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Joint Venturing

Nel documento In ricordo di Maria Weber (pagine 91-95)

Renzo Cavalieri

Una delle questioni che anche dopo dieci anni rimangono perfettamente attuali, come è testimoniato dai numerosi riferimenti al tema nei contri-buti qui raccolti, è la serie di difficoltà del rapporto con un partner cinese soprattutto – ma non solo – nelle joint venture in Cina.

Costituire una joint venture in Cina, infatti, è un esercizio complica-to. Ancora oggi, nonostante l’evoluzione che la normativa sull’istituto ha conosciuto nei suoi trenta e più anni di esistenza, gli investitori che deci-dano di intraprendere quella strada devono affrontare un percorso irto di difficoltà, in un quadro normativo fortemente squilibrato a vantaggio del socio locale, in cui l’amplissima discrezionalità degli organi amministrati-vi e giudiziari gioca tutta a favore di quest’ultimo.

Storicamente, la joint venture è stata la palestra nella quale gran par-te degli investitori stranieri – soprattutto quelli della prima ora – hanno sperimentato l’enorme divario tecnico e culturale che separa la pratica degli affari in Cina da quella “occidentale” e hanno potuto prendere atto di quanto, di fronte allo straniero, il sistema economico-amministrativo cinese possa rivelarsi coeso nella tutela degli interessi locali.

Vi fu un tempo, molti lo ricorderanno, in cui la joint venture (deno-minata in cinese zhongwai hezi jingying qiye, impresa sino-estera a capi-tale e gestione comune) era la regina degli investimenti internazionali in Cina. In una prima fase era l’unico veicolo societario accessibile agli im-prenditori stranieri, ma anche dopo – sino all’inizio degli anni duemila – rimase di gran lunga il più utilizzato. Del resto, il contesto operativo cinese era allora talmente opaco che ben pochi imprenditori occiden-tali avrebbero comunque osato entrarvi senza un partner locale dotato di adeguate conoscenze ed entrature (le famose guanxi, relazioni, tanto spesso citate in questo volume), nel mercato e nell’apparato burocratico. Anzi le clientele del partner, quasi sempre millantate e spesso ai limiti o

oltre i limiti del lecito, erano considerate allora un fattore centrale nella pianificazione di un affare con la Cina. Salvo poi constatare che la capa-cità degli operatori stranieri di valutarne l’effettiva consistenza e i rea-li vantaggi era minima, mentre spesso grea-li interessi del socio locale, stra-protetti proprio grazie alle sue entrature, divergevano dai loro e talvolta si rivelavano persino direttamente in conflitto con essi. Molti accordi di joint venture in realtà erano operazioni meramente commerciali più o meno simulate, moltissimi derivavano da incontri occasionali e manca-vano di un vero progetto comune, e anche quando si trattava di opera-zioni credibili e ragionevolmente pianificate, raramente l’investimento di risorse umane, finanziarie e organizzative del partner estero era ade-guato all’impegno.

Così, in tanti casi, l’avventura cinese si trasformava in un incubo: la storia delle joint venture – soprattutto di quelle italiane – in Cina è stata per lo più una storia di illusioni, di matrimoni falliti e di progetti abortiti, di approcci distratti e di avidi arrembaggi. Per molti anni le storie di suc-cesso furono poche, pochissime quelle veramente proficue.

A partire dalla metà degli anni novanta, la situazione ha cominciato a cambiare: da un lato sono state introdotte nuove tipologie di investimen-to (in particolare l’acquisizione di società cinesi), che hanno reso obsoleinvestimen-to lo strumento della joint venture tradizionale, e dall’altro si sono ridotti, per numero e per importanza, i settori chiusi agli investimenti interamen-te esinteramen-teri. Con le modifiche legislative dei primi anni duemila, le ultime restrizioni alla costituzione di WFOE (wholly foreign-owned enterprises) sono state abolite e, anche grazie a una maggior esperienza e fiducia degli operatori stranieri nel mercato locale, la scelta di tale veicolo societario è gradualmente diventata quella preferita dalla grande maggioranza degli investitori (oltre l’80% nel 2013).

