Romeo Orlandi
Prima della crisi: un mercato incompiuto
Carpire una porzione significativa dello sviluppo economico cinese è sta-ta all’inizio la difficoltà e l’ambizione maggiore delle aziende ista-taliane. No-nostante un numero crescente di imprese abbia esportato o investito in Cina, nonostante i flussi commerciali siano stati in regolare aumento, è prevalsa tra gli imprenditori una generale insoddisfazione sull’andamen-to degli affari, come se la Cina non avesse mantenusull’andamen-to le promesse. Se ne è ricavata la percezione di un Paese e di un mercato che continuano a crescere senza tuttavia riservare ai partner stranieri la redditività sperata, sia in relazione alle attese economiche, sia alle assicurazioni fornite dal-le controparti istituzionali. Lo scarto tra dal-le ambizioni e i risultati è sta-to grande, perché l’apertura del Paese al business internazionale lascia-va presagire una rapida omologazione alle procedure internazionalmente accettate. Invece, la Cina sembra abbia tratto per sé la porzione di gran lunga più significativa dell’aumento della sua ricchezza, lasciando spesso delusi coloro che auspicavano una win win situation.
Il fenomeno non ha investito solamente l’Italia. Ha assunto tuttavia un peso maggiore per il nostro Paese perché la prevalente struttura societa-ria – che vede una diffusissima presenza delle piccole e medie aziende – amplifica le difficoltà operative. Si è fortemente avvertita la consapevolez-za che la Cina sia un titano della scena economica mondiale. Si è diffusa altresì la convinzione che le prospettive di maggiore crescita risiedano in Cina, attribuendo addirittura a quest’ultima il ruolo di locomotiva dell’e-conomia mondiale. Ma le difficoltà dell’approccio sono state superiori alle opportunità offerte e il disorientamento è sconfinato spesso nella di-sillusione: non sono poche le aziende italiane che, pur malvolentieri, han-no rimandato il loro impeghan-no verso la Cina, dopo una prima esperienza non soddisfacente.
Le cause di questa situazione sono molteplici e investono sfere più complesse: l’ideologia, la cultura, la politica, il costume. Da un punto di vista economico è possibile rintracciarne la genesi nei due versanti coin-volti, italiano e cinese.
In Italia, sin dall’apertura denghista del 1978, c’è stata una sopravva-lutazione del mercato cinese. Con un’operazione superficiale, si è fatto coincidere il Paese più popoloso con il mercato più vasto, confondendo gli abitanti con i consumatori. La speranza di una rapida apertura del gi-gante asiatico ai flussi del commercio internazionale si è rivelata miope, perché nata da una disinvolta analisi che assegnava alla Cina una ricetti-vità che il Paese non poteva e non voleva avere. In realtà, l’integrazione nello scacchiere economico si è connotata fin dall’inizio come un’ope-razione nella quale il timone era saldamente in mani cinesi. Il governo – ispirato da un forte dirigismo di stampo sia confuciano che leninista – ha fatto proprie le necessità dello sviluppo per dare alla Cina quel ruolo di potenza che aveva perso negli ultimi secoli. L’apertura all’estero è stata strumentale a queste decisioni. Una svolta epocale come quella intrapresa non aveva alternative a un rigido controllo interno, nei limiti ovviamente di un’operazione che portava il Paese nell’agone internazionale e che lo rendeva dunque relativamente meno stabile.
La Cina ha fissato dunque le proprie priorità. Conseguentemente ha scelto i settori da sviluppare o da trascurare, i partner stranieri da blandi-re o da eliminablandi-re. L’apertura del mercato – la sua trasformazione da po-tenziale a reale – ha paradossalmente seguito regole “non di mercato”, ma fortemente dirigiste, che spesso hanno deluso gli operatori stranieri. Inoltre, la nascente classe media non ha avuto aggregazioni sociali, fru-strando le aspettative che le assegnavano un ruolo trainante. Questa si-tuazione va ora evolvendosi, anche velocemente, ma è prevalsa per molti anni. È emerso un nuovo ceto sociale, proiettandosi verso più alti livelli di consumo e tendendo a diversificarsi dalla passata omologazione, ricer-cando prodotti di qualità e status symbol. La popolazione affrancata da un’economia di sostentamento e capace di acquistare beni prodotti in se-rie è cresciuta con ritmi sconosciuti altrove alla storia economica recen-te. Si tratta di un’utenza impressionante, entrata con forza nel circuito di una moderna società industriale. I consumatori abbienti, i “nuovi ricchi” che possono acquistare a prezzi tipicamente occidentali, nonostante la
tumultuosità della crescita, non hanno costituito un tessuto commercia-le strutturato e compiuto, coerente con commercia-le dimensioni. Il mercato, oltre al reddito, ha bisogno di un più sofisticato approccio ai servizi, alla finanza, al marketing e alla comunicazione. Questi comparti non hanno avuto uno sviluppo in linea con quello del reddito nazionale, il cui pilastro è stato il ciclo ininterrotto investimenti-produzione-risparmi-export-acquisizione di valuta-investimenti.
