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Nel Mezzogiorno, fin dagli anni '60, si è strutturata una sovrapposizione tra rapporti clientelari ed assegnazione di benefici di welfare. Il welfare si è trasformato, almeno in parte, in un risorsa particolaristica. Una quantità di intermediari (politici e non), dalla loro posizione privilegiata ed attraverso una distribuzione discriminatoria di favori, hanno controllato l’accesso alle pensioni, ai sussidi, finanche ai servizi. Particolari politiche di welfare, ripiegate in senso particolaristico, hanno rappresentato l’occasione di definire un sistema clientelare come pratica sociale condivisa e legittimata, almeno in parte, anche sul piano politico-istituzionale. Eppure, le utilizzazioni clientelari del welfare si sono definite come qualcosa di ancora diverso della mera occasione di amministrare risorse. La possibilità di gestire prestazioni pensate in forma assistenzialistica e sussidiante distribuendole a beneficio di una generalità di destinatari ha rappresentato, difatti, un’occasione di rifunzionalizzazione e ricomposizione specifica delle relazioni di clientela strutturatesi alla nascita dello stato democratico (Fantozzi, 1993).

61 L’utilizzazione impropria delle prestazioni di welfare può essere vista come una nuova ‘fase’ della storia dei legami clientelari: quella in cui manipolazione ‘dall’alto e dal basso’21 si saldarono (Costabile, 2009). Nel

corso degli anni ‘70, la riorganizzazione della divisione territoriale del potere, cioè la nascita delle Regioni, richiese un adeguamento parziale delle logiche sottostanti ai rapporti politici ed economici centro-periferia. Il progressivo superamento del monopolio elettorale del partito della Democrazia Cristiana e della sua capacità pressoché esclusiva di presidiare ruoli, apparati e risorse strategiche (dai primi governi di centro sinistra fino alla stagione del consociativismo) indusse un clima competitivo tra le forze politiche e una maggiore spregiudicatezza nel distribuire le risorse in cambio di consenso. Difatti, pur aumentando il numero degli attori in gioco, non si definì un mutamento qualitativo dei rapporti tra partiti- società civile- istituzioni. L’insieme di questi fattori condusse ad una rottura parziale dei sistemi di clientela politica, frattura ricomposta, almeno in parte, massificando l’uso dello stato sociale a fini particolaristici anziché secondo le sue originarie logiche di tipo universalistico. Si definì cioè un processo di ampliamento dell’accesso alle risorse dello scambio clientelare che apparve in grado di tamponare, attraverso una attività di distribuzione di massa di benefici assistenziali, la perdita di capacità di regolazione sofferta dal sistema politico-clientelare. Allargando la platea dei beneficiari in una sorta di democratizzazione alegale22 di benefici destinati a categorie specifiche, lo scambio clientelare

fu reso meno selettivo (Fantozzi, 1993).

La pratica di utilizzare le prestazioni previdenziali ed assistenziali al fine di raggiungere obiettivi di scambio politico-elettorale, aveva assunto,

21 Una manipolazione che procede “dal potere e dal bisogno e per questo assume caratteri

pervasivi (…) definendosi da parte di ceti e classi superiori per la costruzione e riproduzione del loro potere politico ed economico e da parte dei ceti inferiori per fini di benessere minimo” (Costabile, 2009: 34-35).

22 Emanuele Sgroi (1996) definisce l’‘alegalità’ come l’agire mantenendo solo formalmente il

riferimento al sistema di norme che disciplina gli spazi entro i quali realizzare un interesse; dunque, agire eludendo sostanzialmente lo ‘spirito’ delle legge, per raggiungere i propri obbiettivi.

