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I biomarcatori per la diagnosi precoce del mesotelioma pleurico maligno

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Academic year: 2021

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D

IPARTIMENTO DI

F

ARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

TESI DI LAUREA

I BIOMARCATORI PER LA DIAGNOSI PRECOCE DEL

MESOTELIOMA PLEURICO MALIGNO

Relatore: Candidato:

Prof.ssa Maria Rosa Mazzoni Anthony Di Matteo

Correlatore:

Prof. Antonio Lucacchini

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3 Riassunto

Il mesotelioma pleurico maligno (MPM) è una neoplasia con una prognosi in tempi brevi infausta. Il ruolo che assume la diagnosi precoce è fondamentale poiché trattamenti chirurgici e farmacologici non hanno dimostrato un significativo prolungamento della sopravvivenza, in quanto il tumore viene identificato già in fase avanzata. Nell’ultimo decennio c’è stato molto interesse per test diagnostici non invasivi, economici e ben accettati per lo screening di soggetti esposti all’amianto e nei pazienti con mesotelioma pleurico maligno (MPM) per la diagnosi od il monitoraggio della risposta al trattamento. Sono stati suggeriti diversi biomarcatori che possono avere un ruolo nella diagnosi precoce del MPM e lo scopo di questa tesi è quello di analizzare i risultati ottenuti e i progressi effettuati in questo campo, esaminando i biomarcatori sierici, plasmatici e degli essudati pleurici che fino ad oggi risultano essere i più promettenti, quali: SMRP (peptide correlato alla mesotelina solubile), MPF (fattore potenziante i megacariociti), OPN (osteopontina), Fibulina-3, HMGB-1 (high mobility group box 1) ed i micro-RNA. Un biomarcatore tumorale sensibile e specifico per il MPM aiuterebbe la diagnosi indicando la necessità di una biopsia della pleura in uno stadio precoce della neoplasia, in cui è più piccola, localizzata ed accessibile. In meno del 5% dei pazienti, il MPM viene identificato in una fase iniziale, in quanto lo sviluppo dei sintomi clinici si verifica solitamente quando la malattia è in fase avanzata. La sfida per i medici è diagnosticare la malattia in una fase in cui chirurgia e chemioterapia siano più efficaci nell’aumentare la sopravvivenza ad almeno 5 anni. Nonostante si siano compiuti notevoli progressi e si siano ottenuti risultati promettenti, la ricerca sta continuando perché non esiste ancora un validato “gold standard” per la diagnosi precoce del MPM. Ad oggi, il peptide solubile correlato alla mesotelina (SMRP) sierico è l’unico biomarcatore ematico approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) per il MPM esclusivamente per monitorare la recidiva del tumore dopo la terapia, limitato alle forme istologiche epitelioide e bifasico.

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Sommario

1. IL POLMONE ... 6

1.1 Architettura e struttura del polmone ... 8

1.2 Pleure ... 10

1.3 Struttura delle pleure ... 10

2. IL MESOTELIOMA PLEURICO MALIGNO ... 12

2.1 Eziologia ... 14

2.2 Classificazione ... 18

2.3 Stadiazione ... 19

2.4 Istologia ... 21

2.5 Patogenesi ... 22

2.6 Meccanismi molecolari sottostanti al MPM ... 25

2.6.1 Geni oncosoppressori ... 25 2.6.2 Oncogeni ... 26 2.7 Diagnosi ... 27 2.8 Trattamento terapeutico ... 34 2.8.1 Chirurgia ... 34 2.8.2 Radioterapia ... 36 2.8.3. Chemioterapia ... 37 2.8.4 Terapia multimodale ... 39

2.8.5 Immunoterapia e terapia mirata ... 39

2.9 Prevenzione e sorveglianza sanitaria ... 42

3. BIOMARCATORI ... 46

3.1 Proteomica ... 48

3.2 Biomarcatori convenzionali... 49

3.3 Peptide correlato alla mesotelina solubile (SMRP) ... 50

3.4 Fattore potenziante i megacariociti (MPF) ... 57

3.5 Osteopontina (OPN) ... 60

3.6 Fibulina-3 ... 63

3.7 High Mobility Group Box 1 (HMGB-1) ... 66

3.8 Altri biomarcatori proposti ... 67

4. Micro-RNA (miRNA)... 69

4.1 Aspetti generali ... 69

4.2 Biogenesi e funzione dei miRNA ... 70

4.3 MiRNA e MPM ... 72

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5. BIOMARCATORI IN COMBINAZIONE ... 79 6. CONCLUSIONE ... 82 7. BIBLIOGRAFIA ... 84

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1. IL POLMONE

I due polmoni, destro e sinistro, sono organi parenchimatosi e costituiscono la parte essenziale dell’apparato respiratorio. Occupano gran parte della cavità toracica, delimitano lateralmente lo spazio mediastinico e sono avvolti da membrane sierose, sottili e trasparenti, le pleure. Nel sottile spazio tra i due foglietti pleurici vi è una pressione negativa che permette al polmone di espandersi nell’inspirazione e ricevere l’aria atmosferica.

Il diametro verticale misura in media 25 cm, quello trasversale 10-11 cm a destra, 7-8 a sinistra ed il volume è di circa 1600 cm3 nell’uomo (nella donna tali misure sono

leggermente inferiori). Il polmone destro è più voluminoso del sinistro, il quale è un po' più lungo e stretto del destro, a causa della presenza del fegato, che a destra costringe il diaframma a sollevarsi, e del cuore, che invade la parte sinistra del mediastino con il suo apice.

I polmoni hanno un colore che è roseo nel bambino e si modifica gradualmente con l’età per diventare grigio-biancastro nell’adulto. Il progressivo scurirsi dei polmoni è un fenomeno fisiologico, dovuto al deposito di pigmento nel parenchima polmonare, che si accentua con il fumo di sigaretta e l’inquinamento atmosferico.

I polmoni hanno la forma di due mezzi coni e presentano una base, situata in basso, un apice, situato in alto, una faccia laterale (o costovertebrale), una faccia mediale (o mediastinica) e tre margini, anteriore, posteriore e inferiore. Gli organi circostanti che contraggono rapporti con queste parti del polmone lasciano sulla superficie polmonare impronte e solchi.

La base del polmone è concava, rivolta in avanti, a forma semilunare, con il margine convesso posto lateralmente e quello concavo medialmente. Essa è in rapporto con le parti laterali del diaframma, che a destra la separa dal lobo destro del fegato e a sinistra dal lobo sinistro del fegato, dal fondo dello stomaco e dalla milza.

L’apice del polmone è tondeggiante e rivolto medialmente e ventralmente. Si eleva circa 2 cm al di sopra dell’estremità sternale della clavicola da entrambi i lati. Superiormente alla prima costa è in rapporto con la cupola pleurica e, quindi, con l’arteria succlavia, che

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produce su di essa una doccia (solco succlavio), mentre lateralmente tocca il margine interno della prima costa, che spesso vi lascia un solco.

La faccia costovertebrale è convessa e guarda anteriormente, lateralmente e dorsalmente. È in rapporto con: a) la faccia interna delle coste, che vi producono depressioni visibili soprattutto nella porzione superiore, dette impronte costali; b) gli spazi intercostali; c) la parte laterale delle vertebre toraciche; d) le fibrocartilagini intervertebrali. Su questa faccia è presente una fessura, che percorre anche la faccia mediastinica e la base del polmone, chiamata scissura interlobare, che si approfondisce fin quasi a raggiungere l’ilo del polmone. A destra, tale scissura prende il nome di scissura principale, essendo presente anche una seconda scissura, la scissura interlobare secondaria. Le scissure interlobari dividono i polmoni in lobi, che sono tre nel polmone destro (superiore, medio e inferiore), due nel polmone sinistro (superiore e inferiore).

La faccia mediastinica, compresa tra il margine anteriore e il margine posteriore, è concava e presenta, all’incirca a uguale distanza dalla base e dall’apice polmonare e spostato verso il margine posteriore, l’ilo del polmone, cioè una piccola superficie, leggermente incavata, sprovvista di rivestimento pleurico, in corrispondenza della quale transitano, in entrata o in uscita, i bronchi, i nervi ed i vasi e dove si trovano i linfonodi dell’ilo polmonare. Gli elementi che transitano nell’ilo polmonare formano una sorta di cordone che prende il nome di peduncolo polmonare, che è avvolto dalla pleura ed è costituito da: bronco principale, ramo dell’arteria polmonare, vene polmonari, arteria e vena bronchiale, vasi linfatici, linfonodi e nervi.

