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procedimentale finalizzato alle necessità istruttorie in mero strumento di prevenzione, espressione

Nel documento La pericolosità sociale (pagine 198-200)

di un’inconfessata e vischiosa concezione inquisitoria del procedimento penale, il FERRAJOLI che

conclude come la presenza nel diritto processuale penale di un simile istituto, che trova anche copertura costituzionale, vanifichi in larga parte il principio di non colpevolezza e comunque si ponga in posizione di incompatibilità con il principio di stretta giurisdizionalità previsto da un modello garantista di sistema penale: «l’infallibilità e la prontezza della pena auspicate da Beccaria e da Bentham sono state sostituite dall’immediatezza e dall’infallibilità della carcerazione preventiva». Vedi L.FERRAJOLI, Diritto, cit. p. 561 ss. e 803 ss..

(50) Il riferimento va, naturalmente, alla disposizione di cui all’art. 4 bis, comma 1, o.p. che

certifica, in relazione alla “efficacia” del programma risocializzativo, una intollerabile disuguaglianza normativa tra detenuti. Questo perché in tale disposizione il nomen iuris del reato – o, peggio ancora, l’accertamento dell’aggravante della finalità del terrorismo ovvero del c.d. metodo mafioso, tendenzialmente configurabili in qualsiasi delitto – fa le veci dell’osservazione scientifica della personalità e del relativo programma di cui all’art. 13 o.p.. La presunzione legale assoluta di inadeguatezza agli usuali strumenti di rieducazione eleva dunque la collaborazione con la giustizia, sulla cui dubbia spontaneità è inutile soffermarsi, a requisito positivo per l’assegnazione al lavoro all’esterno e per la concessione dei permessi premio o delle misure alternative alla detenzione. Ove risulta agevole cogliere il duplice effetto aberrante che tale norma produce: in primo luogo, si transita dal principio “nemo tenetur se detegere” in sede procedimentale ad una sorta di “ricatto collaborativo” in sede esecutiva; in secondo luogo, il beneficio penitenziario appare completamente sganciato dai risultati ottenuti con il percorso risocializzativo intrapreso, assolvendo alla precipua funzione di “monetizzare” il beneficio stesso.

(51) Introdotte dalla legge GOZZINI, queste disposizioni dalla natura “complementare”

consentono all’autorità amministrativa l’imposizione di “prescrizioni” così ampie da alterare la fisionomia dell’esecuzione penale. Non soltanto perché, in tali ipotesi, viene svuotata di ogni contenuto la riserva assoluta di legge in materia penitenziaria ma anche perché queste nuove restrizioni della libertà personale sembrano violare la riserva di giurisdizionalità sancita dagli artt. 13 e 15 Cost.. Di talché, non può condividersi l’argomentazione del Giudice delle Leggi per cui i provvedimenti di disposizione dei regimi detentivi “speciali”, non incidendo sulla qualità o quantità della pena ovvero sulla concessione o meno delle misure alternative alla detenzione, sfuggirebbero a tale riserva siccome «rientranti nell’ambito di competenza dell’amministrazione penitenziaria, attinenti alle modalità concrete, rispettose dei diritti del detenuto, di attuazione del regime carcerario in quanto tale, e dunque già potenzialmente ricomprese nel quantum di privazione della libertà personale conseguente allo stato di detenzione». Vedi Corte Costituzionale, sentenza 18 ottobre 1996, n. 351; sentenza 28 luglio 1993, n. 349.

In particolare, riguardo al regime detentivo previsto dall’art. 41 bis o.p., risultano doverose alcune ulteriori considerazioni. Il primo comma di tale disposizione, fortemente improntato ai concetti di “ordine” e “sicurezza” richiamati dall’art. 1 o.p., eredita il precetto contenuto nell’ormai abrogato art. 90 o.p. circoscrivendone, però, l’ambito di applicazione. Attualmente, invero, sono richiesti «casi eccezionali di rivolta» o «altre gravi situazioni di emergenza», in luogo dei precedenti e fin troppo generici «gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza». Inoltre, la sospensione degli effetti delle norme previste dall’o.p. risulta circoscritta

esclusivamente all’istituto interessato, ovvero a parte di esso, e non anche, con un richiamo omnicomprensivo, ad «uno o più stabilimenti penitenziari». L’ammodernamento in versione garantistica del primo comma dell’art. 41 bis o.p. non rende tuttavia opaco l’univoco messaggio normativo che da questa disposizione sembra derivare: vale a dire che, nelle ipotesi considerate come “patologiche”, sono i detenuti a doversi conformare alle regole del carcere e non anche il contrario (come, al contrario, dovrebbe accadere ai sensi degli artt. 13 o.p. e 27, comma 3, Cost.).

