• Non ci sono risultati.

IL PRIMO DIO

L’INCONTRO COL DIVINO.

Prima fu la crisi nervosa, poi l’estate di surreale “solitudine bianca”, quindi, dopo un nuovo ricovero in clinica psichiatrica, l’esistenza vera e propria del mendicante. Proprio l’inusitato deus ex machina del male fisico e della follia dirottano Carnevali verso una nuova fase, verso l’occasione, “con quel che il termine comporta in sede etimologica, di caduta e di fine”402.

L’occasione di Carnevali è l’incontro col divino: affermazione potente, questa, soprattutto se riferita a chi si proclama antireligioso fin da tempi non sospetti. L’incontro col divino, col sacro, non ha, infatti, niente a che vedere con la pratica di un credo religioso. Carnevali sembra affermare, con la sua bruciante esperienza, che l’ateo non è chi non crede in Dio, ma il soggetto che da Dio si sente abbandonato. Carnevali rappresenta così con la sua vicenda un ulteriore momento di quel fertile incontro fra il divino e la letteratura occidentale che si può far risalire ai tempi del poeta Hölderlin. Con il poeta tedesco, infatti, gli déi pagani erano evasi dalle nicchie della retorica e ora, dice Roberto Calasso, «quei nobili latitanti si mescolavano beffardamente alla folla delle metropoli»403.

Questo tipo d’evento, questo “qualcosa che accade” è l’epifania del divino: la letteratura che ne deriva è il lasciapassare più benevolmente accolto in quella terra incognita, no man’s land, che è il regno dei morti.

Ripercorrendo la strada battuta da Holderlin e dalla tradizione poetica simbolista, Carnevali accede a questo luogo dove anche Nietzsche si era avventurato «fino al giorno in cui aveva firmato alcuni biglietti a Torino col nome di Dioniso» 404. Il nome di Dioniso compare più di una volta all’interno della nostra ricerca: egli è il dio della transvalutazione dei valori, ultimo arrivato fra gli olimpi anch’egli è straniero. Fra gli déi è il più insidioso e dissolutore perché complice della sovranità femminile: egli si prepara ad irrompere nel mondo attraverso La nascita della

tragedia preannunciato con clamore da quel demonio dionisiaco chiamato

Zarathustra.

Non è un caso che il titolo che Carnevali sceglie per la sua autobiografia sia The

First God. Che senso ha raccontare la propria vita, che senso ha scrivere

un’autobiografia? Per chi ha incontrato il divino diventa un onere, un gesto fondamentale dell’esistenza. Lo schema del poeta che racconta se stesso, quasi fosse condannato a farlo, accomuna altri personaggi della letteratura, veri e propri

characters (Orfeo o l’Anciet Mariner di Coleridge). L’incontro col divino, con

402L. Ballerini, Emanuel Carnevali, fra autoesibizione e orfismo, op. cit., p. 429. 403

R. Calasso, La letteratura e gli dèi, Adelphi, Milano, 2001, p. 26.

404

l’assoluto, l’aver oltrepassato la terra dei morti li destina a raccontare continuamente il proprio mito d’origine: come in altre parole siano diventati poeti. Allo stesso modo raccontando la sua esistenza Carnevali ci consegna uno splendido romanzo autobiografico che come tale è anche romanzo di formazione e resoconto di un rito di passaggio.

Ma di che cosa parlano effettivamente gli scrittori quando nominano gli dèi, «se quei nomi non appartengono a un culto - e neppure a quel culto traslato che è la retorica»405?

Secondo Jung gli dèi sono eventi mentali o le stesse forze psichiche406: qui avevano avuto origine e qui si erano raccolti nuovamente come profughi del tempo.

Questo ritorno all’origine, per Jung, può essere un urto violento e intrattabile, se non con il lessico degradante della patologia: gli dèi come malattie mentali, quindi, capaci di scatenare la follia. Così Sherwood Anderson ricorda la notte di follia di Carnevali a Chicago:

«Tutta la storia, l’avventura di quella notte fu una maniera di uccidersi […]. Quella che noi chiamiamo mente, se ne andò con lui quella notte»407.

