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IL PRIMO DIO

IL POETA E LA MANCANZA.

La scelta di diventare un poeta deriva a Carnevali da un impulso sotterraneo, “ontologico”, che trova nel sofferto retaggio parentale una sua plausibile scaturigine. Essere poeta è quindi non già una professione, ma un’identità, un modo di stare al mondo: esiste in sostanza una stretta connessione fra la sua fame di parole è la sua stessa ansia di vita. Questa esistenza sembra l’unica possibile sebbene lo condanni ad un destino di costante estraneità. L’espressione di questo atteggiamento è ben racchiusa in una lettera che Carnevali scrive in francese allo scrittore americano Waldo Frank. Spedita da Chicago nell’agosto del 1919 essa mostra quanto forte sia lo scarto fra l’euforia delle “illuminazioni” e dell’ispirazione e il sentimento di

déraciné che tende progressivamente a sommergerlo:

«…On parle…on parle…on parle, et si enfin l’on disait quelque chose, le monde deviendrait digne d’y vivre…mais on cherche, on cherche les mots - parce que on a fermé les mots dans un enclos loin de soi, on s’en garde, on s’en protège - et tout de même, on s’embête, en sanglotant et jurant et begayant, à désirer, à appeler, à vouloir les mots - les mots./ Et mois je suis l’éternel mendiant de mots et de silence, j’implore, moi aussi, les mots ou le silence. Et c’est par désespoir que je parle tant- que je hurle si haut et mal - que je veux l’amour fou pour l’ami ou la femme - pour que les mots sortent de moi - ils me rongent les boyaux comme une dyspepsia de deux semaines, ils sont lourds dans ma tête comme un mal de tête - comme mes jambes, ils sont las et dégoutés d’aller - toujours - nulle part […]. Mes amis ne m’ont rien dit. On ne m’aime pas, je le dis sans amertume, on n’aime qu’un vieux ami ou sa femme - je suis l’étranjer. Je suis un déraciné comme Barrés les appelle. Je comprend - il n’ya qu’un grand compromis, pour un homme comme il faut, c’est la vie./ Moi, ce compromis je ne voudrais pas le faire. Parce que je l’ai devant mes yeux, l’idée belle et pas salie, l’idée du commencement, j’ai été un jeune homme pur, je ne peux oublier cela: On pourrait bien fisher tout sa bèauté inerte dans des blanches pages, on pourrait bien en faire des grandes symphonies, mais, je m’en fous de cela, moi. Je voudrait bien vivre. L’on ne vit pas, il n’y a pas cette chose vague qu’on appelle la vie - il n’ya que la littérature, les mots…»398.

398

«…Si parla… si parla… si parla, e se finalmente si dicesse qualcosa, il mondo diventerebbe degno di viverci… ma si cercano, si cercano le parole – perché si son rinchiuse le parole dentro un recinto lontano da sé, e la gente se ne astiene, se ne difende – e ciò nonostante si stizza, singhiozzando, bestemmiando, balbettando, a desiderare, a chiamare, a volere le parole – le parole./ E io sono l’eterno mendicante delle parole e del silenzio, io imploro, io stesso, le parole o il silenzio. Ed è per disperazione che io parlo tanto – che urlo così forte e male – che io voglio l’amore pazzo per l’amico o per la donna – purchè le parole escano da me – esse mi rodono le budella come una dispepsia di due settimane, pesano dentro la mia testa come un mal di testa – come le mie gambe, sono stanche e ripugnano di andare sempre da qualunque parte […]. I miei amici non mi hanno detto niente. Non mi amano, lo dico senza amarezza, non si ama che un vecchio amico o la propria donna – io sono lo straniero: io sono uno sradicato come li chiama Barrés. Io capisco – non c’è che un gran compromesso, per un uomo come dovrebbe essere, è la vita. / Io, questo compromesso non lo vorrei fare. Perché l’ho davanti ai miei occhi l’idea bella e per niente sporca del cominciamento, sono stato un uomo puro, non lo posso dimenticare. Si potrebbe certo fissare tutta la sua bellezza inerte in

Nei momenti di maggior sconforto, quelli in cui viene meno il senso d’appartenenza ad una terra o ad un affetto, sembra emergere il senso di una profonda estraneità. Ma, se lo straniero ambisce ad una tregua, per assurdo cerca la stasi proprio attraverso una corsa. Ciò cui tiene dietro sono proprio les mots, le parole.

