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EMANUEL CARNEVALI E LA LETTERATURA ITALO-AMERICANA

CARNEVALI COME “CASO A PARTE”: A NEED FOR ASSIMILATION

II. LA LETTERATURA D’EMIGRAZIONE.

Non vanno peraltro negati i meriti di un filone di studi che, occupandosi della nostra letteratura d’emigrazione transoceanica, mette in atto notevoli e degnissimi

repechages muovendo dal proposito di sottoporre quella letteratura sia all’attenzione

del pubblico americano (che li ha “dimenticati” dopo averli “offesi”), sia all’attenzione del pubblico italiano che li ha finora ignorati del tutto o quasi:

«Ad aprire la strada, ai due poli cronologicamente opposti del tragitto, da un lato le testimonianze coeve dei giornalisti e dei social workers, che descrivevano nel dettaglio le forme della socialità dei nuovi immigrati, e dall’altro, più frequenti dagli anni Settanta in avanti, gli studi sulla letteratura italoamericana in lingua inglese che, pur senza voler cedere ad un rozzo biologismo evoluzionista, certo invitavano a chiedersi da dove provenisse tanta ricchezza o, ancora più semplicemente e in termini molto statunitensi, se davvero, visti i risultati della second generation, si potesse considerare, quella che l’aveva preceduta, alla stregua di una tabula rasa»143.

Proprio questo genere di studi, tesi a rivalutare l’opera degli scrittori americani di seconda generazione (da John Fante a Mario Puzo) ha stimolato a ricercare «quale fosse il retroterra anche culturale, se non propriamente letterario, da cui quei libri traevano la loro linfa vitale»144.

Le prime domande, sul perché l’emigrazione italiana e con lei la sua produzione letteraria, avesse tardato tanto ad essere studiata e finanche riesumata, si sviluppano in un periodo fondamentale per lo studio delle letterature e delle etnicità in generale, soprattutto negli Stati Uniti.

Nel saggio Le fonti americane per lo studio dell’immigrazione italiana 145Rudolph Vecoli si dichiara colpito dalla «scarsità di letteratura americana storica e sociologica che tratti degli immigrati italiani, considerando il fatto che nel XIX e XX secolo gli Italiani venivano subito dopo i Tedeschi per quanto riguarda l’immigrazione. Non solo in America sono stati scritti più volumi sui tedeschi e sugli irlandesi, ma sono stati studiati di più piccoli gruppi come i Cinesi ed i Norvegesi»146

142 Ivi, pp. 417-418.

143 M. Marazzi, I misteri di Little Italy. Storia e testi della letteratura italoamericana, Franco Angeli,

Milano, 2003, p. 10.

144

F. Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, 1880-1943, Milano, Mondadori, 2005, p. 4.

145 In Aa. Vv., Gli italiani negli Stati Uniti. L’emigrazione e l’opera degli italiani negli Stati Uniti

d’America. Atti del III Symposium di Studi Americani, Firenze, 27-29 maggio 1969, Firenze, Istituto

di Studi Americani - Università degli Studi di Firenze, 1972.

146

Ancora agli inizi degli anni Settanta quindi, chiedendosi perché l’immigrazione italiana sia stata così trascurata negli Stati Uniti, e diagnosticando il paradosso (per un paese che, come gli Stati Uniti, si vanta di essere un “paese di immigranti”) di non aver ancora acquisito una formale consapevolezza dell’influsso massiccio dei diversi popoli quale “forza vitale della sua storia”, ritiene che siano due le ragioni. La prima va sicuramente ricercata “nell’ideologia dell’americanizzazione e nella sociologia della professione accademica”:

«Poiché l’America è stata fin dall’inizio una confusione di lingue, di fedi, di razze, la credenza nel “crogiolo” e la totale ed inevitabile assimilazione degli immigrati, divennero fondamentali per la concezione di una nazionalità americana»147.

Inoltre va anche considerato, secondo Vecoli il fatto che «fino a poco tempo fa i professori americani erano quasi tutti WASP […]. Non c’è da sorprendersi se studiosi di quest’origine avessero la tendenza a condividere le inclinazioni nativiste ed anche razziste della cultura dominante».148

Vecoli esprime un’ulteriore considerazione, interessante anche perché già 30 anni prima era stata oggetto di un’acuta- e veramente anticipatrice- riflessione da parte di Giuseppe Prezzolini149. A minare una possibilità concreta di studio e un’ archeologia storica e letteraria sugli italiani in America sarebbe stata la distanza volontariamente frapposta da questo gruppo etnico, fra sé e la cultura. E, laddove la colonia produceva intellettuali essi se ne allontanavano determinando così una frattura insanabile fra la scarsa, per consistenza numerica, élite colta e i molti illetterati della comunità italo-americana:

«Quali membri di un recente gruppo di immigrati che ha particolarmente sofferto per il suo modesto stato, gli Italo-Americani sono stati molto lenti a manifestare un certo interesse per la loro storia. Il tipo di sub cultura degli italo-americani ha contribuito a questa trascuratezza […]. L’allontanamento dell’elemento intellettuale dal resto degli immigrati divenne una caratteristica distintiva […] caratteristica che è ancora forte nell’ambiente»150.

