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Il ruolo delle antropologhe nella disciplina antropologica

4.1 Antropologia del genere

4.1.2 Il ruolo delle antropologhe nella disciplina antropologica

L’antropologia, come la maggior parte delle scienze studiate, nasce dalla mente dell’uomo e si dirige allo studio dell’uomo. Riprendendo le parole di Lilton «l’antropologia, come scienza accademcia, è stata sviluppata principalmente da uomini bianchi occidentali durante un periodo specifico della storia. [...] Data la base culturale ed etnica della maggior parte degli antropologi, non è per nulla sorprendente che questa disciplina abbia preso una rotta sbieca» (Linton 1979:35)

Fu principalmente per la così scarsa partecipazione di studiose che la materia assunse uno sguardo androcentrico:

Nelle teorie sulla parentela e sul matrimonio risultava ovviamente impossibile, anche per gli antropologi, lasciare di lato le donne, però queste apparivano nelle loro etnografie invariabilmente come figlie, sorelle o spose di uno o vari uomini, come semplici oggetti di intercambio per le loro capacità riproduttive tra uomini. Questo sguardo androcentrico era condiviso dalla gran maggioranza degli antropologi, per lo meno fino agli anni ottanta. (Stolcke 1996: 1, trad. mia)

Secondo Verena Stolcke, inoltre, le prime donne che fanno ricerca in antropologia, sono cadute spesso in secondo piano rispetto ai colleghi uomini:

121 Nonostante il carattere innovativo, il rigore dei loro lavori e del loro successo professionale generale, durante decadi, queste opere passarono quasi inavvertite e ancora oggi non formano parte dell’eccelso gruppo di monografie classiche, per esempio, di un Evans-Pritchard, di un Malinowski, un Leach, un Griaule, lette e rilette da successive generazioni di studenti. (Stolcke 1996:3, trad. mia)

La figura dell’antropologa si sviluppa in sordina iniziando il suo percorso solo come assistente, allieva o moglie dell’antropologo uomo.

Un passo ulteriore lo farà l’antropologia femminista che nasce da una critica all’approccio degli antropologi uomini.

Fu il movimento femminista del dopoguerra che suscitò un nuovo fermento e una nuova sensibilità, soprattutto tra antropologhe, a causa della tradizionale negligenza della disciplina sul daffare specifico e sulla vita delle donne, dando origine all’antropologia del genere. Durante gli ultimi vent’anni, l’antropologia femminista si dedicò a sanare la visione distorta che l’antropologia classica offriva sulle circostanze ed esperienze delle donne mediante un’ampia gamma di studi etnografici in culture diverse. Questa nuova visibilità delle donne nella loro specificità, significò, inoltre, una sfida teorica, anche se alternativa, alle verità stabilite nella disciplina rispetto alle donne nella società e nella storia. (Stolcke 1996:2, trad. mia)

Tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, si sviluppa il filone dell’antropologia femminista all’interno del quale viene dibattuto il tema sull’universalità e l’inizio della subordinazione della donna rispetto all’uomo.

Attraverso un suo articolo, La mujer recolectora: sesgos machistas en antropología, Sally Lilton dimostra lo sguardo maschilista presente dietro diversi studi e teorie.

Due studiosi affermano che la differenza tra uomo e donna si mostrò già con l’uomo preistorico ed era dovuta ad una abilità che apparteneva solo al primo: la caccia. Questa teoria dell’uomo cacciatore, sviluppata da Washburn y Lancaster, presume che questa attività, praticata solamente dal maschio, implicava «cooperazione tra maschi, pianificazione, conoscenza di molte specie e di ampie aree ed abilità tecnica» (Linton 1979:39).