62 nel Mezzogiorno degli anni ‘60 e ‘70 (e oltre), una dimensione sistemica. La manipolazione di massa delle politiche di welfare appariva come una pratica sociale condivisa, tanto da delineare un intreccio inestricabile tra politiche di sviluppo, welfarizzazione e scambio clientelare. In questo modo, le risorse di welfare si sono caratterizzate come fonte privilegiata ai fini dell’acquisizione del potere e come oggetto di una manipolazione delle regole, così tollerata, da configurarsi alla stregua di una sussidiazione mascherata. È così nata una forma di welfarizzazione clientelare. In particolare, come si discuterà approfonditamente in seguito, alcune risorse di previdenza sociale hanno rappresentato una preziosa fonte di risorse da utilizzare come merce di scambio all’interno di relazioni clientelari-politico-elettorali. Questo intreccio tra vecchie clientele, politiche di welfare e domanda di lavoro ha reso possibile costruire un quadro di relativa stabilità sociale in assenza di sviluppo autonomo. Addirittura, il miglioramento delle condizioni di vita e di consumo, soprattutto nelle aree interne o agricole, può riconnettersi alla costruzione di una specifica forma economica, l'economia dell'assistenza e del sussidio e alla costruzione di una particolare figura sociale, quella del

‘welfare client’ (Pugliese,1984; Fantozzi,1993;). Alcune politiche di

welfare, in particolar modo certe prestazioni di previdenza sociale agricola ed alcune tipologie di indennità di invalidità, hanno rappresentato l'occasione di definire un sistema di distribuzione clientelare strutturato, la cui esistenza ha avuto un significato complessivo, in termini di utilità (economiche e politiche), per l’Italia intera oltre che per il Mezzogiorno. Un equilibrio economico nazionale distorto e paradossale (e di fatti instabile) basato su un peculiare connubio di dinamismo locale e ‘disordine pubblico’ e su una sorta di ‘Keynesismo perverso’ (Trigilia, 1992, 2011). Tendenzialmente, tutti i governi succedutisi nel corso della cosiddetta prima repubblica attuarono una “politica della spesa pubblica priva di controllo alla ricerca del consenso” (Trigilia, 2012: 33). Tutto ciò ha prodotto, tra le altre cose: “un ampliamento delle tutele di welfare

63 attuato senza intaccare i privilegi e gli sbilanciamenti che avevano costituito il fulcro del consenso negli anni precedenti” (ibidem); la crescita smodata dell'impiego pubblico e degli impieghi non produttivi; la sbilanciata protezione accordata a gruppi professionali e industriali specifici. In questo ‘sistema Italia’ che si resse in piedi, pur con tutte le sue distorsioni, fino ai primi anni ‘90 c’era un “posto per il Sud”23: bacino di

consumi ed elettorale di vitale importanza al punto che i costi delle politiche distributive ed assistenzialistiche per il Sud sono stati una componente importante del dinamismo economico italiano di quegli anni. Il sistema di utilizzazioni clientelari delle prestazioni di welfare previdenziali ed assistenziali è stato chiaramente funzionale anche dal punto di vista politico. Il welfare fu, in questo senso, un’occasione di cui si è servita sia la politica meridionale che la politica nazionale. Questa allocazione di risorse senza né vincoli né controlli era cioè utile sia al governo centrale che alla classe politica locale, che basava parte del proprio consenso sulle capacità di mediazione clientelare delle risorse, anche di quelle di welfare. Un sistema di gestione e stabilizzazione del consenso con un ritorno in termini di aumento dei consumi, “una macchina elettorale a suo modo efficace anche se non proprio efficiente, con un costo altissimo in termini di corretto gioco della rappresentanza politica” (Borgomeo, 2013: 28). Il diffuso orientamento alla personalizzazione dei ruoli politico- amministrativi e del comportamento