Il margine anteriore è sottile, convesso, leggermente flessuoso ed a sinistra presenta inferiormente un’incavatura dovuta alla presenza del cuore, chiamata incisura cardiaca. Il margine posteriore segna, indietro, il confine tra la faccia mediastinica e la faccia costovertebrale ed è poco rilevato, posto subito dietro all’ilo. Il margine inferiore è costituito da due segmenti: uno laterale, posto a separare la faccia costovertebrale dalla base del polmone, e uno mediale, che segna il limite tra la faccia mediastinica e la base polmonare.

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1.1 Architettura e struttura del polmone

Il parenchima polmonare è costituito dall’albero bronchiale e dal connettivo interstiziale, il quale è responsabile delle suddivisioni del parenchima. Il parenchima polmonare è, dunque, diviso in unità anatomo-funzionali, contenenti rami dell’albero bronchiale e rami derivanti dai vasi polmonari (figura 1).

Figura 1. Rappresentazione schematica della struttura dei polmoni

Si definiscono pertanto:

1) Lobi: le parti del parenchima polmonare, delimitati dalle scissure e ventilati da un bronco lobare.

2) Segmenti: le parti di un lobo polmonare, di forma generalmente piramidale, con la base rivolta verso la superficie e l’apice verso l’ilo del polmone. Ogni segmento polmonare è ventilato da un proprio ramo bronchiale, il bronco segmentale, e riceve un ramo dell’arteria polmonare, detto arteria segmentale. Si riconoscono 10 segmenti nel polmone destro, 9 nel polmone sinistro.

3) Lobuli: i territori, di circa 20 mm di diametro, in cui è diviso ciascun segmento polmonare, delimitato da setti connettivali interlobulari. Di forma piramidale quelli superficiali, poliedrica quelli profondi, i lobuli sono ventilati da un

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bronchiolo lobulare, ramo di un bronco interlobulare, a sua volta derivante da una ramificazione di un bronco segmentale, e sono irrorati da un ramo lobulare dell’arteria polmonare.

4) Acini: le suddivisioni ulteriori di ciascun lobulo ad opera del connettivo interstiziale. Sono circa 10-15 per ogni lobulo, 33000 per ogni polmone. Ogni acino è ventilato da un bronchiolo terminale a contiene migliaia di alveoli polmonari.

5) Alveoli: si aprono sulle pareti delle successive ramificazioni del bronchiolo terminale (bronchioli respiratori, condotti alveolari, sacchi alveolari), costituendo una sorta di grappolo, di 5 mm di diametro, detto unità terminale del polmone (Terminal Lung Unit, TLU). Gli alveoli polmonari sono estroflessioni sacciformi, sono circa 300 milioni e si estendono per una superficie di circa 70-80 m2. Ciascun alveolo presenta un colletto e una parete. Il colletto alveolare

rappresenta l’orifizio di ingresso attraverso il quale l’aria entra ed esce dall’alveolo. La parete alveolare è costituita da una membrana sottilissima, di spessore compreso tra 0,2 e 2 µm, formata dall’epitelio alveolare e da una lamina vascolo-connettivale. Contiene i macrofagi alveolari, che hanno forma rotondeggiante ed esercitano attività fagocitaria nei confronti di particelle carboniose o di microrganismi che sono giunti negli alveoli con l’aria inspirata. L’epitelio alveolare, monostratificato, è costituito da pneumociti (cellule alveolari) che poggiano su una sottile membrana basale, che in vari punti è in diretto contatto con la membrana basale dell’endotelio capillare. Si distinguono pneumociti di I tipo e di II tipo, i quali sono in grado di rilasciare sulla superficie della parete alveolare una sostanza tensioattiva chiamata “surfactante” che ha il compito di diminuire la tensione superficiale all’interfaccia aria/parete alveolare, permettendo la distensione dell’alveolo durante l’inspirazione e impedendo altresì il collabimento delle pareti (atelectasia).

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1.2 Pleure

Le pleure sono membrane sierose, sottili e trasparenti, che rivestono i polmoni e la superficie interna della cavità toracica. Ogni pleura è distinta in due porzioni: una che avvolge i polmoni, detta pleura viscerale (o polmonare) e l’altra che riveste le pareti della cavità che accoglie i polmoni, detta pleura parietale (figura 2). Entrambe le pleure presentano una superficie aderente e una superficie libera, liscia e umida. Esse delimitano uno spazio chiuso, denominato cavità pleurica, che normalmente è virtuale, essendo le due pleure praticamente adese l’una sull’altra. Tale cavità contiene un liquido sieroso, che consente alle due pleure di scorrere facilmente, senza attrito, l’una sull’altra. La cavità pleurica diviene reale solo quando, in condizioni patologiche, vi si raccoglie liquido (versamento pleurico) o vi penetra aria (pneumotorace).

Figura 2. Rappresentazione schematica della disposizione delle pleure

1.3 Struttura delle pleure

La pleura parietale e la pleura polmonare sono costituite da:

1) Uno strato superficiale, il mesotelio, rivolto verso la cavità pleurica, costituito da un singolo strato di cellule simil epiteliali appiattite capaci di produrre e riassorbire il liquido pleurico;

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2) Uno strato sottomesoteliale, costituito da tessuto connettivo di natura fibroelastica;

3) Una tela sottosierosa, formata da tessuto connettivo lasso ricco di vasi sanguigni.

I mesoteli dei due foglietti pleurici si trovano quindi affrontati tra loro, con l’interposizione di un velo liquido (liquido pleurico). All’esterno della tela sottosierosa si trova una sua differenziazione, la fascia endotoracica, una robusta lamina ricca di fibre elastiche.

Le funzioni delle pleure sono comuni a quelle di tutte le membrane sierose, presenti anche a livello del cuore (pericardio), dell’addome (peritoneo), del testicolo (tunica vaginale). Svolgono un ruolo importante nel rivestimento e nell’isolamento dell’organo, in modo da permetterne lo scorrimento durante l’espansione polmonare dovuta alla respirazione; mentre nel caso delle altre sierose, durante la contrazione cardiaca, la peristalsi o i movimenti passivi del testicolo. I due “foglietti” delle membrane sierose sono separati tra loro da un interstizio, ossia da uno spazio minimo che in tutte le membrane sierose contiene una certa quantità di siero. La funzione di questo siero è quella di lubrificare, cioè agevolare lo scorrimento di un foglietto sull’altro durante i movimenti dell’organo che essi proteggono. Se venisse a mancare tale siero, i due foglietti farebbero attrito tra di loro e ostacolerebbero in tal modo tutti i movimenti dell’organo.

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2. IL MESOTELIOMA PLEURICO MALIGNO

Il mesotelioma maligno (MM) è una neoplasia che si origina a livello del mesotelio e quindi colpisce le cellule superficiali sierose della cavità pleurica, peritoneale, pericardica e della tunica vaginale.

Il mesotelioma pleurico maligno (MPM) rappresenta l’80% dei casi di mesotelioma ed è una neoplasia rara in quanto rappresenta meno dell’1% di tutti i tipi di tumore. Questo tipo di tumore maligno si infiltra ampiamente nella pleura, determinando un versamento pleurico e un’importante compromissione, in fase avanzata, della funzionalità e della meccanica respiratoria. La diagnosi precoce sulla base dei sintomi è resa difficoltosa dall’assenza di sintomatologia iniziale o dalla presenza di sintomi sfumati ed aspecifici. Il MPM è causato principalmente dall’esposizione all’amianto e, sebbene questo minerale sia vietato nella maggior parte dei paesi del mondo, poiché la neoplasia è caratterizzata da un lungo periodo di latenza, la messa al bando dell’amianto non è sovrapponibile ad una immediata riduzione di incidenza e mortalità per il MPM. Nonostante le prove scientifiche forniscano una chiara e forte associazione tra amianto e MPM, esiste ancora una parte del mondo in cui questo minerale è prodotto e utilizzato come in paesi in via di sviluppo quali Cina, India, Russia, Kazakistan e Brasile.

L’ipotesi che il mesotelioma risultasse legato all’esposizione all’amianto è stata fatta per la prima volta da Gloyne, nel 1935 in Gran Bretagna. L’esistenza di un rapporto causale tra esposizione all’amianto e insorgenza di mesoteliomi pleurici è stata documentata poi nel 1960 da uno studio epidemiologico di Wagner che ha riferito le proprietà genotossiche e cancerogene dell’amianto documentando una numerosa casistica di mesotelioma pleurico (33 casi) tra i minatori di asbesto (e più in particolare crocidolite) in Sudafrica.

L’incidenza globale di mesotelioma è aumentata nell’ultimo decennio e si prevede raggiungerà il picco prima del 2030. I paesi con il più alto tasso di mesotelioma includono Usa e Regno Unito, tuttavia anche Australia e Italia si classificano in alto a causa di un uso diffuso dell’amianto in passato. La nuova ondata di vittime previste, inoltre, è in quei paesi dove l’estrazione, il commercio e l’uso nel settore manifatturiero è ancora consentita, come India, Vietnam, Cina, Russia, Zambia, Colombia, Kazakistan e Canada.

