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Un nuovo modello di organizzazione aziendale in Cina?

Nel documento In ricordo di Maria Weber (pagine 114-118)

Paolo Borzatta

Diversificare la strategia

Ogni azienda, grande o piccola che sia, tende ad avere una sola strategia per tutto il mondo, con “declinazioni” locali per tener conto della diver-sità dei mercati e dei contesti. Queste declinazioni però non alterano si-gnificativamente il nocciolo della strategia, che resta unica, proprio per avere la possibilità di concentrare le energie (manageriali, psicologiche e finanziarie) su poche linee di azione chiare.

In Cina, la maggioranza delle aziende che hanno cercato di restare fedeli a questi capisaldi del pensiero strategico hanno di solito fallito o hanno raggiunto risultati molto, a volte anche clamorosamente, insoddi-sfacenti. Stiamo ovviamente parlando di aziende che hanno deciso di en-trare con i propri prodotti o servizi nel mercato cinese e non di aziende che si sono limitate a produrre in Cina (direttamente o tramite terzi) per poi esportare.

Le aziende che hanno avuto successo hanno dovuto cambiare approc-cio. Hanno capito che il grado di diversità della Cina è talmente alto, ri-spetto anche ad altri Paesi, che richiedeva non solo un adattamento della strategia corporate al contesto locale, ma anche un ripensamento impor-tante, riguardo almeno a uno dei seguenti elementi: il prodotto, il posizio-namento, il marchio o l’organizzazione. Le aziende hanno anche capito che il mercato cinese potrebbe diventare, in pochi anni, il loro mercato di gran lunga più importante rispetto a tutti gli altri nel mondo, quindi hanno deciso che il top management doveva essere direttamente coinvol-to nelle decisioni strategiche (e a volte anche operative); di conseguenza lo stesso management ha investito tempo ed energie proprie per studiare e comprendere le caratteristiche specifiche di quel mercato.

Ecco alcuni esempi di una lunga serie, acquisiti tramite l’esperienza professionale.

L’amministratore delegato di un’azienda di elettrodomestici ha scelto di assumere in prima persona la responsabilità del “progetto Cina” e poi di comprare anche un’azienda storica locale, mantenendone il marchio (cinese) e operando con due marchi (posizionati differentemente): quello originale italiano e quello locale cinese.

Un’azienda di componentistica ha deciso di fabbricare in Cina i pro-pri prodotti più tecnologici (benché in passato avesse stabilito che non l’avrebbe mai fatto) e il direttore commerciale mondo è stato nominato capo del “progetto Cina”, dove è andato a risiedere.

Una (piccola) azienda di logistica integrata ha scelto di spostare in Cina il baricentro, nella prospettiva che il proprio mercato principale fu-turo saranno la stessa Cina e l’Asia.

Una grande azienda di moda, icona del made in Italy, non solo ha de-ciso che il suo mercato principale avrebbe dovuto diventare la Cina, ma – come quella precedentemente citata – ha comperato un’azienda locale con marchio locale, operando in Cina sia con un marchio italiano (famo-so nel mondo) che con un marchio cinese (posizionato differentemente). Se invece scorressimo la lista delle aziende italiane che non hanno vo-luto cambiare significativamente la propria strategia corporate, troverem-mo troverem-molti casi di insuccesso e soprattutto di performance estremamente bassa. Ci sono aziende italiane, di discreto o grande successo nel mondo, che in Cina riescono solo a “graffiare” il mercato senza riuscire, di fatto, a penetrarlo.

Vi sono ovviamente delle eccezioni: quelle aziende che hanno un mar-chio (o una tecnologia) così forte da essere fortemente desiderato dai clienti cinesi, tanto da potersi permettere il lusso di dettare le condizio-ni. Non sono però molte e, comunque, devono spesso apportare rilevanti modifiche almeno alla parte organizzativa della propria strategia.

Un caso esemplare è il settore della consulenza di strategia. Ad oggi pochissime aziende occidentali, anche le grandi e famose, riescono (con grande difficoltà e comunque in maniera limitata) a servire clienti cinesi. Questo perché il manager cinese non è culturalmente disponibile a pa-gare semplicemente delle “idee” di altri su quello che lui dovrebbe fare. È invece disponibile ad accettare il consiglio e l’assistenza operativa sul-le azioni da intraprendere per raggiungere determinati risultati; preten-de quindi che la “strategia” sia fornita già “incarnata” in azioni concrete.