23 Come illustra Carlo Trigilia (2012), gli anni ‘70 furono gli anni della crisi delle grandi imprese

ma anche parallelamente della crescita e dell'acquisizione di visibilità del modello della cosiddetta terza Italia, quello della piccola media impresa e dei distretti industriali. Le dinamiche di sviluppo del settore secondario consentirono ai governi di procrastinare la necessità, di fatto impellente, di mettere ordine nei conti pubblici. Pur essendosi definita una svolta chiaramente assistenziale degli aiuti al Mezzogiorno, soprattutto dalla metà degli anni ‘70 in poi, fallita la politica dei poli di sviluppo, fino ai primi anni ’90, fu proprio questa attività di redistribuzione assistenziale, i cui costi vennero scaricati sul debito pubblico, che consentì di innalzare i consumi del Sud ampliando il mercato di sbocco per prodotti del Nord. In presenza di un carico fiscale relativamente basso e della possibilità di sostenere le esportazioni attraverso la svalutazione della lira, questo equilibrio (distorto) sembrava potersi mantenere.

È nel corso degli anni ‘90 che cambiarono le condizioni di contesto politico ed economico internazionale e nazionale, che mutarono le logiche endogene ed esogene che avevano consentito questi grandi sforzi allocativi e che, conseguentemente si mostrò l’insostenibilità dei ‘vecchi’ equilibri.

64 elettorale è stato ‘aggravato’ dal fatto che le aspettative di scambio politico elettorale sono state soddisfatte sotto forma di accesso clientelare, individualistico ed asimmetrico alle risorse ed opportunità pubbliche. Conseguentemente, la classe politica non è stata “selezionata e valutata sulla base della sua capacità di risposta a bisogni collettivi, ma sulla base della sua capacità di moltiplicare e massimizzare benefici distribuiti selettivamente” (Trigilia, 2012: 102). La principale fonte di riproduzione del potere posizionale associato alle cariche elettive e non è, di conseguenza, divenuta l’abilità nell’insediarsi nei gangli delle amministrazioni periferiche dello stato e degli enti depositari delle politiche di welfare. Anche le organizzazioni di rappresentanza hanno finito col modificare la propria funzione sociale riducendo la loro capacità di aggregazione delle domande sociali a favore di istanze personali e di piccoli gruppi. Pertanto si è affermata una strategia di politica economica basata, in larga parte, su un intervento dei poteri pubblici scarsamente volto a stimolare un’autonoma produzione di ricchezza nei territori meridionali. Un paradigma di sviluppo che, in quanto fondato sulla redistribuzione della ricchezza prodotta in massima parte altrove, è stato volto alla produzione e riproduzione della dipendenza e dell’emergenza (Costabile, 2009).  Il connubio tra politica, economia, clientelismo e welfare ha così condotto a forme di sviluppo senza autonomia24 (Trigilia,

1992). Il conseguente deficit economico, l’inefficienza dei servizi e la dipendenza della politica hanno rese necessarie, come in un circolo vizioso, sempre nuove mediazioni clientelari al fine di soddisfare vecchi e nuovi bisogni. Le classi dirigenti meridionali hanno “costruito, alimentato, riprodotto, aggiornato, questo sistema di utilizzazione delle risorse difendendolo abilmente attraverso alleanze con le classi dirigenti nazionali e costruendo una rete di benefici che ha coinvolto le classi

24 La nozione di “sviluppo senza autonomia” è proposta da Trigilia (1992) nel tentativo di

descrivere il possibile innalzamento dei redditi e dunque dei livelli di consumo, in assenza di ricchezza, intesa come comando dei residenti in un territorio sulle risorse economiche e di sviluppo, inteso come capacità di generare reddito in maniera autonoma e produttiva.

65 inferiori”(Costabile, 2009: 22). In questo modo, non solo sono apparse alterate le dinamiche del consenso e dell’accountability verticale ma anche quelle della riproduzione della classe amministrativa ed imprenditoriale. Sembra perciò di poter sostenere che questo sistema socio-politico è innanzitutto il frutto dei comportamenti strategici delle élite e delle classi dirigenti che hanno innescato un circolo vizioso di offerta particolaristica- consenso clientelare- ridotto sviluppo- inefficienza delle istituzioni e dei servizi e nuova richiesta particolaristica (Brancaccio, 2013).