La Cina ha presentato difficoltà oggettive per gli operatori economici italiani. L’aumento della ricchezza non ha sviluppato una rete distributi-va adeguata, un sistema di sanzioni certo, un’affidabilità nelle risoluzioni delle dispute commerciali. I governanti cinesi insistono nell’applicazione del rule of law perché avvertono che l’autorità della legge lascia spesso la precedenza a regole che non appartengono a quelle del consesso eco-nomico internazionale. Se aperta ai servizi e alla mentalità occidentali, la Cina avrebbe fatto cadere molte delle barriere invisibili che l’hanno mes-sa al sicuro da metodi di lavoro più efficienti e dunque pericolosi per un sistema arretrato.
La necessità di una veloce industrializzazione ha inoltre privilegiato la costituzione di joint venture con aziende multinazionali. Spinte da accor-di intergovernativi, queste ultime sono state il referente quasi esclusivo per la Cina. L’identificazione delle joint venture con grandi partner stra-nieri è stata automatica, rafforzata dallo spirito emulativo tra le province. Le aziende italiane sono state penalizzate da questo approccio, perché le loro dimensioni non hanno consentito di competere pur se erano porta-trici di tecnologie all’avanguardia.
Esiste in aggiunta, in Cina, un forte aspetto culturale che conforma le transazioni economiche. Più degli altri Paesi, l’Italia ha sofferto di una diffusa pratica imitativa. L’indubbio fascino del made in Italy ha stimola-to sia la copia che la contraffazione. Tutstimola-to ciò è avvenustimola-to certamente in violazione delle norme internazionali ma anche grazie a una concezione meno rigida del copyright, che affonda le radici in valori artistici da tem-po presenti nella mentalità dominante. Infine, l’affermarsi di marchi na-zionali nel settore dei beni di consumo ha favorito l’acquisto di prodot-ti cinesi, a scapito di quelli italiani. Recenprodot-ti indagini hanno dimostrato, contrariamente a una percezione largamente diffusa nell’occidente, che la maggioranza dei consumatori cinesi, anche se abbienti, preferiscono
l’acquisto di prodotti autarchici, e si rivolgono a quelli stranieri soltanto quando percepiscono in essi qualità esclusive.
Recentemente queste connotazioni, pur permanendo, hanno ridotto il loro impatto. Il governo ha intrapreso una politica determinata a conso-lidare lo sviluppo, a offrire un’immagine più rassicurante del Paese attra-verso l’adozione di standard internazionali. Il volto della Cina moderna, amichevole, affidabile ha trovato nelle Olimpiadi di Pechino del 2008 l’e-sempio più conosciuto, duplicato nella World expo di Shanghai del 2010.
Nella crisi: commercio e investimenti
Secondo una valutazione sintetica ma efficace, i rapporti economici tra Italia e Cina sono generalmente considerati soddisfacenti per gli scambi commerciali e insufficienti sul versante degli investimenti. È un’opinione diffusa tra gli analisti e suffragata dalle rilevazioni. Essa tuttavia divide ri-gidamente i due aspetti – commercio e investimenti – e stenta a coglierne i forti legami sinergici.
