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GENESI DI UNA POETICA

NIETSZCHE E RIMBAUD: MODELLI DI FORMAZIONE.

Quattro anni durò, dal 1918 al 1922, la stagione letteraria in America dello scrittore italiano in lingua inglese, che affidò completamente il suo destino di poeta, saggista e recensore alle piccole riviste di New York e Chicago. Soprattutto i saggi e le recensioni fecero di lui la «disturbatrice cometa delle lettere americane»295, innescando quel processo di «commozione nel centro più sensibile della compagine poetica americana, sul finire del secondo decennio del secolo»296. Ciò avvenne in modo tale che, dice Ballerini nella postfazione a Il primo dio, quattro o cinque anni dopo, riuscì «a far saltare le garanzie della loro scrittura, e assistere alla maturazione, nel caso di Williams, della crisi più fertile della sua carriera»297. Carnevali è stato il poeta del tenement, della camera ammobiliata, dei senza famiglia, «un piccolo uomo che voleva disperatamente esser grande per collaborare alla bellezza»298. Era l’immigrato che aveva patito le deportazioni dalle lingue e dai luoghi, che sentiva che da lui sarebbe scaturito quel “primo grido di conoscenza”, per risvegliare alla coscienza viva della vita e della volontà, e quindi alla bellezza e alla poesia, i letterati americani. L’aspetto più originale della sua brevissima esperienza, nonché la ragione di un così sorprendente fascino esercitato sui contemporanei, risiede proprio nell’essere stato uno straniero, un italiano nella fattispecie. Dietro l’antagonismo e l’ “enthousiasmos” del sedicente poeta americano c’era sempre la parola e l’istinto italiano, la sua riemergente cultura. Una formazione che, pur ricusata nella scelta assoluta di divenire “an American poet”299, riemergeva costantemente con la potenza di un’ eruzione. Il tentativo di Carnevali che, «pur italianissimo, riuscì ad inalveare nella lingua inglese tutto il suo mondo emotivo e poetico»300, ne ha fatto un poeta non solo per natura ma anche per cultura.

L’opzione della lingua, questo inglese che lo stesso Ballerini stenta a chiamare lingua adottiva, ebbe un ruolo «la cui pregnanza è di gran lunga superiore a quello della mera accidentalità storica di un parlare: essa si configura come il veicolo stesso dell’estraneità»301. Cosicché «non appena se ne scalfisca la superficie essa lascia

295 G. C. Millet in E. Carnevali, Saggi e recensioni, op. cit., 1994, p. 7. 296 L. Ballerini, op. cit, p. 417.

297

Ibidem.

298 G. C. Millet, in E. Carnevali, Voglio disturbare l’America, Lettere a Benedetto Croce e Giovanni

Papini, op. cit., p. 9.

299 «I want to become an American poet because I have, in my mind, rejected Italian standards of

good literature. I do not like Carducci, still less D’Annunzio…Of American authors I have read, pretty well Poe, Whitman, Twain, Harte, London, Oppenheim and Waldo Frank. I believe in free verse. I try not to imitate», E. Carnevali, lettera a Harriet Monroe, in E. Carnevali, Voglio disturbare

l’America, op. cit., p. 20, n. 33.

300

C. Linati, Un poeta italiano emigrato, op. cit., pp. 60-61.

301

trasparire tutta la sua clamorosa latinità, e numerosissimi debiti, goffi a volte, ma più spesso strabilianti e fertili, nei riguardi specifici dell’italiano»302. Il senso della sua estraneità verrà a risiedere anche in quella retorica che egli ha naturalmente ereditato dalle «sedimentazioni mitopoietiche del suo ‘parlar materno’» e che premono come un ‘gran cerchio d’ombra’ sul « ‘poco giorno’ del centro americano»303.

Il cerchio d’ombra della parola di Carnevali, la periferia mitica di un parlare esotico e lontano è difficile a far convivere con la precisione illuminista del centro-poetico americano. Nei termini di “periferia” e “centro”, secondo Luigi Ballerini, si può riassumere il senso del parlare poetico di Carnevali da una parte e quello della compagine americana dall’altra. Il linguaggio “cifrato” di Ballerini si potrebbe così riassumere: Carnevali irrompe nella scena letteraria del nuovo continente portandovi tutto il peso della sua tradizione culturale. La sua era la cultura millenaria che era giunta alla “modernità” metabolizzando le sue origini: la classicità e il mito. Un passato, una tradizione cioè, ben impresso nella mente dei suoi poeti (sotto forma di nostalgia e tensione) e che mancava alla compagine americana.