Prima che in lui si scateni la follia, il poeta passa attraverso diversi stadi e trasformazioni. Il suo carattere sta mutando e ciò accade con una forte consapevolezza che lo scrittore registra puntualmente ne Il primo dio:

«Sentivo il frenetico bisogno di essere lodato e impazzivo per il desiderio di essere considerato un grande poeta. Il fatto che potessero esservi dei poeti più grandi di me mi faceva soffrire. Eppure sapevo di essere futile, il trionfo della futilità»408.

Appena un attimo dopo Carnevali sente il bisogno di parlare di Dio:

«Il fatto che non avessi alcun’idea di Dio non mi procurava alcun disagio (anche se a questo riguardo potrei apparire malvagio e sgradevole). Essere con Dio o non essere con Dio: questa è una frase che funziona in ambedue i sensi […]. Non ho mai creduto in Dio, nemmeno da bambino, e quando pronuncio la parola ‘Dio’, si tratta solamente di un simbolo sentimentale. In un modo o nell’altro Dio non ha trovato posto nel mio spirito. Ho sempre davanti agli occhi le cose che la religione ha compiuto contro di me e contro gli altri mortali. Spesso Dio è equivalso all’inquisizione spagnola… A me pare che, per aver cura dell’intero universo, delle stelle, dei pianeti e di tutto il resto, Dio dovrebbe muoversi un po’ più in fretta»409.

Dio non è mai negato del tutto, ma la sua presenza non ha alcun senso affermativo: non consola, né conforta, anzi sembra godere delle sciagure degli uomini. Un dio, quello di cui da conto Carnevali, che pecca di indifferenza verso il dolore degli

405

Ivi, p. 141.

406 C.G.Jung, Commentary on “The Secret of the Golden Flower”, in Alchemical Studies, da

Collected Works, routledge and Kegan Paul, London, vol. XIII, 1978.

407 S. Anderson’s Memoirs, op. cit., p. 408. 408

E. Carnevali, Il primo dio, op. cit., p. 84.

409

uomini. Perciò il suo atteggiamento verso Dio non puo’ essere quello di una tradizionale devozione, ma quello del disprezzo e dello scherno. La nuova epifania non sarà più accessibile per il tramite di un gesto di fede, ma solo attraverso una forma di inganno e di tradimento. Egli ritorna a Dio con un gesto di stizza e di e provocazione410. Se c’è qualcosa del divino che può essere preservato, che non ha in sé il germe ipocrita e ingannatore ciò è rappresentato dall’uomo Cristo:

«Cristo non ha mai cessato di essere immenso per me e penso che il Vangelo sia il libro più bello che sia mai stato scritto, tutto l’armamentario della divinità non ha fatto altro che danneggiare quell’uomo splendente che fu Cristo. La religione ha sempre torto, Cristo ha sempre ragione, anche quando parla in chiave minore del Regno dei Cieli. Non gli ho mai rivolto le mie preghiere, ma lui può benissimo farne a meno. Gesù Cristo è stato l’uomo più fiero di tutti i tempi: se è divino, ciò è dovuto unicamente alla sua fierezza»411.

Cristo non partecipa del senso del divino che deriva dalla religione, ma è divino in senso assoluto e quasi poetico. Già secondo Nietzsche Cristo sarebbe stato travisato dalla religione che ne avrebbe fatto una nuova figura del nichilismo: quella della cattiva coscienza dopo il risentimento giudaico: Cristo, morendo, avrebbe trovato un modo per giudicare la vita e interiorizzare la colpa (sarebbe, infatti, morto per i nostri peccati). Contrario a questa visione dei fatti Nietzsche aveva opposto al martirio di Cristo quello di Dioniso: «in un caso la vita viene giudicata e deve espiare; nell’altro la vita è giusta per sé stessa, abbastanza per giustificare tutto»412. Il Cristo cui guarda Carnevali è quello di Nietzsche, è cioè, quell’uomo dolce e gioioso che non condanna ed è indifferente a ogni colpevolezza: un uomo che vuole solo morire. Cristo sarebbe così il punto culminante del nichilismo: il nichilismo vinto da sé stesso. Sottoscrivendo la sintesi nicciana “Dioniso-Cristo”, Carnevali salva la figura di Cristo e ne fa un “amante di dispute poetiche”413: Cristo come il più interessante dei decadenti quindi, secondo una formula cara allo stesso Nietzsche414. Carnevali vuole essere Dioniso e Cristo insieme, perché tra loro non c’è opposizione, ma coincidenza.