L’interscambio tra Italia e Cina è stato in linea con gli altri Paesi eu-ropei. Alle spalle dell’inarrivabile Germania, l’Italia ha conteso le prime posizioni a Gran Bretagna, Francia e Olanda. Si tratta comunque di va-lori ancora relativamente ridotti, dato che la Cina, con l’eccezione della Germania, trova tradizionalmente nell’Asia Orientale e negli Stati Uniti i partner commerciali più validi. Nel 2013 l’Italia ha occupato tra i Paesi fornitori la 27a posizione, secondo le China Customs Statistics. Per anni è stata al secondo posto nell’Unione Europea, perdendo e recuperando in concorrenza con la Francia ed il Regno Unito che ora la precedono net-tamente in graduatoria. La posizione non è soddisfacente e la dinamica delle esportazioni è ancor più preoccupante. Nonostante incrementi co-stanti in valore assoluto, con l’eccezione del 2009 e del 2012, l’Italia ha perso quote di mercato perché le importazioni dal mondo sono cresciute con tassi ancora più alti. Si conferma dunque che il nostro Paese non rie-sce a tenere il passo dell’import globale: la quota italiana sul totale è rie- sce-sa dall’1,6% del 1999 allo 0,9% del 2013. Per l’Italia, secondo l’Istat, la Cina è la 10a destinazione, con il 2,5% dell’export totale.
Nel 2009, la Cina è diventata la prima nazione esportatrice al mondo. Ha concluso una spettacolare rincorsa che l’ha condotta a scalare in pochi
anni le prime posizioni. Per ironia ha superato la Germania, in occasione di un arretramento complessivo delle esportazioni (che evidentemente ha colpito il Paese europeo più della Cina). La supremazia sintetizza e con-ferma l’eclatante avanzata della Cina. Le percentuali di crescita e il valo-re monetario sono in sintonia con quanto atteso da una grande potenza emergente. Una valutazione più analitica consente tuttavia di rilevare due aspetti importanti. Il primo è l’enorme attivo commerciale che si confer-ma ogni anno: anche nel 2013 ha raggiunto l’astronomica cifra di 259 mi-liardi di dollari. È per molti versi una situazione difficilmente sostenibile dal punto di vista economico e finanziario, anche se trova motivazioni e vantaggi in altri versanti, come la distribuzione e i consumatori dei Paesi acquirenti. Il secondo motivo di preoccupazione è la composizione mer-ceologica dell’import cinese. La Repubblica Popolare importa sostanzial-mente ciò di cui ha bisogno: materie prime e tecnologia. Quest’ultima le è necessaria per colmare lo storico deficit di arretratezza nell’efficienza, le prime per incrementare la produzione materiale. Entrambe le impor-tazioni servono dunque a rafforzare il ruolo di opificio mondiale che la Cina si è conquistata con una miscela inarrivabile di componenti: basso costo dei fattori di produzione, disponibilità di manodopera inesauribile e disciplinata, stabile situazione politica, eccellente rete infrastrutturale.
Questa semplice valutazione conferma il forte nazionalismo economi-co della Cina, che viene economi-considerato economi-contemporaneamente sia uno stru-mento che un fine. Il Paese ha scelto e mantiene un approccio pragmatico e la sua apertura, dalla riforma denghista del 1978, ha teso a rifornirsi di beni strumentali che consentissero un rapido processo di industrializza-zione. L’obiettivo finale è il rafforzamento del Paese attraverso l’iniezione di capacità produttive, non più elaborate internamente ma acquisite da chi le aveva già disponibili, cioè i Paesi Ocse. La stessa valutazione smen-tisce specularmente la disinvoltura con la quale le era stato assegnato il ruolo di “più grande mercato del mondo”. Nonostante la più che tren-tennale apertura, la Cina continua a essere relativamente impermeabile ai beni di consumo occidentali.
Si tratta in realtà della prosecuzione di un atteggiamento radicato. Trova le sue motivazioni nella storia e nella filosofia di un paese voluta-mente isolatosi, intriso di nazionalismo e cosciente della forza e dell’uni-cità della propria cultura. La nascita di una forte classe media,
liberata-si dalle costrizioni e dall’omologazione dell’era maoista, non ha ancora compiutamente trainato un forte flusso commerciale di beni di consumo, teso a legittimarne l’ascesa sociale. La Cina è rimasta dunque un Paese ancora lontano e difficile per lo sbocco dei prodotti finiti. Questa situa-zione, di per sé eccentrica nel panorama internazionale, è ancora più pe-nalizzante per l’Italia. La relativa sovrapposizione tra i settori produttori (il caso più sorprendente tra i paesi del G8) rende la conquista del mer-cato cinese molto problematica. Esiste infatti una forte difficoltà al con-sumo in Cina a causa del rapporto tra costo del prodotto e reddito di-sponibile (è molto difficile “produrre a costi italiani e vendere a prezzi cinesi”). Un altro ostacolo alla diffusione strutturata del made in Italy è stato finora rappresentato da un insufficiente sviluppo della rete distribu-tiva. Solo recentemente, soprattutto dopo l’ingresso nel World Trade Or-ganization, la Cina ha consentito lo stabilirsi di organizzazioni proprie di vendita da parte degli stranieri, per ovviare alle inadeguatezze di un setto-re strategico ma finora setto-relegato, come altri del terziario, ai margini di un processo prevalentemente produttivo e quantitativo. Non è sorprenden-te che i beni di consumo italiani abbiano trovato le migliori performance commerciali nella fascia più alta, nel segmento del lusso che non riesce a essere oggetto di concorrenza da parte dei produttori cinesi. Paradossal-mente, questa nicchia di mercato si associa ad altri prodotti con minori suggestioni ma con maggiore redditività, come i combustibili e i minera-li. Si conferma merceologicamente che la Cina continua a importare non tanto ciò che è atteso, quanto ciò di cui ha bisogno.
