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Una definizione di genere

4.1 Antropologia del genere

4.1.1 Una definizione di genere

Nel dizionario di antropologia alla voce ‘genere’ si legge:

In Antropologia il termine viene introdotto da Rubin19 (1975) e si riferisce alla divisione tra i sessi

socialmente costituita (Piccone Stella e Saraceno 1996). (Fabietti Remotti 2007:326)

Già il fatto che sia stato definito un termine per distinguere i sessi sociali ci deve far riflettere:

Un primo aspetto riguarda le proprietà del concetto, la realtà cui esso allude.

Il genere è un modo di classificare, di indicare l’esistenza di tipi. In particolare il genere propone un nome per il modo sessuato con il quale gli esseri umani si presentano e sono percepiti nel mondo: nella società convivono due sessi e il termine «genere» segnala questa duplice presenza. (Piccone Stella e Saraceno 1996:8)

All’interno dello stesso testo trovo esaurienti le parole di Linda Nicholson:

Il termine genere è stato sempre più usato per indicare qualsiasi costruzione sociale relativa alla distinzione maschio/femmina, comprese quelle costruzioni che separano il corpo «femminile» dal corpo «maschile». Lo si cominciò ad usare in quest’ultimo senso quando si iniziò a capire che la società,

non solo forma la personalità ed il comportamento, ma influenza anche il modo di vedere il corpo.20

(Nicholson 1996:41, corsivo mio)

E Giddens spiega:

Mentre il sesso si riferisce alle differenze del corpo, il genere allude alle differenze psicologiche, sociali e culturali tra uomini e donne. La differenza tra sesso e genere è fondamentale poiché molte differenze tra uomini e donne non sono biologiche in origine.(Giddens 1991:191)

19 Gayle Rubin (1949) è un’antropologa statunitense dedicata allo studio di genere e sessualità. 20 Ibidem, p. 41

117 Il genere è una costruzione sociale e di conseguenza lo è diventato il modo di abbigliarsi, di parlare, la gestualità, i ruoli nella famiglia e nella società. Vi è un habitus per le femmine e uno per i maschi.

Un esempio molto emblematico di come questa tendenza venga inculcata ai bambini ancora in fasce ce lo fornisce Giddens che riporta un episodio ambientato in un ospedale:

Nelle culle del reparto maternità di un ospedale ci sono due neonati.

Uno, un bambino, è avvolto in una coperta azzurra; l’altro, una bambina, in una coperta roas. Sono nati da poche ore e ricevono la prima visita dei nonni. Il dialogo tra una delle due coppie di nonni si svolge come segue:

Nonna A: Eccolo là – il nostro primo nipote, è un maschio!

Nonno A: Caspita, è robusto, no? Guarda come stringe il pugno. Diventerà un vero combattente, te lo dico io. (il nonno sorride e mima un colpo di boxe all’indirizzo del nipote) In guardia!

Nonna A: Io dico che ti somiglia. Ha il mento forte come il tuo. Oh, guarda, comincia a piangere. Nonno A: Si, e senti che polmoni. Diventerà un ragazzone. [...]

Nonna A: Andiamo a fare le congratulazioni ai genitori. Lo so che sono entusiasti del loro piccolo Fred. Come primo figlio volevano proprio un maschio.

Nonno A: Sì, ed erano anche sicuri che lo avrebbero avuto, con tutti i calci e i colpi che tirava ancora prima di venire al mondo.

Quando i due si allontanano per andare a congratularsi con i genitori, arrivano i nonni della bambina. Ecco come si sviluppa il dialogo tra loro:

Nonna B: eccola là... l’unica con il fiocco rosa. È proprio carina, no?

Nonno B: Si, è davvero piccina. Guarda che dita minuscole. Vedi, sta cercando di fare il pugno. Nonna B: com’è dolce... sai, io dico che mi somiglia un po’. […] Oh, guarda, sta cominciando a piangere.

