• Non ci sono risultati.

Immunoterapia e terapia mirata

2. IL MESOTELIOMA PLEURICO MALIGNO

2.6 Meccanismi molecolari sottostanti al MPM

2.8.5 Immunoterapia e terapia mirata

Come per altri tipi di cancro, l’immunoterapia sta aprendo nuove opzioni per il trattamento del MPM. L’iniezione intrapleurica di virus oncolitici (herpesvirus, poxvirus, adenovirus e altri diversi virus attenuati ad RNA) è stata considerata come un possibile trattamento per MPM non resecabile, dovuta alla loro capacità di distruggere le cellule tumorali, mediante uccisione diretta o meccanismi immunomediati. Viene provocato il rilascio di antigeni tumorali, che permettono l’attivazione delle cellule T attraverso le cellule dendritiche. Alla luce degli alti livelli di effetti avversi correlati al trattamento o dei limitati benefici degli approcci immunoterapici in molti studi clinici, l’applicazione della viroterapia oncolitica nel trattamento del MPM è ancora oggetto di studio (Bakker et al., 2017).

Il MPM è comunemente associato ad una rilevante reazione infiammatoria, parzialmente associata ad una infiammazione indotta dall’asbesto. Il riconoscimento degli antigeni tumorali da parte delle cellule T è dipendente dai recettori TCR; in seguito al legame, l’attivazione delle cellule T richiede segnali co-stimolatori mediati dalle cellule T CD28 che si legano a molecole della famiglia B7 sulle APCs (antigen-presenting cells). Conseguentemente i recettori inibitori, come CTLA-4 (Cytotoxic T-Lymphocytic- Associated protein 4) e PD-1 (programmed cell death 1) vengono up-regolati ed espressi sulle cellule T attivate contribuendo a modulare negativamente la risposta immunitaria. Il recettore PD-1 si lega a PD-L1 (programmed death-ligand 1), proteina presente sulla

40

superficie delle cellule tumorali e questo complesso inibisce la reazione immunologica contro la neoplasia.

Sono in corso studi clinici per testare l’efficacia degli inibitori del check-point immunitario nei pazienti con MPM, ovvero anticorpi monoclonali che agiscono e bloccano CTLA-4, PD-1 e PD-L1. In un ampio studio clinico di fase IIb (DETERMINE) (Maio et al., 2017), il trattamento in regime di monoterapia con tremelimumab, un anticorpo monoclonale contro CTLA-4, espresso sulla superficie dei linfociti T attivati, non ha aumentato significativamente la sopravvivenza globale nei pazienti con MPM precedentemente trattati (sopravvivenza media 7,7 mesi) rispetto a placebo (sopravvivenza media 7,3 mesi).

La sicurezza e l’efficacia di pembrolizumab, un anticorpo monoclonale contro PD-1, è stata testata nei pazienti con MPM in uno studio di fase Ib (KEYNOTE-028) (Alley et al., 2017) ed è emerso che sembra essere ben tollerato e potrebbe conferire una attività antitumorale in quei pazienti con MPM PD-L1 positivi; tuttavia, la durata e l’efficacia della risposta in questa popolazione di pazienti richiede ulteriori indagini.

Lo studio non randomizzato di fase II NIBIT-MESO-1, guidato dalla dottoressa Luana Calabrò (2018) dell’U.O.C. Immunoterapia Oncologica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, ha valutato l’associazione terapeutica di due anticorpi immunomodulanti nel trattamento del mesotelioma: un anticorpo anti-CTLA-4, tremelimumab e un anticorpo anti-PDL1, durvalumab. I dati finali dello studio hanno evidenziato l’efficacia della combinazione di tremelimumab e durvalumab nei pazienti con il mesotelioma. Infatti, dei 40 pazienti arruolati, 11 (27,5%) hanno raggiunto l’obiettivo della risposta clinica parziale, 26 (65%) hanno raggiunto il “disease control rate”, ovvero la riduzione o la stabilizzazione della progressione di malattia. Anche i dati sulla sicurezza del trattamento sono incoraggianti: solo il 17,5% dei pazienti ha avuto una tossicità di grado severo, ma comunque controllata da adeguato trattamento per risolvere gli effetti collaterali. Questi risultati, se confermati, candidano la combinazione di anti-CTLA-4 e anti-PDL1 come potenziale trattamento standard di prima e seconda linea del mesotelioma.