L’estenuante ripetizione dei termini della ricerca (on cherche), sottolinea la “vanità” di questo movimento che perviene sempre all’inutilità delle parole, alla loro esauribilità. Allora ciò che si desidera risiede oltre les mots: il vuoto fra le parole e dentro le parole. Se questo compromesso permette di vivere poco, solo a piccoli intervalli, brevi istantanee fra una parola e l’altra, questo è pur l’unico sistema per esistere. Lo straniero/ Carnevali sente la vie come un compromesso inaccettabile, che pretende di fissare in “bianche pagine la bellezza inerte”. L’unico luogo dove la vita è possibile veramente è la letteratura dove le parole non si fermano al senso comune, ma esprimano luci e ombre, affermazioni e silenzi. La voce di Carnevali si esprime allora attraverso l’urlo che mentre fa uso delle parole le distrugge o le depotenzia: esorcizzare le parole significa quindi consumarle e scoprire al loro fondo il vuoto.

In una pagina del suo Diario bazzanese, datata 15 aprile, Carnevali racconta una piccola storia: dopo aver letto le frasi di un “certo libro”, un uomo trascorre notti piene di sogni. Poi i sogni cessano:

«Lesse delle altre frasi di quel libro ed i sogni ritornarono, ma non così straordinari come prima. Lesse sempre più frasi, finché quel libro non fu più sufficiente. Ed allora l’uomo divorò le parole, fino ad essere infettato da quei microbi neri, le parole. Il suo ventre divenne un magazzino di parole, poi una biblioteca, ed infine un palazzo costruito con quei microbi neri, le parole. L’uomo cominciò a vomitare, buttò fuori tutte le parole e continuò ad espellerle per giorni e giorni. Allora le sue notti divennero nere come il nulla, vuote come il nulla, orrende. Gli rimase solamente una parolina, un monosillabo, da gridare; ed una parola inglese come amore e morte, come grosso e grande, bello e gentile, un monosillabo»399.

Quella parolina residua, monosillabica, è la risposta alla ricerca di Carnevali, alla continua domanda irrisolta. Per ora basti dire che il continuo esercizio con le parole, rappresenta per Carnevali un vero legame passionale e fisico che istituisce un collegamento profondo fra mentre e corpo (si pensi all’azione del “mangiare le

bianche pagine, se ne potrebbe ben fare delle gran sinfonie, ma io me ne fotto di questo. Vorrei sinceramente vivere. Non si vive per niente, non c’è quella cosa vaga che si chiama vita – non c’è che la letteratura, le parole…»; (la traduzione è mia). Lettera a Waldo Frank, in E. Carnevali, Saggi e

recensioni, op. cit., pp. XXV-XXVI.

399 «He read more lines of that certain book, and the dreams returned, but not so strongly beautiful as

before. He read more and more lines, until that certain book was no longer sufficient. And then the man ate words, until he was infected by those black microbes, words. His belly became a store room of words and then a library of books, and then a palace built with all those black microbes, words. The man began to vomit and then he threw out all the words and kept puking words for so many and so many days. Then his nights became as black as nothingness, as empty as nothingness, starless, horrid. Only a little word, a monosyllable, was left for him to cry; and it was an English word such as love and death, such as big and great, nice and fine, a monosyllable», in E. Carnevali, Diario

parole” di cui sopra). Quasi affetto da una bulimia verbale, lo stomaco dello straniero rivela un’insaziabilità irrisolvibile, determinata da un vuoto che, più che essere fisico è ontologico. Tale vuoto cioè, riguarda il cuore stesso del soggetto:: «Quel vuoto che il soggetto porta con sé dalla sua origine. Quel vuoto che si sottrae ad ogni possibile misura, a ogni calcolo, a ogni rappresentazione. Quel vuoto che costituisce il punto più intimo del soggetto e insieme l’estraneità più radicale»400. Il vuoto alla fine di ogni parola decreta l’inevitabile sconfitta del significato: non c’è in effetti un oggetto capace di riempire la mancanza che il desiderio rivela alla sua radice. Non si tratta quindi di una mancanza di qualcosa, ma di una mancanza a

essere che pertiene al soggetto come tale, come distinto dalla pienezza delle cose:

egli è altra cosa e il suo essere ha un codice d’estraneità che non può venir letto dalle cose del mondo. D’altra parte è come se, chi ne è affetto s’identificasse con la sua mancanza, con il suo vuoto: abolirlo significherebbe abolire se stessi. Perciò la risposta è sempre sfuggita, perché quella domanda ha una risposta a perdere, infinita. Carnevali gira attorno alle parole-cose alla ricerca di un riempimento possibile, ma se il giro finisse e lo straniero trovasse approdo, sarebbe la sua stessa fine. Questa posizione senza coordinate nello spazio e nel tempo può essere, in modo paradossale, il luogo privilegiato da cui il poeta può essere ascoltato: la sua quindi verrebbe ad essere la parola di chi si sente chiamato a soccorrere l’epoca dei suoi contemporanei. In questo non molto distante dall’epopea del poeta-vate, Carnevali crede che il poeta abbia un ruolo principe nel ridestare le coscienze degli uomini. La sua azione è insieme di sprone e di creazione ed egli crede fermamente di potersi calare nel divino, sebbene questa distanza dal mondo sia ulteriore causa di sofferenza.

In una lettera a Harriet Monroe, datata 2 gennaio 1918, Carnevali dichiara quanto gli è difficile sopportare la sua esistenza e scoprire che la vita “gli è lontana”. Il giovane poeta si domanda cosa può fare un ragazzo quando la vita è altrove e vuole che qualcuno lo ascolti. Forse può funestare con i suoi racconti di vita schietta e sofferta le vite altrui, irrompere nelle esistenze degli altri e rovesciare tutto il carico del suo fardello. Oppure può “esercitarsi” nel dire la verità prendendo di petto la vita e dimostrare alla gente che egli non è un fallito, che tutto il suo agonismo non è un

bluff, ma tremenda foga d’amore (“io voglio amare il mondo intero”):

Am I a boy? I do not know.

But You’ll admit that I tried something. LIFE - I clung to her skirt -

Wouldn’t listen to me, Kept saying she’d call again And went away…

400

But what shall I do While she is away? I think I can exercise Saying the truth Or what I think to be it; […]

And precisely what I want Is to take life very hard…

It isn’t jarring with a boy’s logics: I’m forgetting that life is away,

But that isn’t jarring with a boy’s logics. Am I going after people?

I want to burden people

With tales of my own little burden So that they’ll tell me many things. I want to love the whole world

(and have no respect for respectability). I mean to scandalize people,

So that their blushing

May out-blush my own blushing And I’ll go on making confessions Even tho I don’t speak English very well, Even tho nobody gives a damn.

And it won’t be so bad If people get bored As long as I can exercise While life is away 401.

[«Sono un ragazzo?/ Non so./ Ma lei ammetterà che qualcosa ho tentato. / La VITA-mi

afferro alla sua veste - / non mi volle ascoltare/ continuando a dire che sarebbe tornata/ e se ne andò…/ Ma che farò io/ mentr’essa non c’è?/ Penso di potermi esercitare/ dicendo il vero/ o quello che io credo sia vero; // […]E ciò che precisamente voglio/ è prendere di petto la vita…/ Non è fare a pugni con la logica di un ragazzo:/ dimentico che la vita è lontana,/ ma questo non è fare a pugni con la logica di un ragazzo. // Mi attacco alla gente?/ Voglio gravare gli altri/ con i racconti del mio stesso fardello/ così che essi mi raccontino molte cose./ Voglio amare il mondo intero/ (e non ho rispetto per la rispettabilità)./ Voglio scandalizzare la gente/ così che il loro rossore/ cancelli il mio rossore / e continuerò a fare confessioni, / anche se non parlo bene l’inglese,/ anche se a nessuno importa…/ E non sarà un gran male/ se la gente si seccherà/ purchè io possa esercitarmi/ mentre la vita è lontana»].

L’arrivo a Chicago rappresenta una svolta per la vicenda di Carnevali: il suo senso d’alienazione gli fa scrivere pagine di intense affermazioni del proprio entusiasmo, ma allo stesso tempo lo distaccherà in maniera brutale dalla semplice realtà. Prendendo alla lettera il suo ruolo e compito supremo egli tenta di calarsi in una forma assoluta, quella divina. Carnevali approda così ad una nuova fase della sua

401 Lettera inedita di E. Carnevali a H. Monroe, direttrice della rivista «Poetry», scritta a New York il

2 gennaio 1918 e conservata nella «Harriet Monroe Collection», University of Chicago Library. Ora in E. Carnevali, Saggi e recensioni, op. cit., pp. 10-15 (traduzione di M.P. Carnevali).

esperienza oltre la quale il percorso a ritroso sarà possibile solo attraverso una perdita e un lutto.