Per riappropriarsi della luminosità del mito, il poeta europeo era dovuto passare attraverso una linea d’ombra e fare di ogni sua parola un simbolo evocativo. Qui risiede il senso di un parlare che attraverso la “periferia” restituisce i chiaroscuri alle parole, ne valorizza il silenzio, lo spessore significativo e indefinito.

Il “centro” poetico americano col suo parlare che “dice” e “descrive” non riesce a “evocare” e si accontenta invece della semplice qualificazione dell’oggetto osservato. É una scrittura della chiarità, secondo Ballerini, dove niente è nascosto e più misterioso. Tutto è studiato col rigore del tecnicismo e senza il peso di un passato. Il rischio di questa poesia, senza una tradizione cui opporsi o da cui prendere le mosse, era quello di ridursi a gioco esteriore e freddo.

Carnevali fu il primo, secondo Ballerini, a percepire e denunciare quest’inevitabile distanza. Egli si fece «depositario di un incontrollabile enthousiasmos, di una follia intermittente, custode di un grido terrifico, sacerdote di un dio-serpente che lo consuma, imponendogli di resistere alle sottili suasioni dell’accoglimento e dell’ integrazione»304. La scelta elitaria di Carnevali di non scendere a patti con la cultura americana lo portò ad un’inevitabile isolamento: egli si rifugia ‘nel mito’, ovvero in quel possibile reale che le “diurne” riduzioni verbali respingono ai margini, alla periferia dell’esistente.

Carlo Linati, «il primo e più intelligente critico di Carnevali in Italia»305 che ebbe le prime notizie della vita e dell’opera del fiorentino (Carnevali era nato a Firenze) da esponenti della Lost Generation e dall’ espatriato Ezra Pound in particolare306, nel

302 Ibidem. 303

Ivi, p. 418.

304Ibidem.

305 G.C. Millet, in E. Carnevali, Voglio disturbare l’America, Lettere a Benedetto Croce e Giovanni

Papini, op. cit., p.14, nota 15.

306

C. Linati, Fuoriusciti, op. cit.; e C. Linati, Un uomo che ha fretta, in «Corriere della Sera», L, 208, 25 settembre 1925, p. 3.

settembre 1934, dedica a Carnevali un lungo saggio ne la «Nuova Antologia». Qui Linati ribadisce che il lato più interessante dell’esperienza di Carnevali fu la «conquista tecnica dello stile e questa sua audace trapiantazione spirituale»307. Carnevali cioè avrebbe innestato la sua opposizione di letterato europeo, perfettamente all’interno della “scuola americana”. La sua fury si espresse infatti essenzialmente in inglese e le stesse lettere indirizzate a Croce e Papini sono buttate giù «nell’italiano clandestino di chi, per comunicare, ha adottato un altro codice»308. Esse permettono tra l’altro di osservare «come si viene spostando il registro linguistico di Carnevali e come il suo istinto e la sua emozione ricevono un indirizzo culturale»309. In una lettera a Giovanni Papini, datata maggio 1919, Carnevali scrive: «Sono un ottimo traduttore, credo. Ma non so più tanto l’italiano»310.

E, sempre Carnevali, in un’intervista rilasciata quindici anni dopo in Italia, dichiara: «In italiano non so scrivere. La lingua è una creatura, sangue, nervi, muscoli: bisogna conoscerla»311.

Carnevali non ricordava più il suo idioma d’origine, ma la trama psicolinguistica della sua lingua poetica era pur sempre sostanzialmente italiana, tale da promettere, a detta di Alfred Kreymborg «l’introduzione di nuovi ritmi all’interno della poesia americana»312.

Si espone ancora di più Regis Michaud, che ne 1928 scrive: «A Emanuel Carnevali, un emigrato italiano, venne riservato il compito di purgare la poesia nordamericana da ogni artificio […]. Mentre gli Imagisti saccheggiavano i musei e le biblioteche, Carnevali cercava la sua poesia nei ghetti e nelle taverne di New York »313. Il campo di battaglia e il terreno di scontro di questa fury incontrollata furono le riviste americane del primi decenni del secolo: «Others» (qui è il Carnevali stroncatore e polemista), «The Little Review» (il narratore), «Youth» (il pensatore), «Poetry» (il poeta). Da queste riviste, secondo Carnevali “unico segno di vita” della poesia del dopoguerra, inizia la corsa frenetica e devastante dell’uomo che ha fretta,

the hurried man, per l’appunto, il boy-poet che, «gridando, piangendo, maledicendo

in una intolleranza adolescente, riuscì a liberare perfino in versi incompleti e prose, sentimenti universali»314:

307 C. Linati, Un poeta italiano emigrato, op. cit., pp. 60-61. 308

Ivi, p. 10.

