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dell’interpretazione sistematica (3) E fornisce al contempo il prezioso strumento

Nel documento La pericolosità sociale (pagine 168-170)

Ad onor del vero, più che di norma penale “reale”, dovrebbe parlarsi in questo caso di

disposizione penale “reale”. Ciò perché, come acutamente sottolineava il CRISAFULLI, tra “disposizione” e “norma” intercorre la medesima differenza che separa il “segno” dal suo “significato”: «per disposizione, dunque, non si intende la norma (comunque e da chiunque) formulata, quanto, più propriamente, la formula istituzionalmente rivolta a porre e a rivelare la norma». La norma penale “reale” del GALLO, a ben vedere, altro non è che un insieme di

disposizioni la cui armonica coordinazione consente di ricostruire sistematicamente la disciplina

normativa di un dato istituto. Soltanto attraverso una successiva attività ermeneutica potrà ritagliarsi uno schema delle possibili norme ricavabili dagli enunciati linguistici oggetto di un tale “sistema” di disposizioni. Vedi V.CRISAFULLI, voce Disposizione (e norma), in Enciclopedia del

Diritto, Vol. XIII, Milano, Giuffré, 1964, p. 195 ss..

In realtà, la distinzione tra “disposizione” e “norma” veniva già delineata in nuce dal CARNELUTTI che distingueva tra “dichiarazione” e “formula”, nonché dal KELSEN che, nel

distinguere la proposizione descrittiva da quella normativa, statuiva in relazione a quest’ultima che la “norma” «è il significato della proposizione, con cui trova espressione il senso dell’atto di volontà». Vedi F.CARNELUTTI, Teoria, cit., p. 374 ss. e H.KELSEN, Allgemeine, cit., p. 255 ss.;

ID., Reine, cit., p. 87 ss..

Vedi anche, per i rapporti tra “segno” e “significato”, o nel suo linguaggio tra “forma rappresentativa” ed “idea”, E.BETTI, Teoria generale della interpretazione, Vol. I, a cura di G.

Crifò, Milano, Giuffré 1990, p. 61 ss. e 111 ss.. Ove per “forma” si intende un «rapporto unitario di elementi sensibili, idoneo a serbare l’impronta di chi l’ha foggiato o di chi lo incarna» e la qualifica di funzione rappresentativa «va intesa nel senso che attraverso la forma debba rendersi a noi riconoscibile, facendo appello alla nostra sensibilità e intelligenza, un altro spirito diverso dal nostro e tuttavia intimamente affine al nostro».

Per concludere sul punto, appare utile soffermarsi sull’argomentazione del CRISAFULLI

secondo cui, e l’esempio paradigmatico sarebbe offerto dalla “norma” consuetudinaria, esisterebbero “norme” senza “disposizione” (ove, naturalmente, quest’ultimo concetto viene inteso come sinonimo di “fonte scritta di produzione”). Nell’ipotesi di “norma” consuetudinaria, invero, la successiva “disposizione” eventualmente formulata costituirebbe soltanto una mera fonte cognitiva di una “norma” già esistente. Ma non è chi non veda come la “disposizione”, nell’accezione accolta dal CRISAFULLI, esista anche per la “norma” consuetudinaria. Ed è, per la

precisione, quella fonte scritta di produzione che rende giuridicamente rilevante ogni comportamento caratterizzato da diuturnitas ed opinio iuris ac necessitatis (artt. 1, 8 e 9 delle c.d. “pre-leggi” e art. 10, comma 1, Cost.). Si potrà, tutt’al più, discutere circa un problema di tassatività in relazione ad una “disposizione” esistente.

(2) Nel senso inteso dal GORLA e non anche dal KELSEN: gli evidenti influssi crociani

conducono il primo autore a configurare l’interpretazione come attività “storica”. In altri termini, l’interpretazione risulterebbe un atto creativo nella stessa misura in cui l’attività storica si eleva a sviluppo o comprensione di un atto dello spirito (vedi, per l’accezione crociana della storia, la nota n. 78 del secondo capitolo). «L’interpretazione nella sua forma più alta è la riproduzione e il dispiegamento della legge nello spirito dell’interprete, che la rivive per comprenderla: dispiegamento che è comprensione, poiché viene assunto a contenuto di un giudizio sulla stessa legge. Nel momento del dispiegamento della legge nel nostro spirito, la interpretazione si presenta come la stessa attività legislativa. [ . Uno stesso caldo alito di vita pervade legislazione e interpretazione e le oppone alla fredda operazione sulle forme logiche».

Da qui la distinzione tra un sistema “interno” ed uno “esterno”, rispettivamente oggetto privilegiato dell’attività interpretativa ovvero della scienza del diritto. «L’interpretazione studia cioè pensa il diritto, un dato diritto, come individuum storico, dal di dentro; la scienza studia in genere il diritto dal di fuori, come fenomeno, come oggetto posto fuori di essa. L’interpretazione rivive in sè , rifà in sè il processo formativo di quel dato diritto, in sè dispiegandolo; quindi lo pensa storicamente, lo comprende o conosce (interpreta) come individuum storico, al di fuori di

ogni schema o concettualizzazione, nella sua piena individualità. La scienza invece studia il diritto, o quel dato diritto positivo, dal di fuori, non pei suoi caratteri individuali, sibbene generalmente, sotto le specie del tipo, generalità o astrazione, che necessariamente toglie a quel determinato diritto i suoi peculiari individuali caratteri». Vedi G. GORLA,L’interpretazione del

diritto, Milano, Giuffré, 1941, p. 33, 47 e 64 ss..