Linton segue spiegando questa teoria così:

Mentre gli uomini stavano fuori per cacciare, sviluppando tutte le loro abilità, apprendendo a cooperare, inventando il linguaggio, inventando l’arte, creando strumenti ed armi, le povere

122 donne dipendenti rimanevano sedute a casa partorendo un figlio dopo l’altro e aspettando che i

maschi portassero a casa il cibo. (Linton 1979:39-40, trad. mia)

L’antropologa afferma che questa visone sembra lasciar intendere che solo una parte della razza umana, il maschio, ha contribuito all’evoluzione della specie. L’autrice segue dicendo che, nei gruppi più evoluti, le donne e i bambini si occupavano della raccolta e della caccia di piccoli animali e che quindi, erano loro a provvedere a gran parte del cibo per la famiglia. Linton vuole dimostrare che non c’è motivo di considerare la caccia più importante di altri compiti per la sopravvivenza e soprattutto che la caccia fu la conseguenza e non la causa dell’evoluzione della specie.

In tutte le società del mondo l’uomo e la donna hanno ruoli e compiti diversi ma

è impressionante e sorprendente come le attività maschili, in contrapposizione a quelle femminili, si considerino molto più importanti, e come i sistemi culturali attribuiscano autorità e stima ai ruoli e alle attività degli uomini. (Linton 1979: 155, trad. mia).

In effetti è sconcertante come, analizzando il ruolo e le condizioni della donna in ogni cultura e società, questa sia in una posizione subordinata rispetto ad un uomo della stessa età e appartenenza sociale:

Sembra che, in relazione agli uomini della loro stessa età e status sociale, le donne, dappertutto, mancano di un’autorità universalmente riconosciuta e culturalmente stimata. (Rosaldo 1979: 153, trad. mia).

Anche in Europa, in cui la donna sicuramente gode di una libertà e indipendenza maggiore che in altri paesi del mondo, l’impronta della figura della donna come madre e domestica è ancora molto radicata. Se guardiamo le pubblicità dei prodotti per la casa o per i neonati, le testimonial sono sempre donne. Sappiamo inoltre che, a tutt’oggi, anche nel mondo del lavoro, per la donna si prospettano condizioni svantaggiose: per una donna giovane è più difficile trovare lavoro poiché solo la potenzialità di una gravidanza è un deterrente per l’assunzione in azienda.

Da un’altra parte, anche nelle società avanzate, e di ciò lo mostra buona parte delle cifre sulla natalità nel nostro paese, questa ambiguità continua latente: le madri, per esserlo, vedono ristrette le loro aspettative come cittadine e di conseguenza, al contrario, le donne lavoratrici, […] vedono ostacolate le loro possibilità di

123 essere madri, anche se, allo stesso tempo, assistiamo alla formazione e apparizione di famiglie capeggiate da donne che volontariamente hanno voluto essere madri. (Moncò 2009:358, trad. mia)

Come affermano anche Linton e Ortenr, questa posizione marginale della donna nel contesto pubblico, è spesso spiegata e giustificata con la maternità. In un suo articolo Ortner sviluppa una teoria secondo la quale, uno dei motivi della subordinazione della donna, è data dalla sua naturale caratteristica di procreare. La gestazione, il parto e l’allattamento, confinano la donna ad uno spazio privato e domestico escludendola di conseguenza dalle attività pubbliche e sociali diventate dominio dell’uomo.

Il corpo della donna sembra condannarla alla mera riproduzione della vita; il maschio, al contrario, scarseggiando di funzioni naturali creative, deve (o ha la possibilità di) affermare la sua creatività in modo esteriore, «artificialmente», attraverso il mezzo formato dalla tecnologia e i simboli.(Ortner 1979:117, trad. mia)

L’autrice spiega questa condizione con una proporzione: la donna sta all’uomo come la natura sta alla cultura. La donna quindi è più prossima alla natura mentre l’uomo lo è alla società.

La prole viene percepita, in diverse culture, come appartenente ad una sfera naturale o come individui non ancora socializzati (lo conferma il fatto che in alcune società non vengono celebrati i funerali per i bambini piccoli) (Ortner 1979). La madre, che è a stretto contatto con la progenie, svolge una funzione di mediazione tra “naturalità” dei figli e “culturalità” del compagno. Viene così ricondotta ad un ambiente naturale nel quale l’uomo non è contemplato.