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Una delle peculiarità di questa patologia è il lungo periodo di latenza, che varia tra 20 e 40 anni, con una prognosi sfavorevole e una sopravvivenza mediana a 1 anno dal momento della diagnosi. Questa lunga latenza rende molto difficile la diagnosi della malattia, in quanto nei pazienti che mostrano i primi sintomi quali versamento pleurico, dolore alla parte bassa della schiena o ad un lato del torace, fiato corto, tosse, stanchezza, perdita di peso, difficoltà a deglutire, il tumore è ormai già considerato in uno stato avanzato con poche possibilità di trattamento. La maggior parte dei pazienti affetti al momento della manifestazione ha 60 anni, con picchi di incidenza a 80-84 anni per gli uomini e 75-79 per le donne. Nel contesto dell’esposizione professionale all’amianto, la prevalenza è maggiore nei maschi rispetto alle femmine con un rapporto di circa 4:1-8:1.

L’Italia è stata uno dei paesi maggiori produttori ed utilizzatori di amianto fino alla fine degli anni ’80. La produzione e l’uso di prodotti contenenti amianto è cessata solamente qualche anno fa in Italia, quando è stato vietato l’utilizzo di questo minerale per la legge n°257 del 27/03/1992. Considerando la lunga latenza della neoplasia ed il largo utilizzo dell’amianto, un aumento dell’incidenza del MPM è previsto per il 2020-2030.

In Italia rappresenta lo 0,4% di tutti i tumori diagnosticati nell’uomo e lo 0,2% di quelli diagnosticati nelle donne; ciò significa che si verificano 3,4 casi di mesotelioma ogni 100.000 uomini e 1,1 casi ogni 100.000 donne. Il numero di casi è in lieve crescita tra le donne, forse perché negli ultimi anni di produzione industriale di materiali contenenti amianto il numero della lavoratici donne era in rapida crescita.

Nelle diverse regioni italiane si osservano enormi differenze nel numero di casi di mesotelioma con i nuovi casi che sono concentrati soprattutto nel Nord del Paese (Liguria, Venezia Giulia, Piemonte e Lombardia), con un’incidenza inferiore al Centro e al Sud (figura 3). Ad esempio, in provincia di Alessandria, dove era presente un’importante industria per la produzione di amianto, si parla di un numero di casi più elevato come 16 su 100.000 per gli uomini e 13 su 100.000 per le donne.

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Figura 3. Nelle cartine una mappa delle regioni italiane in cui il mesotelioma è più diffuso. Il grado di pericolo è espresso dai colori diversi.

2.1 Eziologia

L’amianto (dal greco amiantos: incorruttibile, inattaccabile) o asbesto (dal greco asbestos: che non brucia, perpetuo) è un minerale naturale a struttura fibrosa derivante dalla frantumazione di rocce madri con molte proprietà utili dal punto di vista industriale. È duraturo, resistente a molte reazioni chimiche cosi come al fuoco ed alle alte temperature ed è un ottimo isolante termico, elettrico od acustico. È inoltre elastico, facilmente filabile e fonoassorbente e queste proprietà unite ad un basso costo di produzione hanno fatto dell’amianto un materiale estremamente versatile.

Appartiene alla classe chimica dei silicati (circa il 50% della composizione è biossido di silicio) ed esistono due varianti di questo minerale: SERPENTINO, costituito da fibre morbide e flessibili e l’ANFIBOLO, fibre diritte, rigide e fragili.

Il Crisotilo o amianto bianco (figura 4) è una varietà di serpentino e rappresenta la forma più usata nell’industria. È costituito da silicato idrato di magnesio e si presenta in fibre morbide e flessibili, di lunghezza variabile fino a 7 cm e diametro compreso tra 0,75 e 1,5 µm.

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Figura 4. Fibre di Crisotilo o amianto bianco

Gli Anfiboli sono silicati ad elevato contenuto di ferro e comprendono Crocidolite o amianto blu, Amosite, Tremolite, Antofillite, Actinolite (figura 5); anche se sono meno diffusi, sono più patogeni dei crisotili, soprattutto nell’induzione di tumori pleurici maligni a causa della loro struttura rigida, lineare e della notevole fragilità e spiccata tendenza a dividersi longitudinalmente in sub-unità fibrillari. La loro lunghezza è variabile e il diametro varia tra 1,5-4 µm, con diametro delle sub-unità fibrillari variabile tra 0,1-0,2 µm.

Actinolite Amosite Antofillite

Crocidolite Tremolite

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Di conseguenza l’amianto, estratto per secoli, è sempre stato utilizzato con una varietà di applicazioni in tutto il mondo specialmente nell’industria pesante (siderurgia, impianti siderurgici e metallurgici, industria chimica, elettrica, automobilistica) e nelle attività di costruzione. Le sue più diffuse applicazioni sono state tanto come spray (mischiato cioè a leganti non troppo tenaci) da applicare ad elementi metallici od altro con funzioni isolanti, oppure impastandolo con altri materiali (la cosiddetta matrice) a cominciare dal cemento. In questo modo è stata aumentata la resistenza del cemento contenendo il peso e rendendo più facile realizzare elementi prefabbricati. A questo scopo si impiegavano sia l’amianto anfibolo (tremolite) sia quello serpentino. In Italia il cemento-amianto, noto come Eternit, era utilizzato soprattutto per l’elemento ondulato con il quale venivano realizzate le coperture dei tetti (principalmente nel nord Italia). Veniva utilizzato anche in altri manufatti, come le condutture e cisterne dell’acqua o i pannelli, usati per isolare acusticamente e termicamente gli edifici. Anche nei mezzi di trasporto l’amianto aveva un ruolo cruciale: garantiva la frenata di auto, moto e veicoli pesanti. Il materiale d’attrito delle pastiglie dei freni a disco, e delle ganasce di quelli a tamburo, conteneva amianto. Un altro settore dove l’amianto è stato largamente sfruttato per le sue caratteristiche di materiale fonoassorbente e termoisolante a basso costo è stato quello della cantieristica navale.

La produzione commerciale mondiale di amianto ha raggiunto il picco di oltre 5 milioni di tonnellate negli anni ’70 e l’OMS stima che 125 milioni di lavoratori annualmente nel mondo siano esposti all’amianto, sia sul posto di lavoro che a casa e che esso sia responsabile di circa 40.000 morti ogni anno.

L’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha confermato che tutte le forme fibrose di amianto (Actinolite, Amosite, Antofillite, Tremolite, Crocidolite, Crisotilo) sono cancerogene per l’uomo, causando il mesotelioma. Ad oggi l’amianto comprende circa 400 forme di fibre che sono conosciute in natura, ma tra queste solo le 6 menzionate in precedenza sono regolamentate a causa del loro uso commerciale. Lo sviluppo della malattia dipende dalla concentrazione, dimensioni, forma e solubilità delle particelle di amianto. Non esiste una soglia sotto la quale si può essere certi della non pericolosità dell’amianto, ma occorre comunque rimarcare che una sola fibra non può provocare il cancro, in quanto è necessaria una “dose cumulativa” sufficiente.

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L’80% dei casi di mesotelioma riconosce l’esposizione all’amianto come causa del tumore, anche se solo il 5% delle persone esposte alle fibre di amianto si ammalano di mesotelioma.

Tutto ciò fa pensare che esistano anche altre cause o concause di malattia. Si è ipotizzato che un’altra causa del mesotelioma possa essere un virus, denominato Simian Virus 40 (SV 40) (figura 6); SV40 è un virus appartenente al genere Polyomavirus, della famiglia dei Papovaviridae; si tratta di un virus a DNA a doppio filamento costituito da un capside a simmetria icosaedrica del diametro di 45 nm e privo di pericapside (virus nudo). L’ospite naturale del virus è rappresentato da alcune specie di scimmie ed il suo passaggio nella specie umana si presume sia avvenuto attraverso la somministrazione di vaccini antipolio contaminati, perché prodotti a partire da colture di cellule renali di scimmia infette. Il virus è stato progressivamente accreditato come un potenziale co-cancerogeno dell’amianto, quando prima Carbone et al. su pazienti americani e poi Cristaudo et al. su pazienti italiani riscontrarono la presenza di sequenze di DNA del tutto simili a quelle di SV40 in una elevata percentuale di campioni di MPM. Lo studio di Cristaudo et al. (2005) era incentrato sul tema dell’interazione tra SV40 e amianto nella patogenesi di MPM ed i risultati hanno messo in luce che la positività a SV40 incrementava il rischio di sviluppare il MPM nei soggetti ex esposti all’amianto di più di quattro volte. Inoltre, recenti indagini immunologiche condotte da Mazzoni et al. (2012) presso l’università di Ferrara hanno rilevato una maggior prevalenza di anticorpi diretti a proteine del capside di SV 40 in sieri di pazienti con MPM se confrontati con donatori di sangue sani.