309

Ibidem.

310 E. Carnevali, Voglio disturbare l’America, Lettere a Benedetto Croce e Giovanni Papini, op. cit,

p. 76.

311

E.F. Palmieri, Destino d’un poeta in «Il Resto del Carlino», L, 280, 25 novembre 1934, p. 3.

312 «[Carnevali] is a young Italian with a tempestuous vocabulary, that promised to usher new

cadences into American poetry», A. Kreymborg, Troubador. An Autobiography, Boni & Liveright, New York, 1925, p. 332.

313

«Il était réservé à un emigrant italien de purger la poésie américaine de tout artifice […]. Pendent que les Imagistes pillaient les musées et les bibliothéques, Carnevali butinait sa poèsie dans les bouges et les ghettos de New York», R. Michaud, Panorama de la letterature américaine

contemporaine, op. cit., p. 201.

314

P. Rosenfeld, Emanuel Carnevali’s Book, in By Way of Art, Coward-McCann, Inc., New York, 1928, p. 190.

«L’America è orribile. Ma è il mio paese. Bisogna essere ben forti per amarla abbastanza da starci. E mi son detto che ci rimarrò…«Poetry», «The Little Review», «Others», sono gli unici segni di vita…È quello che ci fa arrabbiare noi altri. Che non ci sia un europeo che sappia che dopo Jack London c’è stata una grande battaglia in America con molti morti e feriti. E che i giovani che son rimasti sono pochi. Che bisogna cercarli ed amarli invece di continuare a buttar loro in faccia che non c’è letteratura, né pensiero, né arte in America»315. Ma non si creda che la sua fury derivasse solamente da un fattore istintivo, senza direzione, da «cavallo impigliato ai fili spinati»316.

È difficile descrivere o definire in qualche maniera lo stile di Carnevali e trovarne uno specifico per i saggi e uno diverso per la poesia: è come se in lui non esistesse separazione e anzi il suo stile mutevolissimo innestasse nella poesia la dissertazione filosofica e nella recensione tecnica un afflato poetico non di rado traducentesi in invocazione o invettiva di fuoco.317

La derivazione della sua impostazione estetica, della sua formazione poetica, fin dalla fase di «lettore di poesia», quando ancora non possedeva una forma in cui calarsi, ci porta a riconoscere nella poesia simbolista, e in Rimbaud particolarmente, una valida ispirazione.

In Rimbaud la ricerca dell’ inconnu par le dérèglement de tous les sens, si era fusa per un certo tempo con la vita bohémienne e ribelle. Niente di più simile alla vicenda di Carnevali: egli pensa infatti che il valore supremo della vita sia l’arte, e che è “l’artista l’unico che vive”.

Ma, assieme ad una poetica alla Rimbaud, Carnevali fa suo l’esempio di un altro personaggio fondamentale nello sviluppo del pensiero del Novecento: Nietzsche gli mettere sulle labbra un grido di rivolta, per far uscire gli uomini dal “riflusso del mondo”, ed insegnare loro la strada della conquista dell’indipendenza (dalla paura della morte e della vita). Nietzsche e Rimbaud, assieme a Dostoevskij, Laforgue e Whitman sono l’armamentario poetico e letterario con cui Carnevali si affaccia al mondo:

«Abbia fiducia in me – Vedrà - le manderò degli articoli molto all right che ho scritto - (Su Rimbaud, su Laforgue, su Corbière). Questo l’impressiona, no?»318.

Così Carnevali si rivolgeva nella sua prima lettera a Giovanni Papini, ad inaugurare un carteggio che andrà a coprire un breve ma intenso periodo, dal febbraio 1919 al febbraio 1920. Nel costante desiderio di essere riconosciuto, notato, ascoltato, ogni elemento e particolare di sé, più che dato e offerto veniva da Carnevali inferto, esibito con smania “impressionante”. Il suo linguaggio era poi reso eccentrico dal salto straniante di un lessico che intercalava spesso con l’inglese.

315

E. Carnevali, Voglio disturbare l’America, Lettere a Benedetto Croce e Giovanni Papini, op. cit., Lettera XVI.

316 H. Monroe, A Hurried Poet, «Poetry», XXVII, 4, January, 1926, p. 21.

317 «La poesia convive con la prosa, il saggio col canto, il luogo comune con la citazione erudita», G.