Nonno B: forse dovremmo chiamare l’infermiera perché la prenda in braccio, magari la cambi o qualcosa del genere.

Nonna B: Si, forse è meglio. Povera piccina.(Alla bambina) Buona, buona, che vogliamo aiutarti.

Nonno B: cerchiamo l’infermiera. Non mi piace vederla piangere. […]

Nonna B: non credo comunque che siano rimasti sorpresi di avere una femmina… il pancione della madre era tutto spostato in basso.

(Walum1977:36)

Il contrasto tra queste due conversazioni suona così esagerato da far pensare che siano inventate. In realtà esse sono la trascrizione di dialoghi effettivamente registrati in un reparto maternità. (Giddens 1991: 189- 190)

118 Nella società in cui viviamo siamo abituati fin da piccoli a comportarci secondo delle norme preimposte e diversificate a seconda del sesso biologico. Questo atteggiamento è cosi fortemente radicato nella storia che ha finito per convincerci che veramente le donne pensano, sentono, agiscono in un modo diverso rispetto agli uomini per cause “naturali” e biologiche.

Trattando del tema con Nely, lei stessa mi racconta un esempio molto simile a quello appena visto:

Culturalemnte, en una de las clases que tomé, culturalmente, en todas las culturas, independientemente de religión, lenguaje, situación económica y tal, tu pone dos ejemplos: dos niños de dos años, ¿vale? Van corriendo. Se cae el niño y empieza a llorar. ¿Que le dicen los padres? “Levantate, no pasa nada, eres un hombre, eres un hombrecito, ¡anda¡ los hombres no lloran”. Se cae la niña, se raspa, que pasa? “Hay cariño, ¿que pasa? ¿Estas bien? Hay pobrecita, no. Hay que tener más cuidado, pero no te preocupes que ahora te ayudamos y lo curamos, y para que te sientas mejor, vamos a comprar un caramelo.” Eso lo vees desde siempre, desde que son pequeñitos. Desde que nacen el lenguaje, es... tu vas a ver dos bebés: a uno niño dices “hay, que guapo, que fuerte, que bien se vee”, a la niña “Hay, que mona, que tierna. Hay que fragil”. Desde siempre. Así que, desafortunadamente, crecemos con esas etiquetas. (Nely)

Anche per Nely dunque, le differenze tra maschile e femminile si costruiscono intorno all’opposizione tra forza e indipendenza da un lato, e debolezza e dipendenza dall’altro. La relazione univoca tra sesso e genere – che a noi tende ad apparire scontata – viene in alcuni casi esplicitamente problematizzata. A questo proposito, un famoso esempio, frequentemente riportato nella disciplina antropologica, è quello della società inuit. In questi gruppi, al nuovo nato viene assegnato il nome dell’antenato secondo dei criteri diretti dallo sciamano ma senza tener conto del sesso del nascituro. Avviene così che, in certe occasioni, una femmina cresca apprendendo i comportamenti attribuiti al sesso maschile (e viceversa) perché viene considerata maschio dalla famiglia e dalla società. Solo nell’età puberale, questa, apprenderà di dover assolvere dei compiti, come la riproduzione e la maternità, fino a poco prima lontani e sconosciuti. Dovrà quindi reinterpretare i propri comportamenti che erano da sempre appartenuti all’opposta sfera sessuale.

Gli Inuit sfidano il credo riguardo all’immutabilità e permanenza dei “tipi” sessuali e rendono assai meno certe le convinzioni riguardo ad una femminilità e maschilità come “dati”. […] la piccola inuit – che in termini inuit dovremmo chiamare «l’essere umano con un sesso femminile» - può essere, come di fatto è,

119 uomo. A lei/lui (o forse lui/lei) viene insegnato tutto ciò che è adeguato alla sua identità maschile e tutti si comportano con lei/lui come si conviene nei riguardi di un uomo. Femminilità e maschilità diventano allora caratteristiche apprese – non si tratta di caratteri innati, e tantomeno di sessi come “cose” del mondo (il mare, gli alberi). […] Ciò che fanno gli Inuit è di educare i nuovi nati secondo il “genere” […] e di far loro cambiare genere alla pubertà se sesso e genere non concordano. (Busoni 2002: 21-22)

Ciò dimostra che il nostro comportamento non dipende dal sesso, ma da come veniamo cresciuti all’interno della società in cui viviamo.