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La predisposizione genetica e l’esposizione alle radiazioni sembrano giocare anch’esse un ruolo chiave come fattori eziologici, da soli o con l’amianto, per contribuire allo sviluppo del MPM.

Per ciò che concerne la predisposizione genica, alcuni studi clinici hanno cercato di comprendere come mai in alcuni villaggi sembrava esserci predisposizione genetica al MPM ed è stata individuata una mutazione a carico della linea germinale nel gene BAP1, ereditata in modo autosomico dominante che predisponeva al MPM (Testa et al., 2011). Gli individui che portano mutazioni in eterozigosi a carico della linea germinale del gene BAP1 sviluppano molteplici tumori incluso il mesotelioma, anche se non sono esposti all’amianto, suggerendo, inoltre, che potrebbero aver acquisito una maggior suscettibilità a sviluppare la malattia a livelli molto bassi di esposizione all’amianto, che altrimenti sarebbero innocui per la maggior parte della popolazione. Questa ipotesi è stata supportata da uno studio condotto da Napolitano et al. (2016) in cui i topi che presentavano questa mutazione in eterozigosi per la linea germinale del gene BAP1 esposti a basso dosaggio di fibre di amianto hanno mostrato alterazioni significative della risposta infiammatoria e di conseguenza una maggior suscettibilità a sviluppare mesotelioma.

Uno studio precedente, inoltre, condotto da Michele Carbone (2011) ha riportato casi di MPM in individui esposti ad erionite, un minerale fibroso simile all’amianto presente in Cappadocia ed in Turchia, molto più cancerogeno, ma non regolato perché non è definito come amianto. L’erionite appartiene ad una famiglia di alluminosilicati idrati, noti come zeoliti e, sebbene, possegga una morfologia simile all’asbesto anfibolo, ha proprietà fisiche e chimiche differenti. Lo studio dei villaggi in Turchia in cui gli abitanti erano stati esposti a forme di erionite fin dalla nascita ha mostrato un’incidenza estremamente elevata di MPM che presentava un nesso di causalità con l’esposizione al minerale.

2.2 Classificazione

In base al distretto corporeo colpito, i mesoteliomi si dividono in:

1) Mesotelioma pleurico: nasce nella cavità toracica ed è la tipologia più diffusa (circa 3 casi su 4).

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2) Mesotelioma peritoneale: rappresenta la quasi totalità dei mesoteliomi rimasti (escludendo quello pleurico, circa il 20% dei casi) e nasce nell’addome.

3) Mesotelioma pericardico: nasce nella cavità attorno al cuore ed è abbastanza raro.

4) Mesotelioma della tunica vaginale: nasce dalla membrana che riveste i testicoli ed è molto raro.

2.3 Stadiazione

Determinare lo stadio del tumore, ovvero quanto è estesa la malattia, è essenziale per decidere il tipo di terapia. Per il mesotelioma vengono infatti individuati quattro stadi sulla base dei criteri TNM (Tumor-Node-Metastasis) che tengono conto dell’estensione del tumore (T), dell’eventuale coinvolgimento dei linfonodi regionali adiacenti al tumore (N) e della presenza di metastasi a distanza (M).

Questo sistema è stato proposto dal chirurgo francese Pierre Denoix nel 1946 e adottato dall’International Mesothelioma Interest Group (IMIG).

Nel 2017 è stata pubblicata l’ottava edizione della stadiazione TNM del MPM. Rispetto alla precedente classificazione, viene eliminata la suddivisione del descrittore T1 in T1a e T1b per assenza di differenze in termini di sopravvivenza e per quanto riguarda il descrittore N, sono stati creati un nuovo N1 (che comprende i descrittori N1 e N2 della settima edizione) ed un nuovo N2 (precedentemente N3).

Stadiazione secondo i criteri TNM (Ottava Edizione): Classificazione Descrizione

T Tumore primitivo

Tx Il tumore primitivo non può essere definito

T0 Assenza di evidenza del tumore primitivo

T1 Il tumore coinvolge la pleura parietale omolaterale oppure la sola pleura viscerale, con o senza coinvolgimento di pleura viscerale, mediastinica o diaframmatica

T2 Il tumore coinvolge la pleura omolaterale (viscerale o parietale) con almeno uno dei seguenti aspetti:

- Coinvolgimento del muscolo diaframma - Invasione del parenchima polmonare

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T3 Il tumore coinvolge la pleura omolaterale (viscerale o parietale) con almeno uno dei seguenti aspetti:

- Coinvolgimento della fascia endotoracica - Invasione del grasso mediastinico

- Focus solitario di tumore che invade i tessuti molli della parete toracica

- Coinvolgimento del pericardio non transmurale

T4 Il tumore coinvolge la pleura omolaterale (viscerale o parietale) con almeno uno dei seguenti aspetti:

- Estensione diffusa alla parete toracica con o senza erosione costale associata

- Estensione diretta al peritoneo attraverso il diaframma - Estensione alla pleura controlaterale

- Estensione diretta del tumore agli organi mediastinici (esofago, trachea, cuore, grandi vasi)

- Estensione diretta del tumore alle vertebre, forami intervertebrali, midollo spinale

- Estensione del tumore alla superficie interna del pericardio (con o senza versamento pericardico)

N Linfonodi regionali

NX Linfonodi non valutabili

N1 Metastasi ai linfonodi intratoracici omolaterali (bronco-polmonari, ilari, sottocarinali, paratracheali, aorto-polmonari, paraesofagei, peridiaframmatici, del grasso del cuscinetto pericardico, intercostali e mammari interni)

N2 Metastasi ai linfonodi intratoracici controlaterali; metastasi ai linfonodi omolaterali o controlaterali sovraclaveari

M Metastasi a distanza

M0 Assenza di metastasi a distanza

M1 Presenza di metastasi a distanza

Stadio T N M

IA T1 N0 M0

IB T2, T3 N0 M0

II T1, T2 N1 M0

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IIIB T1, T2, T3 N2 M0

T4 Qualsiasi N M0

IV Qualsiasi T Qualsiasi N M1

Come per la maggior parte dei tumori, anche per il mesotelioma minore è lo stadio, migliori sono le probabilità di riuscita del trattamento, anche se spesso la diagnosi di questo tumore arriva quando la malattia ha già superato gli stadi iniziali e risulta così difficile da trattare.

2.4 Istologia

Il mesotelioma maligno è suddiviso in tre categorie, a seconda delle caratteristiche delle cellule che lo costituiscono: mesotelioma epitelioide, sarcomatoide e bifasico (o misto) (figura 7).

1) Mesotelioma a cellule epitelioidi: rappresenta il 50-70% di tutti i mesoteliomi maligni. È caratterizzato da cellule poligonali, ovali o cuboidali simili ai carcinomi con un ampio citoplasma eosinofilo e nuclei uniformi con nucleolo prominente disposti in aggregati solidi che tendono a formare strutture tridimensionali; la sua morfologia può essere confusa con quella dei carcinomi polmonari non a piccole cellule. Risponde meglio alla chemioterapia con una sopravvivenza più lunga rispetto ai sottotipi sarcomatoidi e bifasici.

2) Mesotelioma sarcomatoide: è la forma meno comune di mesotelioma (10-15% dei casi), ma è quella che si presenta più resistente ai trattamenti. È caratterizzato per la presenza di una proliferazione a cellule fusate arrangiate in corti fascicoli con pattern storiforme o disordinato che infiltra i tessuti molli della pleura parietale o il parenchima polmonare e dalla presenza di morfologia delle cellule simile ai sarcomi.

3) Mesotelioma bifasico (o misto): rappresenta il 30% dei casi di mesotelioma ed è composto da entrambe le forme epitelioide e sarcomatoide, in proporzione diverse all’interno dello stesso tumore e probabilmente corrisponde ad una transizione tra gli altri due sottotipi istologici.

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Mesotelioma epitelioide Mesotelioma sarcomatoide

Mesotelioma bifasico (o misto)

Figura 7. Rappresentazione dei tre sottotipi istologici di mesotelioma al microscopio

2.5 Patogenesi

È noto che l’inalazione delle fibre di amianto con certe caratteristiche fisico-chimiche, rimanendo intrappolate permanentemente nel tessuto polmonare, causa il mesotelioma negli umani. Il danno polmonare da amianto può presentarsi in varie forme, dal versamento pleurico benigno, ad un ispessimento pleurico diffuso fino al MPM.