41

Le cellule T, inoltre, possono essere ingegnerizzate (tramite retrovirus) con vettori che esprimono recettori antigenici chimerici (CAR) che le rendono capaci di distruggere le cellule targets. I linfociti T autologhi geneticamente ingegnerizzati possono aumentare la capacità di riconoscimento dell’antigene o alterare il microambiente tumorale attraverso la produzione di citochine. Nello specifico, sia in vitro che in vivo, è stata dimostrata l’attività di cellule T autologhe esprimenti un CAR anti-mesotelina (Lanitis et al., 2012).

Nel contesto della terapia mirata, gli studi di fase I e di fase II, che hanno testato inibitori dei recettori con attività tirosin-chinasi nei pazienti con MPM hanno dato risultati scarsi (Guazzelli et al., 2017). Studi genetici e molecolari hanno confermato che molte famiglie di recettori dei fattori di crescita (EGFR, PDGFR, VEGFR) sono frequentemente attivate nel mesotelioma. Per quanto riguarda la sovraespressione di EGFR (epidermal growth factor receptor), studi di fase II condotti su pazienti affetti da MPM in stadio avanzato o recidivo hanno riportato che l’utilizzo di erlotinib e gefitinib (inibitori delle tirosin chinasi) non risulta efficace. È stato visto che il dasatinib, un analogo aminotiazolico inibitore di diverse tirosin-chinasi, è capace di esercitare un effetto citotossico sulle linee cellulari di mesotelioma. Pertanto, uno studio di fase II ne ha testato l’efficacia, osservando un tasso di controllo della malattia pari al 32,6%, ma l’inaccettabile tossicità polmonare lo ha precluso da ulteriori indagini (Dudek et al., 2012).

I risultati migliori sono stati ottenuti da un trial di fase III (MAPS) condotto su 448 pazienti trattati con cisplatino/pemetrexed in associazione con l’anticorpo monoclonale bevacizumab per 6 cicli. I risultati, pubblicati da Zalcman et al. (2016), hanno dimostrato che l’aggiunta di bevacizumab a cisplatino/pemetrexed migliora la sopravvivenza globale di circa 2,7 mesi (in media 18,8 mesi vs 16,1) rispetto a quei pazienti che non avevano ricevuto bevacizumab. Bevacizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato che è stato dimostrato inibire tutte le isoforme di VEGF umano. Questi risultati dimostrarono che l’utilizzo di VEGF come target terapeutico poteva essere un approccio efficace. In questo contesto si inserisce il nintedanib, un farmaco che agisce su differenti vie di trasduzione del segnale che sono implicate nella patogenesi del MPM. In particolare, tra i vari bersagli del nintedanib vi è il recettore del VEGF e, pertanto, questa molecola viene considerata anche come un inibitore dell’angiogenesi. I dati di fase II

42

dello studio LUME-Meso hanno mostrato che i pazienti con istologia epitelioide ottenevano un maggior beneficio dal nintedanib aggiunto a pemetrexed/cisplatino in termini di miglioramento della sopravvivenza libera da progressione (PFS) rispetto al trattamento con placebo (Grosso et al., 2017). Il protocollo di fase III di LUME-Meso è stato, dunque, modificato concentrandosi esclusivamente su questo sottogruppo di pazienti. La fase III dello studio globale, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo ha valutato 458 pazienti con MPM confermato del sottotipo epitelioide senza precedente trattamento con chemioterapia sistemica. I risultati dello studio non hanno mostrato alcun miglioramento significativo nell’endpoint primario (PFS) o punti secondari chiave. Questi risultati, che differivano dai dati di fase II pubblicati in precedenza, non supportano l’uso del nintedanib in combinazione con pemetrexed/cisplatino per i pazienti con MPM del sottotipo epitelioide.

Documenti correlati