Un ponte concettuale tra il pensiero del GORLA e quello del KELSEN potrebbe essere

rappresentato dalla peculiare posizione del PARESCE che ricostruisce il giudizio interpretativo alla

stregua di un giudizio “valutativo”, teleologicamente finalizzato all’applicazione, e non anche come un giudizio meramente conoscitivo: «ciò consente di porre l’interpretazione come un momento fondamentale, anzi fondante, del diritto, in quanto non esiste che il diritto interpretato ai fini propri del fenomeno giuridico e la dicotomia tra norma da interpretare e norma interpretata non è che l’espediente caratterizzante di questo fenomeno, che permette […] l’adeguazione dell’astratto fantasma legislativo al fatto concreto. La collocazione sistematica dell’interpretazione diventa, così, il punto centrale dell’autentica ricostruzione del fenomeno giuridico». Vedi E. PARESCE, voce Interpretazione (filosofia), in Enciclopedia del Diritto, Vol.

XXII, Milano, Giuffré, 1972, p. 181.

Nella concezione del KELSEN, infine, l’interpretazione assurge al rango di attività di

“specificazione” della struttura del suo Stufenbau e, in particolare, delle relazioni tra la norma “superiore” e quella “inferiore” (dalla Costituzione fino alla sentenza che irroga una pena ovvero al singolo atto di esecuzione forzata). Atteso che la relativa indeterminatezza della norma “superiore” può risultare tanto da un atto “volontario” (ad esempio, nelle ipotesi di predisposizione di una norma “generale”) quanto da un atto “involontario” (ad esempio, nelle ipotesi di ricorso a termini polisenso ovvero di sussistenza di antinomie normative), la “discesa” piramidale – che conduce dallo “statico” al “dinamico” - contribuirà a delineare il contenuto dell’atto di applicazione del diritto di livello “inferiore”. Spalancando le porte all’arbitrium

iudiciis: «l’interpretazione dell’organo che applica il diritto è sempre autentica. Essa crea diritto.

Veramente si parla di interpretazione autentica soltanto quando questa interpretazione assume la forma di una legge o di un trattato internazionale ed ha carattere generale, cioè crea diritto non soltanto per una caso concreto, ma per tutti i casi analoghi; quando cioè l’atto definito come interpretazione autentica rappresenta la produzione di una norma generale. Ma l’interpretazione da parte di un organo che applica il diritto è autentica (cioè produce diritto) anche quando essa produce diritto soltanto per un caso concreto, cioè quando l’organo produce soltanto una norma individuale o esegue una sanzione». Con l’inevitabile svalutazione dell’interpretazione dottrinaria (recte: la scienza del diritto), siccome sprovvista del fondamentale momento applicativo, che risulta degradata a mero momento conoscitivo (recte: non creativo) dello schema di possibilità applicative offerto dalla “disposizione” da interpretare. Vedi H.KELSEN, Reine, cit., p. 381 ss.. È curioso notare come, nonostante le premesse dottrinali speculari, anche il realismo scandinavo consideri l’attività giurisdizionale come “creatrice di diritto”. Naturalmente, ciò deve essere contestualizzato nella peculiare concezione del diritto soggettivo non quale potere, oggettivamente esitente, di avanzare una pretesa tutelata dall’ordinamento giuridico bensì quale mero “sentimento” di un simile potere associato ad una determinata situazione fattuale. In questa sfera di “ideologia giuridica”, la sentenza, al pari di ogni altra norma giuridica, diverrebbe un vero e proprio “imperativo indipendente” posto che «indirettamente essa fornisce un modello di comportamento sia per le parti che per il giudice. Tale modello è contenuto nell’idea dell’azione che il cosiddetto titolare del diritto soggettivo è autorizzato a compiere o ad esigere dagli altri». K. OLIVECRONA, Law, cit. p. 90 ss..

(3) Definita autorevolmente dal PARESCE come «l’elaborazione del complesso della

legislazione e delle sue implicazioni in un dato momento mercé l’applicazione di principi coordinatori, rappresentanti i valori medi in esso dominanti»: vedi E. PARESCE, voce

Interpretazione, cit., p. 227.

Naturalmente, anche l’interpretazione sistematica, come ogni forma di attività interpretativa, non si sottrae alla dialettica, di carattere misto oggettivo-soggettivo, che già il BETTI definiva quale “antinomia” propria di ogni processo ermeneutico. Secondo l’insegnamento del giurista di Camerino, invero, «dall’un canto si pone all’interprete un’esigenza di oggettività, in

concettuale attraverso cui tentare di tracciare i confini di quello che potrebbe

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