Incredibile a dirsi, pochissime aziende occidentali di consulenza strate-gica sono state finora capaci di mettere in dubbio la loro stessa strategia corporate e formularne una totalmente diversa solo per il mercato cinese.

Quando poi si parla di cross cultural management nelle aziende in Cina occorre distinguere due livelli: il top management e l’organizzazio-ne di tutta una (grande) struttura.

Per aziende che hanno solo unità operative in Cina, composte da po-che decine di persone (spesso di livello manageriale perché l’attività ope-rativa è delegata a un partner cinese sul cui sistema organizzativo non si intende e non si può intervenire) il tema principale è quello di addestrare al cross cultural management i manager occidentali (sia quelli che sono inviati in Cina, sia quelli che operano nel quartier generale e che devono interagire significativamente con le attività in Cina) e i manager cinesi.

Cross cultural management

Quasi tutte le aziende che operano in Cina riconoscono, prima o poi, questa necessità. I problemi sorgono però quando si dà attuazione al pro-gramma. Ecco i principali errori che vengono compiuti.

L’intensità dell’addestramento è bassa e non sufficiente: ci si accon-tenta di pochi seminari teorici (spesso solo uno) e si lascia che il personale “impari sul campo”. Ovviamente i tempi sono molto più lunghi, con mol-ti più errori e a volte con distonie che diventano strutturali e permanenmol-ti, con conseguente riduzione della performance.

L’addestramento è rivolto solo ai manager occidentali affinché “impa-rino” a operare in un ambiente cinese. Si trascura quasi sempre di pro-porre un addestramento simile, ma speculare, ai manager cinesi affinché imparino a operare in un ambiente italiano.

La filosofia di fondo a cui si ispira l’addestramento cross cultural è che la cultura della casa madre è quella “giusta” e che occorre impara-re a “declinarla” in “salsa cinese”. Dimenticando così completamente la lezione che l’italiano Matteo Ricci aveva capito (dopo tanti insuccessi di precedenti missionari): per operare in Cina occorre prima di tutto “far-si cine“far-si”, ovvero convincer“far-si che anche alcune loro idee vanno acqui“far-site convintamente. Il rapporto deve essere sempre bilanciato tra uguali. Ri-assumo – semplificando – questa lezione nella frase “per vendere idee ai

cinesi, prima bisogna comperarne da loro”: che cosa sono, se non “idee”, le strategie e le organizzazioni aziendali?

Per aziende che hanno invece in Cina unità molto numerose (oltre due o tre centinaia di dipendenti) si pone il tema, oltre a quello preceden-te, di come organizzare in dettaglio l’intera struttura aziendale. Le strut-ture organizzative di solito non pongono problemi: gli organigrammi in Cina sono abbastanza simili ai nostri. I problemi sorgono invece con i meccanismi, in particolare quelli di programmazione e controllo e quelli di incentivazione e remunerazione.

La mentalità e la prassi cinese sono molto più minuziose e complesse delle nostre. Difficile gestire un rilevante numero di dipendenti cinesi con metodi e approcci occidentali (salvo mettere a bilancio un onerosissimo programma di addestramento – a volte in occidente – di tutto il persona-le). Occorre cercare di creare delle “interfacce” tra i meccanismi corpora-te e i meccanismi locali per garantirsi che le politiche e gli obiettivi gene-rali siano salvaguardati, ma che siano tradotti nei tipici meccanismi locali. I meccanismi cinesi sono fortemente influenzati dalla cultura confu-ciana e dall’imperativo di preservare sempre (anche a livello di micro-azioni) la “faccia” delle persone coinvolte. Anche la filosofia generale di gestione del personale è molto confuciana e, se la gerarchia è assai più importante, lo è pure il senso di “famiglia” che viene dato a tutti i dipen-denti.

Un caso limite, ma esemplare, di questi problemi è la gestione di una rete di vendita capillare sul suolo cinese. Pensare di organizzare centinaia di venditori in centinaia di città cinesi con i meccanismi di programma-zione, controllo e incentivazione tipici delle aziende italiane è quasi im-possibile. I problemi e la mentalità di un venditore cinese in Cina sono fortemente diversi da quelli di un italiano in Italia. Il modo di gestire la relazione con i clienti è diverso: occorre costruire forti rapporti persona-li di fiducia, quindi i tempi, i costi, i risultati sono diversi e, conseguen-temente, deve essere diverso il meccanismo di gestione della struttura di vendita. In questo caso, il cross cultural management è decisamente pre-feribile.

Nuove e necessarie capacità manageriali

Nel documento In ricordo di Maria Weber (pagine 114-118)