C. Millet, in E. Carnevali, Saggi e recensioni, op. cit., p. 7.

318

Nel maggio 1919 Carnevali scrive quella che rimane forse la più rappresentativa fra le sue lettere allo scrittore italiano: rappresentativa dell’unione intellettuale fra i due scrittori, nella passione per i grandi maestri di cui sopra, ed eccezionale come quadro d’esposizione dello stile carnevaliano, carica di un’ incoerenza tutta umorale.

La lettera venne scritta in un momento particolare: Carnevali aveva appena finito di leggere l’articolo di Papini su Nietzsche e ne era rimasto folgorato. Questo episodio è ricordato un’altra volta all’interno del carteggio319, ed è rievocato ne Il Primo dio, con queste parole:

«Una volta, dopo aver letto un capitolo di Papini, piansi lacrime di fuoco e giunsi al punto di scrivergli una lettera disperata, in cui gli dicevo con parole selvagge la mia ammirazione. Lui fu così gentile da rispondermi e ci scambiammo lettere per più di un anno»320.

La “lettera disperata” di cui parla Carnevali inizia con un vero grido che è insieme di benedizione e di dolore:

«Mi devo alzare dal letto e scriverle- la mia benedizione. Maledette tutte le lodi che avrà ascoltate o lette prima di questa, perché veramente mi fa male l’anima, e vorrei che lei lo sapesse- che mi stesse a sentire per saperlo.

Ma non è una lode. È un ringraziamento. È un ringraziamento. È un ringraziamento»321.

Papini è una sorta di guida che nel giovane poeta infonde la sensazione di non essere solo. E così continua, eccitato e confortato dall’esistenza di un mondo vero, più vero del reale: è l’infatuazione della letteratura di cui parla Carnevali, una realtà di parole, dove le parole sono cose. Questo è il mondo in cui vive il giovane scrittore:

«È un ringraziamento al fatto che lei vive, e che scrivo a lei quel che un giovane vorrebbe dire (se posso!) all’autore di un libro che dice: “Vedi, il mondo tuo, quello che hai cercato tanto (e chi non cerca, non sono tutti così tristi, non dicono tutti “life is hell”, “work is hell” to hell with it), è qua. Vedi si apre una giornata, si apre nella mattina. Vedi come in una giornata aprentesi, ogni cosa col sole è una parola distintamente detta, così ogni parola qua è una cosa distintamente vista col sole nell’alba”»322.

Si alternano incisi ed esclamazioni, continua a occhieggiare l’inglese, il lettore non abbassa mai la guardia e la lettura si arriccia nell’inseguimento dei pensieri dello scrittore. Trova conferma nel passo appena citato, ciò che dello stile di Carnevali ebbe a dire Maria Corti nel 1978, in occasione della pubblicazione de Il primo dio per i tipi di Adelphi: « Come in ogni vero poeta non c’è senso delle cose senza la giusta parola: “Parole, parole, parole…parole che servono solo a strozzarmi, parole

319 «E mi ricordo che una volta, leggendo un suo articolo su Nietzsche, mi alzai dal letto- erano le tre

o le quattro e piangevo scrivendole», Voglio disturbare l’America, op. cit , Lettera XIV.

320 E. Carnevali, Il primo dio, op. cit., p. 121.

321 E. Carnevali, Voglio disturbare l’America, op. cit., Lettera VII.

322 Ivi, pp. 78-79. Le parole di Papini che Carnevali cita nella sua lettera sono tratte dall’ opera

L’altra Metà, Puccini, Ancona, 1912, ora in G. Papini, Filosofia e Letteratura, Mondatori, Milano,

che si distruggono a vicenda e che mi lasciano più solo e infelice di prima”. Egli ha uno stile che sorprende. Cambia con grande rapidità e senza preavviso».323

Il centro della pagina epistolare di Carnevali rivela la visione poetica essenzialmente “moderna” di una parola che dice la cosa: e quando la parola coincide con la cosa stessa il suo dire è terribile. Carnevali sembra voler affermare che l’essenza della poesia risiede nella sua oggettività, nel senso che in essa l’oggetto acquista una posizione preminente in un certo senso isolata. La parola poetica moderna sembra ricondurre il discorso a momenti isolati di parole e farne un luogo pieno di zone buie e di luci.