Il secondo comma dell’art. 41 bis o.p., nonostante il richiamo ai «gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica», attiene esclusivamente a singoli detenuti od internati e si atteggia, in forte stridore con il terzo comma dell’art. 27 Cost., alla stregua di una vera e propria misura di prevenzione che sfugge però alla riserva di giurisdizionalità. E sia sufficiente pensare a quella forma di “confino” rappresentato dal comma 2 quater della disposizione ora in esame per cui i detenuti destinatari di tale regime detentivo devono essere ristretti «all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria». L’anima della misura di prevenzione emerge, poi, anche dall’inequivocabile addenda legislativa inserita nel 2009 nel secondo comma dell’art. 41 bis o.p.: attualmente si dispone che, nel caso di esecuzione di pene concorrenti, ed a differenza di quanto disposto per l’art. 4 bis o.p., sia applicato il principio di unità della pena cumulata (art. 76, comma 1, c.p.), con la deprecabile conseguenza che il regime detentivo speciale permane anche dopo l’espiazione del quantum di pena detentiva relativa al delitto che lo aveva legittimato. Con il che non soltanto si oblitera l’orientamento garantistico formatosi, prima di tale addenda, in seno al giudice di legittimità (Cass. Pen., S.U., sentenza 30 giugno 1999) ed a quello costituzionale (Corte Costituzionale, sentenza 27 luglio 1994, n. 361) ma si verifica oltretutto, atteso lo stretto collegamento normativo che avvince l’art. 4 bis o.p. all’art. 41 bis o.p., una sorta di contraddizione in sede di trattamento penitenziario. Invero, scontato il suddetto quantum di pena detentiva, il detenuto potrà beneficiare dei provvedimenti di cui all’art. 4 bis o.p. pur rimanendo soggetto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis, comma 2, o.p.. Senza considerare, poi, che il rinvio di carattere formale all’art. 4 bis o.p. - la cui elencazione, con cadenza periodica, viene “riempita” di nuove fattispecie criminose a seconda delle emergenze - conduce ad un ampliamento “incontrollato” della sfera applicativa dell’art. 41 bis, comma 2, o.p..

Alle perplessità sopra cennate va aggiunto il rigore dell’assenza di un meccanismo di graduabilità nella durata di tale regime, fissata in 4 anni, ovvero nelle sue (potenzialmente illimitate) proroghe, la cui durata è fissata in 2 anni. Ove l’istituto della proroga appare di natura quasi “paradossale”: se invero si accerta la persistenza della pericolosità del detenuto (oltretutto, richiamando indizi ultronei come il “tenore di vita dei familiari del sottoposto”), ciò significa in re

ipsa che tale regime si è rivelato come ineffettivo e, lungi dall’essere prorogato, dovrebbe essere, al

contrario, sostituito.

Infine, dal punto di vista giurisdizionale si assiste ad un preoccupante e consistente depauperamento delle garanzie previste. Con la novella del 2009, sparisce invero il sindacato di merito ad opera del tribunale di sorveglianza, la cui giurisdizione è attualmente “tollerata” esclusivamente in relazione ai presupposti applicativi del regime detentivo “speciale”. La giustificazione di una simile decurtazione garantistica sembra da rinvenire nella parallela riduzione del saggio di discrezionalità in capo al guardasigilli, atteso che le “prescrizioni” previste dal comma 2 quater dell’art. 41 bis o.p. vanno applicate cumulativamente ed automaticamente. Tuttavia, rimangono ancora immutati consistenti profili discrezionali in relazione tanto all’an del regime detentivo “speciale” quanto al contenuto di alcune “prescrizioni”: ad esempio, «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate» ovvero, in relazione alle ipotesi di permanenza all’aperto del ristretto, l’adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a

meccanismo perverso, ove la Costituzione sembra rimanere fuori delle porte del

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