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l’indagine è tutta incentrata sul valore “causale” posseduto dal fatto di reato, ossia in altri termini sull’offesa penalmente rilevante Nel secondo comma,

Nel documento La pericolosità sociale (pagine 146-148)

l’indagine sposta il proprio oggetto sul valore “sintomatico” posseduto dal fatto di

reato, ossia sulla personalità del reo che da esso può desumersi

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Si potrebbe ipotizzare, rispetto alle prognosi di capacità a delinquere ed a quella di pericolosità sociale, la questione circa la fondatezza della c.d. discrezionalità “bifasica”. Vale a dire, anche una volta accertata discrezionalmente la sussistenza in capo all’individuo della capacità a delinquere ovvero della pericolosità sociale, il giudice avrebbe un ulteriore e distinto margine di discrezionalità circa l’aumento del quantum sanzionatorio da ritagliare o l’irrogazione della misura di sicurezza. Questa tesi, che si fonda sull’interpretazione della locuzione “può” (o simili) presente nel testo di una determinata fattispecie, è stata accreditata, ricorrendo alla terminologia discrezionalità “propria” e discrezionalità “impropria” (la c.d. discrezionalità “bifasica”), da P.NUVOLONE, Il potere discrezionale del giudice in materia di sanzioni nel diritto

penale italiano, in Stellung und Aufgabe des Richters im modernen Strafrecht: mélanges Oskar Adolf Germann, Berna, Stämpfli, 1959, p. 228 ss..

Ma l’allievo BRICOLA ha correttamente sottolineato come la discrezionalità al contempo attribuisca in capo al giudice sia un potere che un dovere di accertamento. La conclusione, dunque, è che una c.d. discrezionalità “bifasica” non può esistere: «la discrezionalità penale, da un punto di vista dinamico, può essere compresa ricorrendo allo schema della fattispecie a formazione frazionata. Ecco le movenze attraverso cui essa si articola: ove si delinei il limite estrinseco della discrezionalità, sempre sussistente in forma più o meno dettagliata (si pensi, da un lato, alle «offese» reciproche ex art. 599 comma 1° e, dall’altro, al «reato» per quanto attiene al giudizio di scelta o di graduazione della pena ex art. 133 c.p.), scatta per il giudice il dovere di intraprendere il giudizio del caso concreto; il quale si snoda attraverso la scelta del significato di valore che condiziona il trattamento giuridico-penale; ritrovato il valore congruo rispetto allo scopo per cui è attribuito il potere discrezionale, scatta il dovere di applicare il trattamento ipotizzato». F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, Vol. I, Milano, Giuffré, 1965, p. 128 ss.. e 144 ss..

A ben vedere, ma in un’altra accezione, è possibile parlare di c.d. discrezionalità “bifasica” nelle ipotesi in cui il giudice, dopo aver discrezionalmente accertato in capo all’individuo la capacità a delinquere ovvero la pericolosità sociale, possa discrezionalmente scegliere una di due pene (art. 24 c.p.) ovvero una di due misure di sicurezza (ad esempio, art. 215, comma 4, c.p.) predeterminante in via alternativa tra di loro.

(93) Ciò può determinare un’apparente sovrapposizione tra elementi ricompresi tanto nel

primo quanto nel secondo comma. Si pensi, a titolo esemplificativo, ad un dato fattuale che appartenga contemporaneamente alle “modalità dell’azione” (n. 1 del primo comma) ed alla “condotta contemporanea al reato” (n. 3 del secondo comma). Ove quest’ultima naturalmente si riferisce ad ogni comportamento che, anche se temporalmente contestuale all’azione criminosa, non possiede penale rilevanza.

Circa la questione della tassatività o meno degli indizi enunciati nell’art. 133 c.p., sottovaluta la questione il CASALINUOVO perché, pur dichiarandone la natura tassativa, sostiene che stante l’ampiezza del disposto normativo non vi potrebbero comunque essere altri elementi suscettibili di esservi ricompresi e da cui desumere la capacità a delinquere del soggetto. Vedi A. CASALINUOVO, La capacità, cit., p. 109 ss.. Il che non sembra potersi accogliere se soltanto si pone mente a tutti quei fattori antropologici che non sono richiamati dall’art. 133 c.p.. Per la natura non tassativa di questa norma, vedi E.FLORIAN,Trattato, cit., Vol. II, p. 874 ss.;M.ROMANO- G.GRASSO, Commentario, cit., Vol. II, p. 302. Nello stesso senso del CASALINUOVO, invece, F. BRICOLA, La discrezionalità, cit., p. 73 ss. e 93 ss., che analizza con molto acume i limiti di rango costituzionale che incidono sull’attività discrezionale del giudice legittimata dall’art. 133 c.p.. A titolo esemplificativo: il principio costituzionale di non colpevolezza - sancito dall’art. 27, comma 1, Cost. - determinerebbe la conseguente irrilevanza, ai fini della prognosi di capacità a delinquere, dei “precedenti giudiziari” quali le sentenze di proscioglimento per insufficienza di prove (si

ricorda che l’autore scrive prima dell’entrata in vigore del codice VASSALLI) ovvero quelle per

intervenuta amnistia propria.