Spesso ne Il primo dio ci parla della figura di Cristo, come quando tenta di “catechizzare” una giovane presbiteriana di Chicago:

«La religione andava bene per le vecchiette, le dicevo, per la gente stanca, per gli stupidi. Le dicevo che amavo Cristo, ma che Cristo è la negazione di qualsiasi setta cristiana, di tutte le religioni cristiane. Cristo avrebbe potuto farsi chiamare Dio, ma aveva preferito essere chiamato uomo, sapendo per istinto che, la parola ‘uomo’ è più estesa e più grande che la parola ‘dio’. La religione, dicevo, insegna al mondo a fare a meno dell’amore, a fare a meno del peccato, perché la religione perdona tutti i peccati. La mitologia è bella, la religione

410 «Il luogo dove viviamo è la terra di nessuno dove si compie un doppio tradimento, una doppia

infedeltà: degli dèi verso gli uomini e degli uomini verso gli dèi. E in quel luogo dovrà ora disegnarsi la parola poetica», cfr.R. Calasso, La letteratura e gli déi, op. cit., p. 47.

411 E. Carnevali, Il primo dio, op. cit., p. 84-85. 412 G. Deleuze, Nietzsche, op. cit., p. 42. 413

E. Carnevali, Il primo dio, op. cit., p. 85.

414

contorta e brutta. Perché gli uomini dovrebbero sottomettersi alla religione, le dicevo, quando essa è così oscura, incerta, sicuramente non santa? »415.

Carnevali ama un Cristo volitivo, quello per cui la volontà, anche la volontà di morire, è sempre sinonimo di forte vitalismo: la volontà di giovinezza e bellezza che era stata anche del poeta Rimbaud. Proprio nel suo saggio Rimbaud scritto per «Others» nel marzo 1919, Carnevali aveva inserito Cristo in uno speciale cenacolo estetico e morale:

«Oh Gesù Cristo bellissimo, tu hai pronunciato in eterno le parole dell’interpretazione miracolosa! […]. Sono un adoratore che è morto molte volte per Dostoevskij, Nietzsche, Cristo e Rimbaud»416.

Un atteggiamento nuovo, una nuova condizione interiore, aveva manifestato i suoi sintomi già a New York qualche tempo prima417. Si trattava di un misto di esaltazione e impotenza, delirio superomistico e terrore della propria incapacità: «Quel senso di silenziosa esaltazione che talvolta provavo lavorando. Un vago sognare, una specie di emozione, un sentimento, dico sentimento, come un Messia, un dolce Cristo […]. E improvvisamente cominciai a scrivere: all’inizio poesie in rima, assurde poesie rimate che mandai a più di venti riviste, avendone di ritorno solo biglietti di rifiuto»418.

Il fatto che Carnevali senta maturare in sé il divino è strettamente connesso alla possibilità della creazione poetica: egli vuole fare della sua poesia un oggetto sacro e dar vita ad un nuovo mondo. Sebbene i suoi primi tentativi siano a suo stesso dire, goffi e incerti non rinuncia ad essere un creatore:

For hauling several gods over pedestals

I’ m all tired out; And my fists bleed For knocking same gods Off the pedestals.

And here is why I take it so hard: I make gods

By blowing my own breath thru the nostrils of mere mortals; And when I knock them off -

All this is not wonderful

Since I can only make little - word gods like Salomon; And so to my bleeding fists,

Well, I’m even too weak

415

E. Carnevali, Il primo dio, op. cit., p. 112.

416 E. Carnevali, Rimbaud in Il primo dio, op. cit., p. 373.

417 «A volte mi pareva d’essere una nube nera, pronta a trasformarsi in una fioritura di tuoni e di

lampi, sempre sospesa, sempre incombente, ma mai capace di grandi cose» in E. Carnevali, Il primo

dio, op. cit., p. 85.

418

For my soul419.

[«Per aver trascinato diversi dèi/ sui piedistalli/ sono sfinito/ e i pugni mi sanguinano/ per

aver abbattuto/ dai piedistalli gli dèi stessi./ Ed ecco qui la ragione per cui ho faticato tanto: // Creo gli dèi /soffiando il fiato attraverso le narici di semplici mortali; / e quando li abbatto/ lacero un pezzetto della mia anima./ Tutto questo non è straordinario/ perché posso creare soltanto dèi di piccole parole come Salomon*;/ e quanto ai miei pugni sanguinanti,/ bene, io sono anche troppo debole/ per la mia anima»].