Oggi restano esclusi dall’opzione dell’impresa esclusivamente este-ra soltanto alcuni settori economici (ad esempio quello automobilistico, quello bancario, quello dei media), per l’esercizio dei quali la legge tut-tora impone il veicolo della partecipazione locale, talvolta anche di mag-gioranza. In altri casi, la scelta della joint venture dipende da specifiche caratteristiche geografiche o merceologiche dell’operazione che rendano indispensabile la collaborazione di un partner locale e impossibile otte-nerla altrimenti. Naturalmente c’è ancora qualcuno che opta

volontaria-mente e senza motivi veravolontaria-mente stringenti per tale veicolo di investimen-to; ma si tratta di casi davvero rari.

Attualmente si sta discutendo di una nuova legge sugli investimenti esteri, che da un lato parificherà il regime societario previsto per le im-prese a investimento estero a quello previsto per le imim-prese interamente cinesi, e dall’altro abolirà il principio per cui ogni investimento deve es-sere approvato dall’autorità amministrativa a favore di un sistema di sem-plice omologazione, a cui faranno eccezione solo alcuni settori strategici. Al di là di tali futuri sviluppi, quando, per scelta o per necessità, la stra-da della joint venture sia ancora quella stra-da percorrere e non sia possibile elaborare forme creative di delocalizzazione degli accordi con il partner (ad esempio costituendo un veicolo all’estero con una partecipazione in-diretta del socio cinese e investendo poi in Cina in forma di WFOE), ri-mangono attuali e irrisolti tutti i problemi strutturali tipici di quella for-ma di investimento, dalla difficoltà di ottenere dal partner un’esecuzione corretta degli impegni contrattuali al continuo rischio di stallo decisiona-le su questioni strategiche come gli aumenti di capitadecisiona-le o la distribuzione degli utili.

Una delle questioni più serie, che ben riflette alcune delle criticità ti-piche del quadro giuridico degli investimenti esteri in Cina, è l’estrema difficoltà di disinvestire dalla joint venture.

In base alla legislazione cinese, lo scioglimento anticipato della joint venture per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale è ammesso, ma deve essere deliberato unanimemente dai soci e successivamente appro-vato dall’organo ministeriale competente. Nel caso (frequente) in cui l’impossibilità dipenda dell’inadempimento di uno dei partner, la parte adempiente potrà ricorrere al giudice o all’arbitro per la risoluzione del contratto e dunque avviare la procedura di scioglimento e liquidazione della società. Poiché però la legge richiede la continua collaborazione, per l’intera durata della procedura, del partner e degli organi ammini-strativi, e dato che molto spesso né il primo né i secondi hanno interes-se a condurla effettivamente a termine favorendo il disinvestimento del socio straniero, il percorso può rivelarsi ancora oggi un’impresa ardua, o nel migliore dei casi lunga e costosa.

Anche qualora l’investitore straniero preferisca provare a recuperare o a ristrutturare l’investimento, anziché liquidando la società, attraverso

la cessione delle proprie quote oppure l’acquisto di quelle del partner (e dunque trasformando la joint venture in una WFOE), i nodi problemati-ci non mancano; persino quando negli accordi costitutivi siano contenute specifiche clausole di uscita (ad esempio opzioni put-call) e valori prede-terminati e il giudice o l’arbitro ne abbiano riconosciuta la validità, nella pratica i casi in cui è stata data esecuzione alle sentenze e ai lodi relativi rimangono assolutamente eccezionali.

In tutti questi casi, la strada della tutela formale dei diritti dell’investi-tore si rivela generalmente inefficace e l’unico modo di superare le diffi-coltà e circoscrivere i tempi e i costi del disinvestimento è quello di nego-ziarne (o rinegonego-ziarne) – magari con l’aiuto di un mediatore, come vuole la tradizione – i termini con il partner, prendendo atto della condizione strutturale di inferiorità in cui operano i soggetti stranieri e accettando di conseguenza ipotesi transattive anche non propriamente convenienti.

Nel documento In ricordo di Maria Weber (pagine 91-95)