Per interessanti considerazioni sui rapporti tra “motivi” e “causa” del reato, vedi P. NUVOLONE, I limiti, cit., p. 25 ss.. Se la «causa di un reato è la finalità obbiettiva che l’azione

criminosa persegue e che ne spiega l’essenza e l’individualità indipendentemente dalle finalità soggettive dell’agente», ne deriva l’irrilevanza come scriminanti tacite dei “motivi” dell’azione criminosa, salvo che il legislatore decida di attribuire loro il diverso valore di “causa” (come, ad esempio, nella scriminante a struttura soggettiva contemplata dall’art. 384 c.p.).

Il GRISPIGNI aveva sin da subito denunciato la possibile sussistenza del bis in idem nelle

ipotesi in cui gli indizi richiamati dall’art. 133, comma 2, c.p. fossero anche cristallizzati normativamente in diverse ed autonome disposizioni. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai “motivi a delinquere” ed alla circostanza aggravante dei “motivi abietti o futili” (art. 61, comma 1, n. 1), c.p.) ovvero alla circostanza attenuante dei “motivi di particolare valore morale o sociale” (art. 62, comma 1, n. 1), c.p.). Vedi F. GRISPIGNI, Diritto, cit., Vol. I, p. 221 ss.. Nel senso

dell’ammissibilità di una duplice valutazione del medesimo elemento, invece, il CASALINUOVO che,

a proposito dei “motivi a delinquere”, ricorrendo ad un’argomentazione capziosa secondo cui «essi, nel loro valore di aggravamento o di attenuazione del reato, operano, direttamente, una volta sola, precisamente come base di fatto della circostanza attenuante o aggravante. Non può dirsi, di contro, che intervengano ad operare una seconda volta, perché, questa seconda volta, essi non esplicano alcuna funzione aggravatrice o attenuatrice del reato, bensì semplicemente assolvono il compito di contribuire alla conoscenza della personalità del colpevole, appaiono cioè come mezzi attraverso cui la personalità può scrutarsi, illuminarsi, rivelarsi. Questa, e solo questa, influisce, in uno alla gravità del reato, alla determinazione della misura della pena». Vedi A.CASALINUOVO, La

capacità, cit., p. 221 ss.. Non si comprende, però, il motivo per cui questa duplice valutazione,

attinente ora all’aggravamento o all’attenuazione del reato, ora all’analisi della personalità del soggetto, non sia ammessa dall’autore nella simile ipotesi dei rapporti tra gli elementi richiamati dall’art. 133 c.p. e le circostanze attenuanti inerenti l’imputabilità. Nel senso dell’ammissibilità di una duplice valutazione, anche se limitata al profilo delle circostanze attenuanti generiche, vedi M.GALLO, Appunti, cit., Vol. III, p. 12.

Analogo discorso può essere riferito, mutatis mutandis, ai rapporti tra recidiva e “precedenti penali”. Non si condivide l’assunto del LATAGLIATA secondo cui, stante la natura

retributiva della recidiva e quella preventiva della capacità a delinquere, la valutazione dei “precedenti penali” è diversa nella prima e nella seconda sede. E ciò perché, in relazione alla recidiva, tali precedenti rilevano ai fini dell’analisi della personalità del soggetto mentre, in relazione alla capacità a delinquere, essi rilevano ai fini dell’accertamento di una maggiore colpevolezza siccome la conoscibilità della precedente condanna. Vedi A.R. LATAGLIATA,

Contributo allo studio della recidiva, Napoli, Jovene, 1958, p. 194 ss..

Ora, ferme restando le considerazioni svolte nel paragrafo successivo circa la finalità propria dell’istituto della recidiva, si può qui concludere che le argomentazioni di stampo formalistico sopra esaminate legittimerebbero, a seguire rigorosamente il loro iter logico, anche ipotesi di “ter in idem”. A titolo esemplificativo, si pensi ad un motivo di particolare malvagità che sia al contempo ricompreso tra i “motivi a delinquere” (art. 133, comma 2, n. 1), c.p.), considerato come “motivo abietto” (art. 61, comma 1, n. 1), c.p.) ed accertato come espressione della tendenza a delinquere (art. 108 c.p.). Quello che deve rimarcarsi è che la diversità di funzioni svolte dal medesimo elemento non fa venir meno, in caso di una sua duplice valutazione, la lesione del principio del ne bis in idem. Al massimo, il giudice potrà selezionare, in ordine a quell’elemento, una determinata finalità e valutarlo alla stregua di quella ma il quantum sanzionatorio finale, come precipitato di un procedimento logico-matematico complesso, dovrebbe considerare, una volta sola, tutti i dati per esso rilevanti. Nell’ottica di una concezione retributiva, è fortemente critico circa l’utilizzazione, ai fini della commisurazione della pena in concreto da irrogare, delle risultanze indiziarie estranee alla struttura del “fatto di reato”, tanto quando queste siano a sfondo soggettivo (ad esempio, il “carattere del reo”) quanto quando queste siano a sfondo oggettivo (ad esempio, la “condotta susseguente al reato”), E.DOLCINI, La commisurazione, cit., p. 306 ss..

Appare utile rimarcare come, nell’architettura della norma in esame, la

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