È stato ampiamente dimostrato come la qualità aerodinamica delle diverse fibre di amianto sia rilevante nella patogenesi delle lesioni pleuriche; un alto rapporto lunghezza/diametro permette una più profonda penetrazione nelle vie aeree, con un aumento del rischio di danno polmonare e pleurico. In particolare, la Crocidolite ed il gruppo degli anfiboli sono quelli con la più elevata patogenicità a causa delle loro proprietà aerodinamiche e per la solubilità delle loro fibre dritte e rigide. La lunghezza

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delle fibre di anfiboli, infatti, gioca un ruolo significativo nella patogenicità: le fibre più lunghe di 8 µm e più sottili di 0,5 µm risultano più lesive di quelle con lunghezza minore e spessore maggiore. La struttura più flessibile e spiraliforme dei crisotili è, invece, più adatta a venir compressa durante il passaggio nelle vie aeree superiori.

Gli effetti genotossici dell’amianto possono generarsi attraverso numerosi meccanismi, di cui si ritiene che la formazione di specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto (ROS/RNS) sia particolarmente importante. A seguito dell’inalazione di fibre di amianto, ROS e RNS possono essere generate nel polmone sia da reazioni di tipo Fenton catalizzate dal ferro presente sulla superficie delle fibre sia attraverso l’infiammazione cronica indotta come risultato di una prolungata attività fagocitotaria dei macrofagi diretta contro le fibre biopersistenti e di conseguenza avremo stress ossidativo che porterà a danni a livello del DNA. Le fibre di amianto possono causare una varietà di lesioni a livello del DNA cellulare, come le rotture del filamento di DNA, mutazioni puntiformi nei geni correlati al cancro (oncosoppressori e oncogeni), modificazioni in proteine cellulari che sono coinvolte nella riparazione del DNA e nell’apoptosi e, infine, modificazione delle basi azotate. Il composto 8-idrossi-2’-desossiguanosina, il principale prodotto di tale danno ossidativo, causa le trasversioni G →T e A→C. Il danno causato da una mutazione può essere compensato da opportuni meccanismi riparatori, che sono in grado di ripristinare la struttura fisiologica del DNA; tuttavia tali meccanismi possono diventare insufficienti, ed un accumulo di mutazioni arriva a causare la degenerazione neoplastica.

La mancata degradazione delle fibre di amianto che, dunque, restano intrappolate nel tessuto polmonare porta ad uno stato di infiammazione cronica che prevede il continuo rilascio di citochine proinfiammatorie e specie ossidanti da parte dei macrofagi e ciò causa uno stato di ulteriore infiammazione, fibrosi e genotossicità a carico delle cellule mesoteliali. Nel processo infiammatorio vengono rilasciate citochine e fattori di crescita quali il fattore di necrosi tumorale-α (TNF-α), il fattore di crescita derivato delle piastrine (PDGF), le interleuchine 6 e 8 (IL-6 e IL-8), il fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) e il fattore di crescita degli epatociti (HGF). È noto che l’infiammazione contribuisce allo sviluppo dei tumori promuovendo la proliferazione cellulare e attivando i percorsi anti-apoptotici. È stato dimostrato che questo processo di

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infiammazione cronica porta alla trasformazione maligna delle cellule mesoteliali in vitro (Mossman et al., 2011).

Una visione ampiamente accettata assume che il primo passo verso il MPM sia l’interazione delle fibre di amianto con le cellule mesoteliali umani pleuriche (HMC) e presumibilmente quando le fibre di amianto penetrano all’interno della pleura, la cellula mesoteliale subisce inoltre una morte cellulare programmata, rilasciando nello spazio extracellulare la proteina High Mobility Group Box 1 (HMGB1), una proteina che media l’infiammazione cronica attraverso il reclutamento di macrofagi che secernono il fattore di necrosi tumorale-α (TNF-α). La via pro-infiammatoria e pro-sopravvivenza mediata da NF-Kb viene successivamente attivata e porta cosi alla resistenza all’apoptosi, alla trasformazione delle cellule mesoteliali e al mantenimento del fenotipo maligno.

La patogenesi del mesotelioma maligno può essere riassunta attraverso tre meccanismi:

1) Il recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR) può essere un iniziale bersaglio delle fibre di amianto portando all’attivazione di MAPK e all’induzione della proliferazione.

2) Le specie reattive dell’ossigeno (ROS) generate direttamente dall’amianto o indirettamente dall’infiammazione inducono l’attivazione di fattori trascrizionali (AP1, NF-Kb) che contribuiscono alla regolazione delle citochine infiammatorie, le quali a loro volta interagiscono con i loro recettori stimolando la produzione di fattori di crescita, come VEGF.

3) I radicali liberi generati durante l’infiammazione causano danni al DNA, includendo mutazioni puntiformi nei geni correlati al cancro (oncosoppressori e oncogeni), e modificazioni in proteine cellulari che sono coinvolte nella riparazione del DNA e nell’apoptosi. Le lesioni mutagene al DNA che non vengono riparate si accumulano nel genoma delle cellule portando così alla loro trasformazione (figura 8).

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Figura 8. Schema che illustra la patogenesi del mesotelioma pleurico maligno (Biomarkers for early detection of malignant mesothelioma: diagnostic and therapeutic application, Tomasetti et al, 2010)

2.6 Meccanismi molecolari sottostanti al MPM

Un gran numero di studi effettuati negli ultimi 20 anni ha portato all’identificazione di disregolazioni dei processi biologici che possono svolgere un ruolo significativo nello sviluppo del MPM. Gli studi hanno mostrato che il MPM è caratterizzato da un’aumentata proliferazione cellulare (sottoregolazione di geni oncosoppressori, sovraespressione di oncogeni), inibizione dell’apoptosi ed alterazione dell’omeostasi del Ca2+ intracellulare. Questo ampio spettro di mutazioni geniche indica che la

proliferazione anomala delle cellule neoplastiche non è causata dall’attività oncogenica di uno o più oncogeni, come avviene in molti tumori (ad esempio KRAS e cancro al pancreas o polmone, BRCA1 e cancro al seno). In questo caso, si tratta piuttosto di un danno casuale esteso al DNA.

2.6.1 Geni oncosoppressori

Numerosi geni oncosoppressori sono alterati nel mesotelioma, in particolare NF2, CDKN2A (p16INK4a), CDKN2B (p15INK4b) e BAP1. Essi svolgono un ruolo cruciale nella

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regolazione del ciclo cellulare e l’inattivazione e/o perdita della loro funzione è uno degli eventi fondamentali nello sviluppo del tumore.

NF2 è inattivata attraverso mutazioni o delezioni. NF2 è un gene oncosoppressore localizzato sul cromosoma 22q12 che codifica per la proteina neurofibromina 2 (o merlin), capace di sopprimere la tumorigenesi con modalità del tutto definite. L’assenza di merlin causa l’attivazione di molteplici pathways, incluse mTOR e Hippo. Merlin è in grado di modulare negativamente la via del mTOR, la quale è coinvolta nei processi di crescita cellulare e risulta attivata in molti tumori maligni; mentre la via molecolare Hippo regola lo sviluppo determinando le dimensioni degli organi attraverso la regolazione del ciclo cellulare, della proliferazione e dell’apoptosi.

La delezione del locus 9p21 è una delle alterazioni più comuni e comporta la perdita di p16, p14 e p15, geni oncosoppressori che codificano per proteine inibitrici delle chinasi-ciclina dipendente, fondamentali nella regolazione del ciclo cellulare. La proteina p16 svolge un ruolo nell’iperfosforilazione sostenuta dalla proteina del retinoblastoma, inattivandola. La proteina p14 (o ARF) è una proteina che stimola l’apoptosi. Agisce rimuovendo l’inibitore MDM2 (murine double minute 2) della proteina p53 (descritta anche come “guardiano del genoma” grazie al suo ruolo di preservazione della stabilità attraverso la prevenzione delle mutazioni), permettendo quindi la sua azione. La perdita di questi geni ha un forte impatto sul controllo del ciclo cellulare. La delezione in omozigosi è l’alterazione che porta più frequentemente all’inattivazione di p16 ed è presente nel 70-85% dei mesoteliomi (più elevata nella forma sarcomatoide).

Mediamente, il 25-60% dei mesoteliomi è caratterizzato da perdita di BAP1 in seguito a delezioni e mutazioni geniche. BAP1 è una proteina nucleare con funzione deubiquitinasica, che si trova associata con complessi multi-proteici che regolano vie cellulari fondamentali quali il ciclo cellulare, la differenziazione cellulare, la morte cellulare, la gluconeogenesi e la risposta al danno del DNA (DDR).