Gli investimenti italiani si sono confermati di dimensioni ridotte e oscillanti. I valori sono da mettere in relazione sia alle dimensioni socie-tarie dell’industria italiana, sia all’inerzia nel comprendere le opportunità del mercato cinese affidando alle esportazioni un ruolo che si è progres-sivamente assestato senza miglioramenti. La Cina è da molti anni il più grande ricettore mondiale di Foreign direct investments (Fdi). La prove-nienza tradizionale è quella dei territori dove si è impiantata una forte diaspora cinese (Hong Kong, Taiwan, ASEAN). A essi si sono tuttavia aggiunti negli ultimi anni flussi consistenti dai paradisi fiscali, a confer-ma che la finanza internazionale valuta con fiducia la stabilità e la crescita della Cina. Dal punto di vista aziendale, la Cina si sta rivelando una base produttiva non solo per la riesportazione ma anche per la conquista di
posizioni sul mercato locale. Gli indubbi miglioramenti del business
cli-mate in Cina – soprattutto una più attenta salvaguardia degli Intellectual property rights (Ipr) – hanno stimolato gli investimenti aziendali tesi a
ri-durre i costi di produzione, mantenendo la specificità dei prodotti (“pro-durre a costi cinesi e vendere a prezzi cinesi”). All’economicità dei fattori di produzione si sono uniti gli asset intangibili, come la capacità di pro-gettazione, il design, la costruzione del marchio e dell’immagine, la sofi-sticazione del marketing.
Un esame più attento rileva inoltre come i due fenomeni dell’esporta-zione e dell’investimento non siano contrapposti ma complementari. Molto spesso sono gli Fdi a trainare i flussi delle merci. La Cina infatti non ha ancora le capacità che le consentano la gamma più vasta di pro-duzione. I prodotti di maggior valore aggiunto e di più alto costo unita-rio hanno spesso bisogno di parti, componenti e tecnologia importate dal Paese di origine dell’investimento. Indiscutibilmente, le necessità pro-duttive si ripercuotono sul valore dell’export. Basti pensare, a titolo di esempio, che la Germania è contemporaneamente il maggior investitore ed esportatore europeo in Cina, con i doppi, validi risultati dell’industria automobilistica. In entrambe le attività, i suoi valori sono circa cinque volte superiori a quelli dell’Italia.
Tuttavia, l’esperienza delle aziende nazionali sta recentemente regi-strando un’evoluzione che denota segnali di positivo dinamismo. Le pre-senze italiane in Cina sono cresciute rispetto alle 1461 censite nel 2006. Le unità produttive si sono stabilite sul suolo cinese con maggiore fre-quenza negli ultimi anni. Si tratta di numeri non eclatanti ma comunque incoraggianti. Ha avuto probabilmente luogo un processo di selezione e le aziende italiane, colpite dalla stasi relativa delle esportazioni, hanno af-frontato con maggiore intraprendenza il mercato cinese. Emerge, pur tra rilevazioni talvolta contraddittorie, una comprensione più reale dell’e-mersione della Cina e dell’inadeguatezza di aver identificato i cittadini con i consumatori. Si è verosimilmente registrato un fenomeno di matu-razione dell’approccio, reso indispensabile dalla grande concorrenza, sia locale che internazionale. Si è trattato di un notevole passo avanti, anche perché finora sono rimasti intatti i vantaggi che le autorità cinesi, nel bi-sogno di accelerare una crescita già sostenuta, concedevano alle multina-zionali.