Se Vecoli lamenta la mancanza della voce degli italiani stessi, a questo riguardo, non sembra del tutto fuori luogo dare menzione alla sottile polemica che Durante imbastisce nell’introduzione al suo volume:

«Così povera cosa sembrava la letteratura dei nostri emigranti che intere schiere di valenti studiosi ritennero molto più utile e ‘corretto’, oltre che interessante, rivolgere la loro attenzione ad altri, contigui, filoni di ricerca, come quelli delle letterature afro-americane ed ebraico americane”»151.

147

Ibidem.

148 Ivi, p. 3.

149 Cfr. G. Prezzolini, I trapiantati, Longanesi, Milano, 1963.

150 Cfr. Vecoli, in Aa. Vv., Gli italiani negli Stati Uniti. L’emigrazione e l’opera degli italiani negli

Stati Uniti d’America, op. cit., p. 4.

151

Il ritardo della letteratura italoamericana rispetto a quella di altri gruppi etnici (una generazione più tardi per esempio, rispetto a quella di origine ebraica) è evidenziato anche nella Storia della letteratura americana152 (Sansoni 1998) dove si afferma che ciò è avvenuto «e per le caratteristiche fluide della prima fase dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti, (composta in buona parte di birds of passage che, dopo aver lavorato alcuni anni sul suolo americano, con uno scarso radicamento in questa o quella località, tornavano al paese d’origine)»153, ma anche a causa di una diversa considerazione della lingua inglese, motore essenziale dell’ integrazione.

All’interno di questa stessa storia delle lettere americane, il problema della letteratura delle minoranze è trattato nei due capitoli intitolati Molte Americhe, molte

voci e Immigranti e proletari. Nel primo si accenna alla scrittura femminile e si

analizza la scrittura della popolazione afroamericana, ma non si tralascia quella dell’immigrato:

«Se la “dialettica dell’identità” (Alessandro Portelli) costituisce un nodo centrale della cultura afro-americana, a ben vedere essa lo fu anche di quella cultura che nacque negli Stati Uniti dall’apporto via via più complesso e variegato degli immigrati. Un vero e proprio spartiacque si delineò intorno agli anni Ottanta dell’Ottocento quando una nuova immigrazione prese a riversarsi sulle coste americane. Prima d’allora infatti, “immigrazione” aveva voluto dire soprattutto irlandesi, scozzesi e tedeschi, popolazione che- se a volte erano diverse per lingua e religione- provenivano pur sempre da un comune ceppo anglosassone»154.

A comporre le “molte voci” d’America sarebbero stati, d’allora in poi, italiani, ebrei dell’Europa orientale, slavi, greci, turchi- popoli ben lontani, per lingua, tradizioni, religione e cultura da quello anglosassone:

«L’immigrazione stimolò la nascita di un vero e proprio sostrato culturale multi-etnico destinato ad entrare in un rapporto dialettico estremamente fecondo con la cultura dominante. Se infatti quello del melting pot, del crogiuolo di nazionalità da cui sarebbe emerso il novus homo americanus, fu e rimase un miraggio, è però certo che, come Werner Sollors ha ampiamente argomentato in Alchimie d’America, quest’interazione fra culture ospitanti e culture ospiti, tra descent (appartenenza etnica) e consent (assimilazione alla cultura dominante), fu un fenomeno continuo e complesso, impossibile da ridurre all’uno o all’altro dei due poli entro cui si giocò: e lasciò tracce profondissime al punto che buona parte della cultura americana del Novecento andrebbe legittimamente riletta in questa luce»155.

Già Marcus Cunliff156 riportava opportunamente il vaticinio contenuto nella

Introduction to American Literature (1898) scritta da Henry Pancoast. Qui l’autore,

152

Cfr. G.Fink, M. Maffi, F. Minganti, B. Tarozzi (a cura di), Storia della letteratura americana, Sansoni, Firenze, 1998.

153 Ivi, p. 350. 154 Ivi, p. 204. 155

Ivi, pp. 347-348. Cfr. anche W. Sollors, Alchimie d’America, Editori Riuniti, Roma, 1990.