2.6.2 Oncogeni

Gli oncogeni promuovono la trasformazione guidando la proliferazione cellulare e prevenendo l’apoptosi. Alcuni di questi geni sono coinvolti nella regolazione dei livelli intracellulari di Ca2+, un importante regolatore di molti processi fisiologici, compresa la

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regolazione dell’apoptosi delle cellule tumorali. Il rimodellamento dell’omeostasi Ca2+

intracellulare, come conseguenza dell’attività di diverse proteine con funzioni alterate, è una caratteristica generale delle cellule tumorali. È ampiamente accettato che sia le proteine Bcl-2 che Akt sono cofattori dei percorsi dipendenti da Ca2+ che portano

all’apoptosi. Un membro antiapoptotico della famiglia delle proteine Bcl-2 e l’oncogene Akt risultano essere disregolati nelle cellule di mesotelioma e livelli elevati dell’attività di Akt sono stati trovati nel 65% dei campioni di mesotelioma umano.

Diversi studi hanno dimostrato che l’aumento della proliferazione cellulare del mesotelioma deriva dall’attività dei fattori di crescita e dei loro specifici recettori transmembrana, espressi in modo anomalo nel MPM umano. Il recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR) è un importante oncogene strettamente coinvolto in molti tipi di cancro ed il suo prodotto genico è una glicoproteina transmembrana appartenente alla famiglia dei recettori tirosin chinasici. Il legame tra EGFR ed il suo ligando induce la proliferazione cellulare, inibisce l’apoptosi e l’espressione delle proteine della matrice extracellulare. Studi precedenti hanno mostrato la sovraespressione di EGFR in tessuti e cellule di MPM ed una correlazione tra la cancerogenicità delle fibre di amianto e l’induzione della fosforilazione di EGFR è stata osservata nelle cellule mesoteliali pleuriche nel ratto, suggerendo il suo potenziale ruolo nella patogenesi di questo tumore. Il fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGF) ed il suo recettore (VEGFR) sono sovraespressi in campioni umani di MPM nei quali possono stimolare la crescita tumorale e promuovere l’angiogenesi e la linfangiogenesi.

2.7 Diagnosi

Il MPM è difficile da diagnosticare per l’ampia gamma di patologie che simulano questa neoplasia: sia altri tumori maligni primari o secondari del polmone (metastasi di carcinomi o sarcomi) sia condizioni non neoplasiche (proliferazione reattiva del mesotelio o fibrosi della pleura). La diagnosi di certezza del MPM è importante sia per pianificare un corretto regime terapeutico, sia per definire la prognosi, la quale molte volte non va oltre i 12 mesi.

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Il primo passo verso una corretta diagnosi del MPM è la visita da parte del medico di base o di uno specialista che porrà domande sulla storia clinica per determinare un’eventuale esposizione all’amianto. I sintomi del MPM comprendono oppressione toracica, dolore e mancanza di respiro e, nel 90% dei pazienti, questi sintomi saranno causati dalla presenza di un versamento pleurico (PE) (figura 9).

Figura 9. Accumulo di liquido pleurico

In caso di sospetto mesotelioma poi si procede ad esami più specifici:

1) Radiografia del torace: è l’indagine radiologica di più frequente esecuzione nella pratica clinica e si basa sull’utilizzo di raggi X, ovvero radiazioni ionizzanti che permettono di vedere le strutture del torace, in particolare polmoni, cuore e vasi del mediastino, coste e vertebre di un tratto della colonna vertebrale individuando eventuali anomalie presenti. È di rapida esecuzione e non invasiva, sottopone il paziente ad una bassa dose di radiazioni e ciò fa si che possa essere eseguita in ogni paziente e condizione clinica. Il risultato (figura 10) è un’immagine che evidenzia in modo differente le ossa rispetto ai tessuti molli, in quanto i raggi X che attraversano il paziente vengono in parte attenuati dalle strutture più dense come le ossa ed in parte completamente assorbiti dai tessuti

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molli come i muscoli, il grasso e gli altri organi. Di conseguenza, sulle immagini, le ossa appariranno bianche ed i tessuti molli assumeranno diverse tonalità di grigio. Evidenzia anomalie nei polmoni o nella pleura, come modificazioni dello spessore o depositi di calcio. È anche possibile osservare placche ed ispessimenti pleurici correlati ai depositi di amianto. È comune un aumento di spessore della grande scissura secondario alla neoplasia.

Figura 10. Radiografia toracica di un paziente con MPM

2) Tomografia computerizzata (TC) del torace: utilizza raggi X, il cui assorbimento da parte delle strutture corporee esaminate viene valutato tramite una metodica statistico-matematica (computerizzata) ottenendo immagini che permettono di evidenziare ispessimento e calcificazione della pleura (figura 11). Non distingue tra patologie benigne o maligne e tra adenocarcinoma e mesotelioma, ma permette di determinare la presenza del tumore, la sua posizione esatta e la sua eventuale diffusione ad altri organi, aiutando anche il chirurgo a definire il tipo di intervento più adatto. Può essere condotta mediante l’ausilio di mezzo di contrasto, ovvero dopo aver iniettato in una vena del paziente una sostanza che, distribuendosi nei tessuti, aumenta la qualità delle immagini e l’accuratezza dell’esame. Oggi viene anche utilizzata con più efficacia la cosiddetta TC spirale,

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la quale si rivela più veloce rispetto alla tradizionale e permette di ottenere immagini più dettagliate delle strutture polmonari. Espone, inoltre, il paziente ad una dose inferiore di radiazioni e quindi è più adatta anche per lo stretto monitoraggio di pazienti a rischio.

Figura 11. Valutazione tramite TC di MPM. A destra (dx) il polmone ha un margine sottile e ben definito, ossia la pleura di rivestimento ha una normale conformazione. A sinistra (sx) il polmone è ridotto ad una piccola quota nera centrale, mentre tutta la parte grigia è pleura “ispessita”. Una biopsia in tale sede ha

condotto a diagnosi di MPM.

3) PET: consiste nella tomografia ad emissione di positroni e permette di identificare le cellule che stanno crescendo più velocemente e che corrispondono alle cellule tumorali. Le immagini ottenute sono meno dettagliate rispetto a quelle della TC, ma possono aiutare i medici a capire se le lesioni del mesotelio sono tumori o lesioni di altro genere e se il tumore si è diffuso ai linfonodi o ad altri parti del corpo. A differenza della TC e della risonanza magnetica, che forniscono informazioni di tipo morfologico (aspetto) della porzione anatomica esaminata, attraverso la PET si ottengono mappe di tipo fisiologico, ovvero che concernono il funzionamento dei tessuti o degli organi

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interessati. Oggi esistono strumenti che permettono di effettuare in un’unica seduta sia TC che PET.

4) Risonanza magnetica: permette di ottenere immagini dettagliate dei tessuti molli del corpo, come la TC, ma senza l’utilizzo di raggi X. In caso di mesotelioma può essere utile per valutare la salute del diaframma, la sottile membrana muscolare al di sotto dei polmoni indispensabile per la respirazione, ed eventuali infiltrazioni della malattia nella parete toracica.

5) Biopsia: è lo strumento più efficace per confermare il sospetto di mesotelioma. In alcuni casi con un ago lungo e sottile vengono prelevati campioni di liquido presenti nel torace (toracentesi) e si verifica al microscopio la presenza di cellule tumorali. In altri casi, invece, è necessario prelevare piccole porzioni di tessuto mesoteliale mediante l’uso di un ago sottile inserito sotto pelle insieme ad una sonda dotata di videocamera attraverso un piccolo taglio nella pelle: in questo modo il medico può vedere le aree sospette e prelevare i campioni che vengono poi analizzati al microscopio. Per distinguere con certezza il mesotelioma da altri tipi di tumore, i campioni prelevati con la biopsia possono essere sottoposti ad analisi immunoistochimiche (per vedere le proteine presenti sulla superficie della cellula) o genetiche (per individuare l’espressione di geni tipica del mesotelioma).

6) Esami del sangue: non sono in genere utilizzati per arrivare ad una diagnosi, ma per confermarne una ottenuta con altre tecniche o seguire l’andamento della malattia durante e dopo il trattamento. Si misurano, in particolare, i livelli del SMRP (peptide correlato alla mesotelina solubile), ma si possono anche valutare i livelli di osteopontina, HMGB-1 (high mobility group box 1), fibulina-3, MPF (fattore di potenziamento dei megacariociti) e miRNA che sono stati studiati in questi ultimi anni come possibili biomarcatori per la diagnosi del MPM ed i risultati di questi studi saranno discussi nel corso di questa tesi.