A partire dalla poesia simbolista queste parole/oggetto, senza legame, quasi violente, sembrano escludere gli uomini. Sembra utile a tal riguardo riferire le parole Roland Barthes: «questo discorso a verticali è un discorso pieno di terrore, un discorso che mette a contatto gli uomini non con altri uomini, ma con le immagini più inumane della Natura: il cielo, l’inferno, il sacro, l’infanzia, la follia, la materia pura»324. L’affermazione di Barthes riporta il discorso su Rimbaud: anch’egli aveva visto di fronte a sé lo scenario terribile dei concetti assoluti e li aveva voluti tradurre sulla carta. La stessa smania di grandezza sembra appartenere a Carnevali che, pur giovanissimo si atteggia a predicatore e profeta di una nuova religione (posizione che, ben sapeva, l’avrebbe condotto ad una ben più grande solitudine).

A chi credeva che questa non fosse la vera e unica vita possibile, Carnevali rispondeva con gli esempi di uomini che, come Papini, avevano profondamente vissuto. I nomi che ricorrono sono sempre gli stessi, Dostoevskij, Whitman, Nietszche, Rimbaud:

«Prezzolini dice che lei non ha saputo la vita, che ha vissuto solo nell’ombra rotta e nera dei libri. È per questo che la benedico. Ora so. So, perché lessi poco tempo fa l’Idiota e Delitto e Castigo e Gl’insultati e Gl’ingiuriati e perché lessi Rimbaud e di Rimbaud e Thus spoke Zarathustra e Leaves of Grass e Drum Taps. E dico che la mia miserabile vita è fatta di pochi mesi. E finora quei mesi furono quei libri che le ho detto […]. Perché solo lei (e Gide?) ha scritto di Dostoevskij, e sembrava che lo sentissi gridare io, lei, dalle parole del libro. Perché solo lei ha scritto di Dostoevskij come un padre griderebbe su un figliolino morto, come si griderebbe, come io mi sento di gridare a lei per quello che ha scritto. Perché solo lei parla di Whitman come di un caro fratello maggiore. Perché dice di Nietszche che perse gli amici e se ne commuove, perché in fine nei libri ha toccato ogni corpo caldo e fremente e torto e singhiozzante e doloroso e innamorato dei genii. Perché, sì, sono la sua famiglia questi grandi (e Prezzolini dice - to hell with him - ) ed il suo amore e perché, maledetta la commonplace (gli imbecilli le hanno sciupate tutte usandole) the stuff of your days is the blood and tears, le parole e sangue, le parole e lacrime del mondo»325.

323 M. Corti, Scoppia il caso dell’italiano Carnevali, «Il Giorno», Milano, 24 settembre 1978, p. 3. 324 R. Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino, 1982, p. 37.

325

La vita è un evento estremamente reale e concreto e gli artisti non solo non ne sono estranei, ma sono gli unici a vivere una vita vera:

«Gli uomini per cui l’emozione è logica, estetica, morale, per cui l’immediata reazione alla vita è meravigliosamente la giusta, grande logica estetica morale teoria di vita »326.

Appare evidente che il rapporto fra l’artista e la sua opera è stretto, finanche fatale: da essa sembra infatti dipendere la sua stessa felicità: l’opera d’arte è insomma ancora intesa come “promesse de bonheur”.

Era stato Nietzsche a purificare per primo il concetto di bellezza dalla sensibilità dello spettatore, per considerare l’arte dal punto di vista del suo creatore. Con Nietzsche, dice Agamben: «la dimensione dell’esteticità cede il posto all’esperienza creativa dell’artista che vede nella propria opera soltanto una promesse de

bonheur»327.

Per l’artista, questa scommessa diventa una specie di droga, che contamina l’esistenza, ma anche il rischio da correre per dare senso all’esistenza. Nietzsche aveva visto l’arte approssimarsi al limite estremo del suo destino, uscire «dall’orizzonte neutrale dell’esteticità per riconoscersi nella sfera d’oro della volontà di potenza»328, e diventare, per colui che la creava, un’esperienza eccezionale, inquietante, «di fronte alla quale parlare d’interesse è a dir poco un eufemismo».329 Nella Genealogia della morale, il filosofo tedesco aveva infatti confrontato la visione di Kant con quella di Stendhal:

« “Bello - ha detto Kant - è quel che piace in guisa disinteressata”, disinteressata! Si confronti questa definizione con quell’altra espressa da uno ‘spettatore’ e artista vero - Stendhal, che chiama il bello une promesse de bonheur. Qui è comunque rifiutata e cancellata proprio quell’unica cosa che Kant mette in rilievo nella condizione estetica: le désintéressement. Chi ha ragione: Kant o Standhal?”330. Sarà ovvio per Nietzsche che “la mancanza di una più sottile esperienza personale, si presenta con l’aspetto di un grosso