156

prima in linea contro il genteelism di matrice anglosassone dichiara che «i grandi costruttori della nostra letteratura nazionale hanno gli antenati nelle popolazioni delle Isole Britanniche». In un secondo momento però riconosce che altri ceppi esistono e «non è forse lontano il giorno in cui la letteratura americana verrà arricchita da scrittori di origine italiana, russa, ungherese, polacca»157.

L’input principale allo studio della letteratura dell’emigrazione di origine italiana (della cosiddetta Italian Diaspora come la definisce Marazzi) è arrivato dalla cosiddetta Ethnic Renaissance, a sua volta uno degli esiti più felici del multiculturalismo. E. se a volte questa fioritura etnica ha dato l’impressione, di essere «utilizzata strumentalmente da gruppi di provenienza etnica per fornire il pretesto per operazioni di autopromozione e autogratificazione» ciò non può che essere considerato legittimo, dice Marazzi, «in una prospettiva militante che tiene conto, tra l’altro, di una lunga storia di subalternità conculcata»158.

E proprio perché ci si accosta a una cultura, quella italo-americana, articolata e complessa, un lavoro di ricerca consapevole della diversità etnica non deve fare a meno di dimenticare le fratture, le contraddizioni, le cadute che si riscontrano, tanto più, nell’ambito della produzione artistica. Si dovrà quindi utilizzare una comprensione del fenomeno letterario molto più larga e un atteggiamento assolutamente più tollerante nei confronti di una tradizione “derivativa”, fatta, perché no, anche di “versi brutti”. Si deve cioè mettere da parte il pudore intellettualistico e, soprattutto per la produzione di prima generazione, considerare che «la letteratura italo-americana, […] è in gran parte letteratura popolare»159. Essa quindi potrà non essere asetticamente sorvegliata ma ciò perché essa «punta, anche in virtù di una vena quantitativamente abbondante, a intrattenere e divertire, costruendo, al momento opportuno, istruttive occasioni di rispecchiamento per il suo pubblico»160.

Marazzi tratta gli italo-americani come postcolonial subjects, allineando quindi l’approccio cultural a quello del multiculturalism di cui il primo è, si è detto, stretta derivazione. I Cultural Studies partono dalla considerazione che la letteratura non è un insieme organico di testi letterari ma, dice Gardini:

«Una produzione di linguaggi diversi e polimorfici in cui si esprimono, anche indipendentemente dalla volontà degli autori, tensioni, ansie, intendimenti e conflitti di tutta un’epoca, per lo più connessi con problemi di ordine ideologico è perché questa letteratura è espressione di un mondo non univoco ma molteplice dove le idee si confrontano conflittualmente nella pagina, mettendo in crisi quella che sembra o si è fatta passare a lungo per la visione ufficiale»161.

157 Ivi, p. 440.

158 M. Marazzi, I misteri di Little Italy, op. cit., p. 11. 159 Ibidem.

160

Ivi, p. 12.

161

Ciò è stato ed è tuttora vero per quelle realtà, come l’americana, dove le idee di lingua, di nazione, di storia, di identità sono in fase di trasformazione e dove l’idea di cultura sottintende necessariamente più culture che, attraverso scontri e confronti, diffondono comportamenti, contenuti, forme e immagini del mondo spesso incompatibili ma pur sempre «capaci di convivere e di veicolare le idee anche di quanti non si sentono rappresentati dalle ideologie imperanti»162.

L’approccio cultural mira proprio a restituire, se non a creare, un’identità, sia essa razziale, sociale o sessuale, cioè propria di gruppi o del singolo individuo, attraverso il recupero «di quei testi che la cultura (sempre cultura ufficiale) ha esautorato e reso insignificanti»163 e si assume «l’obbligo morale e intellettuale di ridare voce a coloro che non ne hanno avuta per decenni o per secoli e di denunciare i secondi fini che la letteratura dei colonizzatori ha perseguito»164.

Richiamando Bhabha165 e il concetto di “personalità ibrida” (prodotto dell’incontro di più lingue o di più razze, che non rientrano nelle sfere né della cultura colonizzante né di quella colonizzata166), Gardini prospetta un’allargamento di questa categoria ai casi che esprimono le condizioni di esilio e di emigrazione (laddove cioè esiste uno spazio intermedio e una frontiera): quelle opere cioè che risultano «permeate di spostamenti, contaminazioni, diaspore, patrie lontane e immaginate e che cercano vie verso la riconciliazione di lingue e tradizioni, del presente e del passato»167.