L’obiettivo degli accertamenti diagnostici strumentali è quello di valutare l’estensione delle metastasi nel torace ed eventualmente in altri organi, mentre la conferma o la smentita del sospetto diagnostico di MPM si ottiene attraverso l’esame del liquido

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pleurico (esame citologico) o di un frammento di pleura (esame istologico). Il mesotelioma, infatti, è un tumore molto eterogeneo, perciò può essere erroneamente confuso con altre patologie benigne o maligne, interessanti la pleura.

L’esame citologico prevede il campionamento di cellule mediante il prelievo di versamenti e, oltre ad essere molto difficile, non consente un livello di certezza assoluto, così è sempre raccomandabile la conferma istologica. Con l’esame citologico, inoltre, è possibile la diagnosi solo del MPM epitelioide, ma non sarcomatoide in quanto raramente le cellule sarcomatoidi vengono riversate nello spazio pleurico.

Il “gold standard” attuale della diagnosi del MPM è l’esame microscopico di campioni di tessuto adeguati e rappresentativi della lesione attraverso l’utilizzo di una combinazione di due marcatori immunoistochimici negativi e due positivi validi per il MPM di tipo epitelioidi e di tipo bifasico, ma non per quello di tipo sarcomatoide poiché non ha marcatori specifici, il che rende più difficile la sua diagnosi. Le tecniche immunoistochimiche sono, dunque, quelle attualmente imprescindibili nella diagnosi istopatologica ruotinaria del MPM ed essenziali nella conferma della derivazione mesoteliale della neoplasia rispetto alla possibilità di una metastasi da carcinomi in altri sedi. I marcatori positivi per mesotelio sono: calretinina, citocheratina 5/6, podoplanina/D2-40 e Wilms tumor 1 (WT-1) (figura 12), mentre tra i marcatori negativi per il mesotelio e che sono a favore della diagnosi di metastasi di carcinoma ci sono CEA monoclonale, B72.3, Ber-EP4, Bg-8, MOC31, CD15, MUC4, claudina 4. In considerazione del tipo di diagnosi differenziale, esistono marcatori immunoistochimici non espressi nel mesotelioma e specifici per alcuni tipi di carcinoma: TTF-1 e napsina per l’adenocarcinoma polmonare, CD10 e PAX8 per il carcinoma renale, il PSA per il carcinoma prostatico e CDX2, villina, CK20 per i carcinomi intestinali.

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Figura 12. Colorazione differente per Calretinina e CK 5,6 in campioni istologici di Mesotelioma e Adenocarcinoma attraverso tecniche di immunoistochimica

In accordo con le raccomandazioni dell’International Mesothelioma Panel, quando occorre distinguere tra MPM epitelioide e un adenocarcinoma (figura 13), l’eventualità più frequente nella pratica quotidiana, il pannello anticorpale deve includere almeno 2 marcatori positivi per il mesotelio (calretinina e, a scelta, uno tra citocheratina 5/6, podoplanina/D2-40 o WT-1) e 2 marcatori epiteliali (CEA monoclonale, CD15, Ber-EP4, MOC-31, B72.3, BG8 e TTF1).

Figura 13. Marcatori utili nella diagnosi differenziale istologica tra Mesotelioma e Adenocarcinoma polmonare

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2.8 Trattamento terapeutico

Il trattamento terapeutico tradizionale include diverse possibilità, che possono essere usate singolarmente e/o in associazione, a seconda dell’estensione della malattia e delle condizioni generali del paziente. Il mesotelioma pleurico può essere operato con chirurgia, trattato con radioterapia e chemioterapia, eventualmente in combinazione tra di loro.

Attualmente il trattamento trimodale che comprende chemioterapia, chirurgia e radioterapia fornisce i risultati migliori a lungo termine; tuttavia, sebbene questo approccio sia cosi aggressivo, la prognosi rimane scarsa.

I pazienti selezionati con malattia operabile e un buono stato di salute dovrebbero essere candidati per una terapia multimodale. La chirurgia è raccomandata per quei pazienti che si trovano in stadio I in cui il tumore è localizzato e non metastatizzato ai linfonodi od altri organi e tessuti e hanno quindi potenziale tolleranza chirurgica. I pazienti che non sono operabili perché hanno la funzione cardiopolmonare compromessa possono essere trattati con la chemioterapia. I pazienti con stadio II dove il tumore è più grande e ha invaso gli organi vicini, come il polmone od il diaframma e potrebbe aver coinvolto i linfonodi e quelli con stadio III dove il mesotelioma ha invaso una regione od un’area come la parete toracica, l’esofago od i linfonodi dovrebbero essere trattati con terapia multimodale con chirurgia, chemioterapia e radioterapia. La chemioterapia da sola è raccomandata per i pazienti che non sono operabili con la malattia presente allo stadio IV e/o presentano il sottotipo istologico sarcomatoide.

2.8.1 Chirurgia

La chirurgia, da sola od insieme a chemioterapia e/o radioterapia, si prefigge di sradicare il tessuto maligno e può avere scopo curativo e palliativo. Nel primo caso l’intervento è mirato a rimuovere completamente il tumore che deve essere ben localizzato, mentre nel caso della chirurgia palliativa il tumore è già diffuso e lo scopo principale è quello di aiutare il paziente ad alleviare i sintomi riducendo il dolore e controllando il versamento pleurico; tuttavia la chirurgia è limitata ai pazienti con MPM che si trovano allo stato iniziale e con una buona funzione cardiopolmonare. Tipicamente, a questa tecnica

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chirurgica fa seguito terapia adiuvante allo scopo di eliminare possibili residui microscopici della neoplasia.

La rimozione del liquido mediante un ago lungo e sottile dalla cavità toracica (toracentesi) a scopo palliativo è in grado di dare sollievo, ma ha il difetto di dover essere ripetuta periodicamente, dal momento che il liquido tende a riformarsi.

Il ruolo della chirurgia influenza la sopravvivenza dei pazienti con MPM. Nell’analisi condotta dall’International Association for the study of Lung Cancer Mesothelioma Database, i pazienti con MPM che sono stati sottoposti a chirurgia con intento curativo avevano una sopravvivenza media di 18 mesi (in particolare 21 mesi se nello stadio 1, 19 mesi se nello stadio 2, 16 mesi se nello stadio 3, 12 mesi se nello stadio 4) confrontati con i 12 mesi di sopravvivenza della chirurgia con intento palliativo.

Esistono due procedure chirurgiche comunemente utilizzate per i pazienti con MPM:

1) Pleurectomia/decorticazione (P/D): consiste nell’asportazione completa dei due foglietti pleurici macroscopicamente interessati dalla neoplasia, con risparmio del parenchima polmonare.

2) Pneumonectomia extrapleurica (EPP): tipo di opzione chirurgica più radicale e più estesa che prevede l’asportazione del polmone, delle pleure, del pericardio e parte del diaframma. Nel caso in cui il tumore non abbia macroscopicamente invaso il pericardio e/o il diaframma, queste strutture vengono lasciate intatte.

La resezione radicale senza residui macroscopici di malattia è l’obbiettivo primario della chirurgia con intento curativo; l’istologia epitelioide è associata a una migliore prognosi, mentre i sottotipi sarcomatoide e bifasico sono molto poco influenzati dal trattamento e costituiscono controindicazione a interventi aggressivi come l’EPP.

Pochi pazienti sono candidabili alla pneumonectomia extrapleurica (EPP) dopo l’accertamento pre-operatorio dello status generale dei pazienti, dato il rischio elevato di complicanze post-operatorie.

Né con la P/D né con la EPP la guarigione della malattia viene garantita al 100% dei pazienti e, nonostante, un corretto intervento, rimane comunque un alto rischio che la malattia si ripresenti.

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La procedura ottimale per la resezione di MPM (P/D o EPP) è controversa e dipende da fattori clinici e dalle preferenze e competenze chirurgiche individuali. Flores et al. nel 2008 hanno mostrato, in uno studio condotto su 663 pazienti sottoposti a EPP o P/D, che la mortalità operatoria dopo EPP è più alta se confrontata con P/D (rispettivamente 7 contro 4%); inoltre, la procedura P/D ha una sopravvivenza migliore rispetto a EPP (rispettivamente 16 contro 12 mesi). Le evidenze pubblicate in letteratura riguardanti la possibile superiorità di uno dei due principali tipi di interventi con intento radicale (EPP vs P/D) forniscono, però, dati contrastanti.

Lo studio Mesothelioma And Radical Surgery (MARS) è stato concepito per rispondere al quesito relativo al ruolo della chirurgia radicale (Pneumonectomia extrapleurica o EPP) nel trattamento del MPM. Le controversie destate da questo studio sono state tante, in quanto il gruppo di pazienti sottoposti a EPP nell’ambito della terapia trimodale ha avuto sopravvivenza minore (14,4 mesi) rispetto al gruppo non sottoposto a EPP (19,5 mesi). Ad oggi solo il 23% dei chirurghi europei ed il 45% di quelli nordamericani contemplano il ricorso a EPP, a testimonianza dell’erosione di consensi che MARS ha indubbiamente contribuito a provocare.