Per tanto, è probabile che i bambini si categorizzino con la natura e la stretta associazione delle donne con i bambini può considerarsi concorde con la capacità potenziale di essere loro il soggetto più prossimo alla natura. (Ortner 1979:120, trad. mia)

Tuttavia, nonostante sia dunque la donna a formare e preparare la discendenza che, una volta cresciuta farà parte della società, il soggetto non si considera ancora del tutto formato e per questo compito finale e più delicato, dovrà intervenire l’uomo: «questo lo vediamo ancora una volta nelle nostre scuole, dove si produce una graduale inversione della proporzione di professori maschi e femmine andando a salire di livello: la maggior parte di

124 professori degli asili sono femmine; la maggior parte dei professori universitari sono maschi» (Ortenr 1979:122, trad. mia). L’autrice fa un ulteriore esempio in ambito culinario: nella maggior parte dei paesi del mondo, coloro che provvedono alla preparazione degli alimenti, sono le donne della famiglia però se guardiamo al livello più alto della professione di cuoco, molto spesso scopriamo che lo chef è uomo. Potrei continuare la lista suggerendo che nell’ambiente ospedaliero, fino a poco tempo fa, l’infermiere era considerato un lavoro femminile mentre era l’uomo che ricopriva le vesti del dottore. Il cucito è considerato fin da tempi antichi lavoro esclusivo della donna ed è rimasto tale fino ai nostri tempi, ma chi assume il ruolo più creativo e di maggior prestigio in questo campo è lo stilista che spesso è di sesso maschile.

L’autrice conclude che le ragioni di questo fatto sono le stesse per le quali la donna da troppo tempo è relegata alla sfera del privato e del domestico: la cura dei figli e della casa.

In questo modo il modello replica che, nel campo della socializzazione, le donne portano a termine le conversioni dalla natura alla cultura, però quando la cultura si differenzia ad un livello superiore delle stesse funzioni, questo livello superiore si restringe agli uomini. (Ortner 1979: 123, trad. mia)

È chiaro dunque che anche la maternità, come il genere, è un fatto culturalmente costruito che aimè, va a discapito della donna.

Indipendentemente dalla sua forma o dal suo tipo, [...] sosteniamo qui che la maternità è una costruzione culturale la cui base fonda le sue radici su di un fatto biologico, generale e universalizzabile per tutti gli esseri imani. [...]. È chiaro ugualmente che tali rappresentazioni diseguali e gerarchizzate sono, come già si è detto, costruzioni sociali, assegnazioni immaginarie relative a tempi e spazi concreti. [...] Bisogna considerare che in molteplici occasioni, fenomeni che dall’antropologia sociale si analizzano come una costruzione culturale, sono visti e interpretati in un altro modo da parte degli attori sociali, un fatto che sembra confermare, di per se, il successo che hanno alcuni modelli culturali nel loro processo di naturalizzazione sociale. Non vi è nulla di più facile che naturalizzare, come dicevamo, ciò che ha una base biologica. (Moncó 2009:359-360, trad. mia)

Anche in un’altra fonte trovo la teoria secondo la quale la condizione di subordinazione della donna sia “giustificata” dal fatto di essere gestante:

125 …la riproduzione umana e la fecondità femminile sono spesso invocate in etnologia quando si cerca di spiegare, incluso di giustificare, lo stato di subordinazione delle donne, la disuguaglianza tra i sessi. La maniera in cui si utilizza la fecondità e la riproduzione è allo stesso tempo semplice e significativa: in ultima analisi la posizione subordinata delle donne sarebbe dovuta “alle limitazioni biologiche naturali” che pesano sopra di lei, come dire, al suo “ruolo” nella procreazione. (Tabet 1985 in Richardson 1995:187, trad. mia)