Un altro caso famoso è quello studiato da Margaret Mead in Nuova Guinea che ha dato alla luce la monografia Sesso e temperamento in tre società primitive.

L’antropologa sviluppa il suo lavoro di campo all’interno di tre società diverse e geograficamente vicine tra loro: gli Arapesh, i Mundugumor e gli Ciambuli. Nota che, in ciascuna di esse, i comportamenti di genere sono distinti. Nel primo gruppo, Mead, individua un comportamento per entrambi sessi pacifico, passivo e molto affettuoso verso i figli, che viene associato ad un’indole femminile. Nei Mundugumor, invece, entrambi i sessi hanno atteggiamenti aggressivi e duri, sia nell’atto sessuale che in relazione a i figli. Vige un clima di costante tensione e diffidenza nei confronti del prossimo. L’uomo scongiura la nascita di nuovi figli perché li percepisce come potenziali rivali sessuali. La donna di riflesso «associa la gravidanza alla privazione di rapporti sessuali, quindi al rancore e al ripudio da parte del marito e rimane sotto il timore continuo che questi si prenda un’altra moglie e la diserti del tutto, almeno temporaneamente. […] è dunque alla madre, più ancora che al padre, che il nascituro finisce per essere poco gradito.» (Mead 1967: 209). Anche l’allattamento non è vissuto come un momento gradevole per la donna, la quale fa in modo che duri il minor tempo possibile, cercando inoltre di limitare il contatto col bambino. Mead definisce questa indole con un atteggiamento più vicino alla mascolinità (sempre secondo i criteri di genere occidentali). L’ultimo gruppo studiato, i Ciambuli, risponde ad un ulteriore schema. È presente una più netta distinzione tra i due ruoli di genere che paiono però invertiti secondo la nostra visione: sono le donne che hanno il controllo delle attività commerciali e artigianali. Si occupano inoltre della pesca come principale fonte alimentare di sostentamento alla famiglia ed hanno un forte potere decisionale. Gli uomini invece si dedicano ad attività artistiche e rituali, curando molto il loro aspetto fisico ed hanno un temperamento più mite.

120 L’antropologa quindi, dimostra che il temperamento e il comportamento di maschi e femmine non è dovuto dalla biologia sessuale, ma dal contesto sociale in cui si nasce e cresce. Nella parte conclusiva della sua monografia conclude:

Queste tre situazioni diverse e contrastanti suggeriscono una conclusione molto precisa. Se quegli elementi di temperamento che noi, per tradizione, consideriamo femminili, […] possono tanto facilmente, in una tribù, entrare a far parte del carattere maschile e in un’altra tribù essere invece esclusi sia dal carattere maschile sia da quello femminile, almeno per quanto riguarda la maggioranza degli uomini e delle donne, viene a mancarci ogni fondamento per giudicarli legati al sesso. Conclusione, questa, rafforzata da ciò che abbiamo constatato fra i Ciambuli, dove c’è un vero e proprio rovesciamento della posizione di predominio dei due sessi, nonostante vi esistano istituti formalmente patrilineari.

Le osservazioni da noi raccolte fanno pensare che molti dei tratti cosiddetti maschili e femminili, se non tutti, non sono legati al sesso più di quanto lo siano il modo di vestire, le maniere, l’acconciatura del capo, che una società assegna a questo o a quel sesso in un momento qualsiasi della sua storia. (Mead 1967: 296)