Le sfide: minaccia o concorrenza
Negli ultimi 25 anni, la quota cinese nel commercio mondiale si è pres-soché quintuplicata. L’Italia è l’11° Paese esportatore (7° nel 2004) e il 10° importatore (7° nel 2004). È inevitabile che le due nazioni siano in concorrenza, come peraltro tutti gli attori operanti nell’era della globa-lizzazione. Si tratta inoltre di Paesi manifatturieri, connotati entrambi da un’attività di trasformazione. Tuttavia la semplice concorrenza acquista dimensioni più preoccupanti sia per la grandezza delle cifre riportate, sia per tre altre considerazioni emergenti.
Anzitutto, la specializzazione produttiva della Cina tende a sovrap-porsi a quella italiana. Il fenomeno ha doppie ripercussioni, all’interno del nostro Paese e nella conquista dei mercati mondiali. Il suo produttivo cinese si è allargato, comprendendo comparti che non appartengono a un Paese di prima industrializzazione. Le merci cinesi non sono più esclusi-vamente di scarso valore aggiunto e di basso costo unitario. La disponi-bilità di moderna tecnologia, spesso importata attraverso joint venture, combinata con una riserva di manodopera e una mentalità più spregiudi-cata, consente ora alla nazione asiatica di accreditarsi come fornitore di beni tradizionalmente appannaggio dei Paesi industrializzati e in modo particolare dell’Italia. La concorrenza maggiore ha luogo per alcuni set-tori altamente rappresentativi del made in Italy: illuminazione, ceramica, mobili, abbigliamento, calzature, pelletteria. Le dimensioni del fenome-no sofenome-no variamente interpretate dagli esperti, ma è innegabile che gli spa-zi di mercato per l’Italia si stiano riducendo. L’impatto è infine rilevante per l’economia e l’occupazione nei distretti industriali e percorre tutta la filiera della qualità della vita (alimentazione, abbigliamento, casa).
In secondo luogo i semilavorati, uno dei capisaldi della struttura pro-duttiva italiana, sono minacciati dalla disponibilità di prodotti finiti si. Non solo dunque le merci italiane sono esposte alla concorrenza cine-se, ma quest’ultima influenza l’intero processo produttivo. Ne risulta un duplice bersaglio colpito: il mercato di sbocco dei semilavorati italiani e l’industria loro utilizzatrice dello stesso Paese.
In terzo luogo, persistono in Cina condizioni di vita e di lavoro che og-gettivamente consentono vantaggi rispetto ai concorrenti internazionali. Non si tratta ovviamente di legittime capacità produttive o specializzazio-ni industriali ma di un “dumping sociale” che getta ombre sulla genuispecializzazio-nità
della sfida cinese. Le critiche degli osservatori, talvolta comprensibili, al-tre volte appartenenti all’arsenale della propaganda, si basano su molte-plici aspetti della struttura economica e sociale, come la diffusa violazio-ne della proprietà intellettuale e industriale, il rigidissimo controllo del mercato del lavoro, una scarsa attenzione agli standard ambientali, l’as-senza quasi completa dello yuan dal mercato dei cambi che contrasta con l’integrazione economica del Paese.
A parziale compensazione, va rilevato che il cambiamento in atto nella struttura produttiva cinese risulta già interessante per le piccole e medie imprese italiane. Accanto alle tradizionali e potenti imprese pubbliche, si è affermata un’imprenditoria privata, giovane, dinamica e spesso compo-sta da aziende di medie dimensioni. È più lontana dalle logiche politiche, gestisce l’impresa con criteri economici, è interessata a risultati pretta-mente aziendali. Il suo interlocutore immediato è il sistema delle Pmi, in grado di apportare le competenze necessarie. I margini di trattativa per le imprese italiane si allargano dunque rispetto ai canoni tipici dell’inter-nazionalizzazione e si stabiliscono nei recinti – necessari anche se inediti – di collaborazione industriale della globalizzazione. La lines prevalente è reperire le risorse dovunque siano disponibili al meglio, in una logica contemporaneamente di partnership e di concorrenza.
Sanzioni o innovazioni
L’emersione della Cina come potenza economica mondiale ha ricevuto un’attenzione più accentuata quando più immediate sono diventate le ri-percussioni sull’industria italiana. Soprattutto sembrano ribaltarsi le va-lutazioni dell’ingresso del Paese asiatico nel Wto: dalla speranza di un’a-pertura del mercato cinese si è passati al timore di un’invasione delle merci cinesi. Se l’eliminazione delle barriere appariva il viatico per la