* Il poeta nicaraguese Salomon de la Selva.

Il tentativo di Carnevali di diventare Dio è ogni volta un’esperienza traumatica e dolorosa e per il senso di frustrazione che deriva dal ricavare da questa immedesimazione “soltanto dei di piccole parole”, e perché lo sforzo di costruzione della divinità e di creazione della poesia necessitano di una forza fisica e psichica indispensabile.

Nel dicembre del 1919 Chicago Carnevali spedisce da Chicago le ultime lettere a Giovanni Papini, esprimendo una sempre crescente intolleranza a vivere, una difficoltà spirituale, più che materiale, ad andare avanti:

«Non so perché devo essere così stupido e vile da dirle queste cose- ma qui non si vive. Io non so - quando viene un pò di vita - Si piange. Non ho niente - Non ho più un paese, nemmeno. Sono lo straniero, qui. Mi vogliono bene e mi ammirano, ma sono lo straniero. Ma che importa! Ci sono grandi cose da farsi - E ci si dimentica di tutte le piccole miserie quando ce n’è una grande e terribile e che ci minaccia di toglierci ogni sembianza di vita dalla faccia se ci rifiutiamo di combatterla. C’è un grande nemico - ed un grande amico!»420.

Carnevali parla un linguaggio per iniziati, un codice che può condividere con Papini, come lui seguace degli ideali di giovinezza e volontà. La minaccia di cui parla Carnevali è forse la perdita della vitalità e la morte dell’anima. E il terribile nemico è forse un Dio che non vuole “la grande logica estetica morale teoria di vita”421. Carnevali sente incombere la gran risoluzione, un passaggio terribile della sua esistenza, ma già teme di non poterne sopportare il peso422.

L’America stessa gli riserva ogni giorno di più una scarsa accoglienza e riferisce questo suo sentimento di estraneità a Papini in quella che risulta essere l’ultima lettera dell’epistolario, datata febbraio 1920:

«Passo giorni di orribile tristezza, nella più sconsolata solitudine. Non posso dire di avere un amico. L’America è orribile. Ma è il mio paese. Bisogna essere ben forti per amarla

419 Lettera a H. Monroe, direttrice della rivista «Poetry», scritta a New York il 2 gennaio 1918 e

conservata nella «Harriet Monroe Collection», University of Chicago Library. Ora in E. Carnevali,

Saggi e recensioni, op. cit., pp. 10-15. (Traduzione di M.P. Carnevali).

420 E. Carnevali, Voglio disturbare l’America, Lettere a Benedetto Croce e Giovanni Papini, op. cit.,

lettera XIV.

421 Ivi, lettera VII. 422

«Ma no, si è tristi per l’altra ragione. Perché la mia visione si avvicina, e le visioni non sono fatte per viverci dentro», ibidem.

abbastanza da starci. E mi sono detto che ci rimarrò. Se sapesse come se ne soffre, noi altri, della “Fretta materia – money - quantity!”»423.

Sono giorni di tristezza e solitudine aggravati dalla dipartita di Annie Glick, la compagna di Chicago. Di lei Carnevali ci parla ne Il primo dio:

«Fosti tu il mio amore più grande […]. Se ho qualche fiducia nella donna la devo a te che fosti la prima bella donna da me amata, vitalmente, umanamente bella […]. Annie tu eri il solco lasciato da ogni mio pensiero, la pace tra le mie guerre troppo numerose, eri l’uso esatto di ogni parola usabile: bello, brutto, sacro, feroce, meraviglioso, miserabile […]. Eri la veranda della mia vita dalla quale io vedevo passarmi davanti il mondo, eri la scala ascendente della mia volontà»424.

