Ciò che conta di più è l’idea, che diventa arte quando gli addetti ai lavori lo decidono e lo comunicano al pubblico; non esistono più canoni di bellezza o di armonia da rispettare, ma tutto può diventare arte a patto che venga riconosciuto tale. Com’è avvenuto per le avanguardie, l’arte contemporanea suscita un caos percettivo che fa perdere di vista l’oggetto, spogliato delle sue connotazioni funzionali ed inserito in un processo immaginario ed emblematico.
IL PUBBLICO ACCIDENTALE
Nell’agosto 2012, nel bel mezzo delle polemiche per una mostra populista al MOCA di Los Angeles, il direttore del museo Jeffrey Deitch descrisse un nuovo pubblico:
They’re not the people who make a living as artists, art critics or professional art collectors … These are people who hear about a great
103 E. DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa, Meltemi Editore, Roma, 2005, p.207 104 H. BECKER, Art as Collective Action, in American Sociological Review, Vol.39, No. 6, dicembre
new film they want to go to. They hear that there’s a terrific new fashion store that’s very cool — they want to go there. They don’t differentiate between these cultural forms.105
Questo pubblico condivide immagini e video concepiti come opere d’arte, senza però curarsi della loro paternità, contesto o proprietà. Oggigiorno le immagini prolificano e viaggiano a una velocità così grande che il pubblico si è abituato a imbattersi in oggetti artistici, non riconoscendoli però come tali.
Ci sono numerose spiegazioni per chiarire l’enorme interesse per l’arte contemporanea; tra queste, una delle più importanti, è il capitale sociale sul quale sempre più il mondo finanziario si focalizza, facendo dell’arte oggetto d’investimento.
Commentando l’articolo del New York Times del 2010 a proposito di Art Basel, la più prestigiosa fiera d’arte contemporanea, il collezionista americano Donald Rubell dichiarò senza apparente ironia “le persone ora realizzano che l’arte è una valuta internazionale.106” Il fatto che l’arte sia stata monetizzata come una valuta internazionale, ha avuto lo sfortunato effetto di ampliarne esponenzialmente la commercializzazione, ma d’altro canto ha conferito alle immagini una sorta di potere. Cosa ne è dell’arte quando il pubblico non la riconosce più come tale? Il fatto che il consumatore odierno non faccia distinzioni tra arti, beni culturali e beni di lusso è stato ampiamente analizzato dal sociologo francese Bourdieu. Lo studioso riconduce il gusto all’habitus di classe di ciascun individuo: l’estetica popolare subordina la forma alla funzione, giudicando le opere d’arte applicando gli stessi canoni che si applicano alla percezione ordinaria delle cose della vita.107Il sociologo francese non parla di un pubblico generale, ma preferisce
individuare pubblici socialmente differenziati in base alla loro fascia di appartenenza.
105 B. TROEMEL, The Accidental Audience, in The New Inquiry, 14 marzo 2013
106 C. VOGEL, The Buzz in Basel: Art, Alive, and Well and Selling Briskly, in New York Times, 18
giugno 2010
Il consumatore contemporaneo è, citando Richard Peterson, onnivoro in quanto valorizza la varietà in quanto tale e vuole fare esperienza della maggior quantità possibile di cose, per poter in tal modo entrare in un ampio numero di gruppi sociali e farsi riconoscere come persone competenti e con buon gusto.
Lo storico dell’arte David Joselit, nel suo libro After Art,108spiega la relazione tra il
pubblico accidentale e il contesto attraverso i concetti di “immagini fondamentaliste” e “immagini neoliberali”, termini che ha preso dall’analisi politica per descrivere due visioni concorrenti dove l’arte deve essere collocata per trovarne un significato.
Con immagini fondamentaliste, il significato dell’arte è indissolubilmente legato al suo ruolo d’origine attraverso il suo significato storico o religioso; lo spostamento di queste opere d’arte comporterebbe la perdita della sua aura. Per le immagini neoliberali, invece, l’arte è un prodotto culturale universale che è libero di viaggiare nei musei e nel mercato; il suo significato risiede nella capacità di interagire con il pubblico a prescindere dal luogo in cui si trovano. Questa seconda visione è principalmente allineata con il mondo di Art Basel e, più in generale, con la maggior parte dei musei occidentali.
Coloro che sostengono le immagini fondamentaliste vedono i diritti di proprietà attraverso la specificità culturale e geografica dell’oggetto artistico, mentre coloro che sostengono la posizione neoliberale, ritengono lo stato dell’arte come proprietà sia assicurato dalla possibilità di venderla o scambiarla come un qualsiasi altro oggetto di proprietà in una economia di mercato.