2.8.2 Radioterapia

L’impiego della radioterapia nel MPM è stata valutata in svariati ambiti, fra i quali il trattamento adiuvante alla chirurgia per ridurre le recidive locali che, coinvolgendo la parete toracica, possono essere molto dolorose; come trattamento sintomatico in caso di lesioni che invadono il mediastino, il polmone, il diaframma e la parete toracica oppure per lesioni secondarie (osso, encefalo); come trattamento integrato alla chirurgia ed alla chemioterapia nei pazienti operati radicalmente; come trattamento locale esclusivo nei pazienti inoperabili, associato o meno alla chemioterapia.

La sola radioterapia, utilizzando dosi moderate (40 Gy), può essere utile per il controllo del dolore e del versamento pleurico. È, però, scarsamente efficace come terapia primaria in quanto per la tendenza del MPM di diffondersi nel cavo pleurico e lungo le scissure interlobari, dosi radicali di radiazioni danneggerebbero organi critici (polmoni, grossi vasi, cuore, midollo, fegato, reni); viene più utilmente utilizzata in combinazione con la chemioterapia.

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Diversi studi hanno mostrato che la radioterapia non è in grado di curare il MPM (Ung et al., 2006), ma se applicata prima o dopo l’operazione chirurgica, in combinazione con altri trattamenti o da sola, è utilizzata per controllare il dolore, limitare la diffusione del tumore e, solo in combinazione con altri approcci, aumentare il tasso di sopravvivenza a 2 anni dal 20 al 34% (Rosenzweig et al., 2017). È stato estremamente difficile identificare l’effettiva dose di radiazioni ed il sito delle radiazioni, a causa del modo unico con cui il MPM si diffonde attraverso la pleura, circondando i polmoni, adiacente al cuore, alla colonna vertebrale ed altri organi vitali.

Radiazioni profilattiche sono state utilizzate per prevenire la diffusione e le metastasi, ma questo approccio rimane controverso e senza una pratica clinica standardizzata, a causa dei variabili risultati ottenuti (Clive et al., 2016). Le differenze nelle procedure chirurgiche, strettamente correlate alle capacità di somministrare radiazioni, potrebbero spiegare questi risultati contrastanti.

Lo sviluppo di una nuova radioterapia ad intensità modulata (IMRT) nel contesto neoadiuvante, seguita da una pneumonectomia extrapleurica precoce, ha permesso la distribuzione di dosi di radiazioni all’emitorace che si conformano strettamente ai volumi tumorali di forma irregolare e convessa, esponendo volumi minori di tessuti sani alle alti dosi e mostrando una sopravvivenza complessiva aumentata fino a 39,4 mesi (Optiz et al., 2014). In contrasto a questi risultati, studi clinici multicentrici hanno osservato risultati non promettenti per l’utilizzo di IMRT dopo la chemioterapia adiuvante ed EPP a causa dell’elevata tossicità nell’uso di routine (Stahel et al., 2015).

2.8.3. Chemioterapia

La stragrande maggioranza dei pazienti affetti da MPM presenta alla diagnosi una malattia in stadio avanzato e non operabile.

Nonostante gli effetti tossici dei farmaci antineoplastici, la chemioterapia sistemica rimane per il MPM l’unica modalità di trattamento primario ed un’opzione ragionevole che ha permesso di aumentare la sopravvivenza media da 9 a 12 mesi in quei pazienti che presentano un MPM in stadio avanzato e che dunque non possono essere candidati ad un intervento aggressivo (Nowak et al., 2012).

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Sebbene questi trattamenti non siano curativi, possono alleviare i sintomi, migliorare la qualità della vita e prolungare la sopravvivenza, a seconda dello stadio del tumore, della differenziazione istologica e della salute generale del paziente all’inizio del trattamento. Negli ultimi 10 anni, numerosi nuovi agenti citotossici sono stati valutati per il trattamento dei pazienti affetti da MPM, tra cui gemcitabina ed agenti antifolati come pemetrexed (Alimta) e raltitrexed. I regimi contenenti platino hanno un’attività maggiore rispetto alle combinazioni che non contengono platino. Vogelzang et al. (2003) sono stati i primi a dimostrare che la chemioterapia combinata con pemetrexed e cisplatino è più efficace nel MPM rispetto a una monoterapia solo a base di cisplatino; questo studio multicentrico di fase III condotto negli Stati Uniti è stato effettuato su 456 pazienti affetti da MPM non pre-trattati con chemioterapia ed il gruppo di pazienti trattati con la combinazione di cisplatino e pemetrexed ha ottenuto sopravvivenza mediana più lunga rispetto al gruppo di pazienti trattati con cisplatino in monochemioterapia (12,1 mesi vs 9,3 mesi); in termini di tasso di risposta, la combinazione ha garantito una remissione parziale di malattia nel 41% dei pazienti rispetto al 16,7% della monochemioterapia. Aggiungendo, infine, acido folico e vitamina B12 alla combinazione, la tossicità è stata ridotta senza influire negativamente sul tempo di sopravvivenza.

Il secondo studio di fase III condotto in Europa ha confrontato il cisplatino in monochemioterapia con la combinazione di cisplatino e raltitrexed, un inibitore della timidilato sintasi, in una popolazione di 250 pazienti affetti da MPM non pretrattati con chemioterapia. Anche questo studio ha osservato che la combinazione cisplatino e raltitrexed migliora la sopravvivenza mediana rispetto al solo cisplatino (11,4 mesi vs 8,8 mesi), confermando l’efficacia della combinazione di cisplatino con un antifolato nel trattamento medico di pazienti affetti da MPM (van Meerbeeck et al., 2005).

L’entità del beneficio di sopravvivenza in entrambi gli studi è risultata simile, cioè è stato riscontrato un incremento della sopravvivenza mediana di 2,8 mesi nello studio con pemetrexed e di 2,6 mesi nello studio con raltitrexed. Pertanto, al momento, la combinazione di cisplatino e pemetrexed (ma più in generale cisplatino con un antifolato) rappresenta lo standard terapeutico nel trattamento di prima linea di pazienti affetti da MPM localmente avanzato o metastatizzato.

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2.8.4 Terapia multimodale

Per risultati più efficaci, le opzioni di trattamento prevedono la combinazione di due o più metodi di trattamento, come chirurgia, radioterapia e chemioterapia a causa dell’apparente fallimento di questi trattamenti presi singolarmente. Dal momento che la chirurgia è il trattamento più efficace per il controllo locale della malattia, i protocolli multimodali di solito combinano la chirurgia con la radioterapia e/o chemioterapia adiuvante.

Un recente studio ha confermato che la combinazione di un trattamento chirurgico, come EPP con chemioterapia e radioterapia ha portato ad un aumento della sopravvivenza mediana compresa tra 18 e 24 mesi (Kishimoto et al., 2016).

2.8.5 Immunoterapia e terapia mirata

Come per altri tipi di cancro, l’immunoterapia sta aprendo nuove opzioni per il trattamento del MPM. L’iniezione intrapleurica di virus oncolitici (herpesvirus, poxvirus, adenovirus e altri diversi virus attenuati ad RNA) è stata considerata come un possibile trattamento per MPM non resecabile, dovuta alla loro capacità di distruggere le cellule tumorali, mediante uccisione diretta o meccanismi immunomediati. Viene provocato il rilascio di antigeni tumorali, che permettono l’attivazione delle cellule T attraverso le cellule dendritiche. Alla luce degli alti livelli di effetti avversi correlati al trattamento o dei limitati benefici degli approcci immunoterapici in molti studi clinici, l’applicazione della viroterapia oncolitica nel trattamento del MPM è ancora oggetto di studio (Bakker et al., 2017).

Il MPM è comunemente associato ad una rilevante reazione infiammatoria, parzialmente associata ad una infiammazione indotta dall’asbesto. Il riconoscimento degli antigeni tumorali da parte delle cellule T è dipendente dai recettori TCR; in seguito al legame, l’attivazione delle cellule T richiede segnali co-stimolatori mediati dalle cellule T CD28 che si legano a molecole della famiglia B7 sulle APCs (antigen-presenting cells). Conseguentemente i recettori inibitori, come CTLA-4 (Cytotoxic T-Lymphocytic-Associated protein 4) e PD-1 (programmed cell death 1) vengono up-regolati ed espressi sulle cellule T attivate contribuendo a modulare negativamente la risposta immunitaria. Il recettore PD-1 si lega a PD-L1 (programmed death-ligand 1), proteina presente sulla

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