Annie rappresentava per Carnevali l’incontro assoluto da cui sarebbe scaturita la poesia: grazie a lei era possibile realizzare l’ideale estetico puro, quello della totale aderenza delle parole alle cose. Nell’immaginario del poeta essa viene a coincidere con la ninfa, uno di quegli esseri femminili dalla lunghissima vita, custodi della “fonte delle belle acque” (acque della conoscenza). Il sapere che esse infondono è terribile e insieme prezioso, poichè assume la stutura della possessione. Carnevali si dice posseduto da Annie e deriva dalla sua vicinanza l’ispirazione per ogni parola: «Annie, apri la porta dei miei ricordi e dentro quella buia stanzetta entrerà l’illuminazione della parola. Là dentro c’è aria viziata, odore di chiuso, sentore di muffa, ma la luce disperderà i fantasmi e l’odore. Annie fosti tu il mio amore più grande […]. Poiché tu Annie eri l’entità femminile di cui un poeta ha bisogno, io rimasi prigioniero nelle tue mani per tanto tempo e per così poco tempo tu fosti prigioniera nelle mie. Io disturbavo i tuoi sogni e tu disturbavi ogni giorno questa mia anima già frantumata da tante fredde e disamorate passioni. Ricordi che per più di un anno tentai di modellare il tuo volto con la creta? Ricordi la gita che facemmo alle dune di Chicago senza riuscire a vedere il lago? È buffo andare alle dune senza vedere le acque del lago. Ti ricordi quando tirasti fuori un temperino e tentasti di tagliarmi le vene? Ti ricordi quando dicevi che ero il fratello minore di Dio, mentre io credevo di essere Dio stesso?»425.

Sherwood Anderson e la moglie furono i testimoni più vicini delle vicende di tutto quel periodo, dell’ultimo insperato resoconto dell’eros e della folle caduta che ne seguì:

«Per tutto il tempo che continuai a chiacchierare, mi accorsi che loro due non prestavano molto credito al mio strano modo di essere. Mi giudicavano melodrammatico, sconveniente in tutto. Doveva essere difficile accettare in pieno tutte le mie sciocchezze, perché io credevo di essere Dio e, per un breve periodo, io fui per me stesso l’unico Dio, il Primo Dio. Dissi ad Anderson che non potevo più sopportare la volgarità, il sudiciume, la stupidità […].

423 Ivi, lettera XVI.

424 E. Carnevali, Il primo dio, op. cit., pp. 119 - 122. 425

E. Carnevali, Il primo dio, op. cit., p. 118-122. Più avanti, dopo l’abbandono di Annie Glick si legge: :«Il mio letto era una tomba e lì morirono i miei canti» ivi, p. 125.

Per tutto il tempo che parlai con gli Anderson, tenni in mano una fotografia. Era di Annie»426.

Compare per la prima volta la formula della divinità quella che, durante la crisi, si trasformerà in cantilena ed esorcismo e attraverso la quale Carnevali tenterà di far passare la creazione di un mondo nuovo. Il resoconto di quella notte di follia occupa due interi capitoli de Il primo dio: il pensiero di Dio si era fatto ricorrente e asfissiante. Ma contemporaneamente, con la stessa intensità, quasi a ribadire l’adiacenza dei due piani di discorso e la loro osmosi, ad assillare Carnevali c’è anche il pensiero della poesia:

«Credevo che per i poeti fosse venuto il tempo della peste, il tempo della fine: la fine dei canti, delle odi, dei poemi, di tutte le vecchie, ammuffite sciocchezze. Per i poeti che, come passeri disperati, lasciavano i loro escrementi dappertutto. Ero nauseato dai cuori delicati che i poeti ostentano sul palmo della mano, insanguinati trofei della loro guerra con la vita, ch’essi si portano dietro lungo le autostrade e le scorciatoie dell’esistenza, gridando: “Aiuto, aiuto!” con la bocca sanguinante benché sappiano benissimo che nessuno li ascolterà. (Perché chi diavolo ascolta i poeti se non altri poeti?) Da una parte giace il grande mondo e dall’altra il piccolo poeta, con le sue microscopiche parole; il re della forma, l’infaticabile ballerino. L’artista non vede che suo dominio è il vuoto, suo impero il silenzio, suo regime il disordine, sua danza la disarmonia»427.

Ancora una volta, nell’imminenza della sua personale catastrofe, Carnevali sente di dover gridare contro le sfumature e le danze e contro chi non sa essere vivo. Nel momento della crisi egli parla ancora degli artisti e della loro missione, ma si chiede anche chi, oltre ai poeti, può dare ascolto ai poeti se non un dio:

«Oh gli artisti, questi fotografi dell’amore, questi cinematografari dell’avventura! Troppe parole sono state già dette, troppe frasi scritte, troppe canzoni cantate, troppe danze danzate! L’artista parla di Dio come di un parente, lo tratta come un cugino, sia che lo insulti, sia che lo lodi. E l’artista ha gran bisogno di Dio, un tremendo bisogno che Dio ascolti le sue