Secondo l’artista Brad Troemel, il pubblico accidentale ha un atteggiamento che si basa sulla visione neoliberale delle migrazioni culturali, bensì la sua volontà di spogliare le immagini del loro status di bene è così potente che si merita un termine proprio: immagini anarchiche. Mentre i sostenitori delle immagini fondamentaliste e neoliberali non sono d’accordo sul modo in cui l’arte diventa proprietà, coloro che credono nelle immagini anarchiche si comportano come se la proprietà intellettuale non fosse una vera e propria proprietà. L’immagine
anarchica, quindi, riflette l’indifferenza generazionale verso la proprietà intellettuale, considerandola come un costrutto burocraticamente regolato.109
Il rapporto del pubblico accidentale con l’arte e i suoi nuovi spazi è pieno di imbarazzo, presunzioni sbagliate. D'altronde cos’altro ci si poteva aspettare, dato che questo pubblico non sempre si rende conto di avere a che fare con l’arte? Joselit ben esprime lo spirito della produzione artistica contemporanea, descrivendolo come:
a broader shift in emphasis among contemporary artists from individual or discrete objects to the disruption or manipulation of populations of images through various methods of selecting and reframing existing content.110
In altre parole, gli artisti sono oggi meno interessati a creare un’opera da zero e più interessati a legare insieme una varietà di riferimenti e materiali preesistenti. Ecco perché gli oggetti d’arte oggi sembrano così familiari, imitando, o addirittura facendo proprie, le strategie pubblicitarie e i beni prodotti in serie. Il contesto rimane marginale, risultando il quid che separa l’arte dall’oggetto della sua appropriazione, anche se, in generale, l’arte rimane più distante dalle cose di ciò che l’artista vorrebbe credere. Negli scorsi decenni, la storia dell’arte ha sviluppato due differenti modelli per descrivere le connessioni che intercorrono tra pubblico e opere d’arte: il primo, basato sulla percezione, si focalizza sulla sensazione ottica come forma di conoscenza; il secondo, basato sulla psicologia, si preoccupa di come l’opera d’arte possa creare una sorta d’identificazione con lo spettatore. Entrambi gli approcci si basano sul bagaglio culturale dello spettatore, sulla sua esperienza e soggettività.
Rispetto ai prodotti “reali” del mondo, le opere d’arte spesso sembrano esistere anche in altri modi. Anche le persone che non hanno mai avuto un’educazione artistica, hanno acquisito una capacità di analisi visiva grazie all’assalto
109 B. TROEMEL, op.cit. 110 D.JOSELIT, op.cit., p.34
quotidiano d’immagini. Quelle immagini che sono nate come oggetti artistici ma che hanno poi raggiunto un livello di popolarità diffusa al di là del loro contesto originario, sono ora giudicate in base al vocabolario visivo acquisito tramite la pubblicità, diventando un’entità nello stesso momento familiare e altera. LA CIRCOLAZIONE DELLE IMMAGINI Le immagini dovrebbero correre libere nel mercato come fossero delle valute o questa libertà neoliberale dovrebbe essere temperata dal valore dell’identità culturale, che nella sua espressione più estrema è considerata fondamentalista? David Joselit ritiene ci siano tre paradigmi di circolazione culturale: gli oggetti migranti, quelli nativi e gli oggetti documentari, ciascuno dei quali possiede una propria relazione con il luogo d’origine.111
Il valore culturale degli oggetti migranti giace nel loro potere estetico e sono legalmente detenuti come dei beni; l’autorevolezza dei proprietari, siano essi galleristi, collezionisti facoltosi o musei, ne legittima la provenienza. Le informazioni possedute da tali oggetti, pertanto, sono più legati alla loro forma che al loro sito di origine. Gli oggetti nativi, naturalmente, appartengono a un luogo specifico. Il loro valore principale risiede nella loro specifica identità, seppur carichi di qualità estetiche. Gli oggetti nativi sono per definizione site‐specific: nel momento in cui dovessero venire spostati, perderebbero parte del loro senso. Infine, ci sono gli oggetti documentari, la quale relazione con il sito d’origine o di ritrovamento è stata attentamente studiata per ricavarne un’informazione o un valore documentario. Anche se questo tipo di oggetti fossero rimossi dal loro luogo d’origine e acquistati da una collezione distante, la conoscenza che vi deriva rimarrebbe parte del sapere popolare.
Il problema della circolazione dell’arte, che siano oggetti migranti, nativi o documentari, è intrinseco alla comprensione di cosa si intenda per site‐specific. E’ stato Walter Benjamin, formulando la più grande teoria del ventesimo secolo a
proposito della riproducibilità tecnica, che ha anche prodotto il modello di come l’arte appartenga a un luogo. Infatti, nel suo famoso saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, la dialettica tra nativo e neoliberale è già accennata. La sua pubblicazione risale agli anni Trenta, pertanto Benjamin non ha avuto a che fare con la rivoluzione delle immagini iniziata grazie alla televisione, internet, i palmari e telefoni cellulari.
Per valutare adeguatamente l’arte del nostro tempo, possiamo ricorrere alle parole di Benjamin in merito alla perdita dell’aura:
“Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trovava. Ma proprio su questa esistenza, e in null’altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo durare. [..] L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità. L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale alla sua virtù di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo vacilla anche la seconda, la virtù di testimonianza della cosa. Ciò che viene meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di “aura”; e si può dire che ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’”aura” di un’opera d’arte”.112 Come dice Benjamin, l’aura è frutto dell’essere site‐specific dell’oggetto artistico; il tempo e il luogo a cui l’opera appartiene possiedono autorità di testimone, che la riproducibilità mette a rischio. Eliminando le distanze nel tempo e nello spazio, le immagini divengono nomadi. Le immagini oggi non sono più site‐specific, ma frutto di una lotta estetica che le ha decontestualizzate per poi ricollocarle in network. In altre parole, le immagini passano oggi dall’essere testimoni della storia al costituirne il valore.
112 W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Piccola Biblioteca