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INDICAZIONI PER IL RICOVERO IN UT

LA CIRCOLAZIONE EXTRACORPOREA

INDICAZIONI PER IL RICOVERO IN UT

Grave dispnea che non risponde in maniera adeguata all’iniziale terapia di emergenza

Cambiamenti dello stato mentale (confusione, letargia, coma)

Ipossiemia persistente o in peggioramento (PaO2 < 40 mmHg) e/o

acidosi respiratoria grave/in peggioramento (pH < 7.25) , nonostante il supporto di ossigeno e la NIV

Necessità di ventilazione meccanica invasiva

Instabilità emodinamica – necessità di vasopressori

FONTE: Linee Guida GOLD (2014)

La NIV si è dimostrata una tecnica efficace per il trattamento dell’insufficienza respiratoria acuta ipercapnica ed in particolare nelle esacerbazioni della BPCO [133], tanto da essere ampiamente utilizzata in questo ambito. La NIV è indicata quando, nonostante una terapia medica adeguata, si trova un’acidosi respiratoria (pH < 7.35), ipercapnia (PaCO2 > 45-60 mmHg) ed una frequenza respiratoria > 24 atti al minuto [134]. Questa tecnica è basata, solitamente, sull’associazione tra una CPAP (Continous Positive Airway Pressure) ed una PSV (Positive Support Ventilation), con la finalità di migliorare la ventilazione alveolare. Tale approccio ha alcuni vantaggi rispetto all’intubazione, tra i quali si possono ricordare la necessità di meno giorni di ricovero in terapia intensiva e la possibilità di evitare le

complicanze connesse con l’intubazione (per esempio, le infezioni). È estremamente importante, però, controllare i parametri emogasanalitici del paziente, per poter scegliere tra una NIV e l’intubazione [135].

In letteratura, uno dei primi lavori ad aver dimostrato l’efficacia della NIV è stato quello di Brochard e coll [136], nel quale si sottolinea la riduzione della mortalità ospedaliera, del numero di intubazioni e dei giorni di degenza in terapia intensiva. Comunque, bisogna evidenziare che i pazienti inclusi in questo studio erano estremamente selezionati. Un ulteriore passo in avanti, è stato determinato da una serie di trials clinici, nei quali si è confrontato l’utilizzo della NIV con quello della ventilazione meccanica convenzionale [137][138]. In entrambi, è stata dimostrata una miglior sopravvivenza a tre mesi ed a un anno nei pazienti non intubati, anche se non si sono verificate differenze nella mortalità intraospedaliera. Una meta-analisi successiva [139] ha invece mostrato una riduzione della mortalità, un miglioramento del pH e della PaCO2 alla prima ora di trattamento ed un numero di giorni di ricovero più basso.

Sebbene l’utilizzo della NIV possa essere considerato il trattamento iniziale di scelta dei pazienti con riacutizzazione da BPCO (laddove altri approcci abbiano fallito), ci sono dei casi nei quali risulta inefficace. Alcuni fattori che bisogna considerare in tal senso sono [135]:

• deterioramento delle condizioni cliniche del paziente

• peggioramento dei parametri emogasanalitici (dopo 1-2 ore di trattamento) o non miglioramento (dopo 4 ore)

• intolleranza alla NIV

• mancato miglioramento dei sintomi • peggioramento del livello di coscienza • emottisi

• evoluzione di nuovi sintomi e/o complicanze, come pneumotorace e stasi del muco

Appare evidente che in queste situazioni sarebbe necessario ricorrere all’intubazione, che richiede la sedazione del paziente, con tutte le problematiche ad essa connesse. Per questo, è nata l’idea di poter associare la NIV con la rimozione extracorporea della CO2: il fine principale è quello di evitare l’intubazione, utilizzando una tecnica che sembrerebbe, anche dagli studi presenti in letteratura, alquanto sicura.

Fino al 2009, non ci sono stati lavori sull’utilizzo dell’ECCO2R nella popolazione con BPCO. Gli studi che si possono trovare per questo ambito sono piuttosto recenti. Kluge e coll. [140] hanno eseguito il primo studio clinico sulla sicurezza ed efficacia della decapneizzazione in pazienti con un’insufficienza respiratoria acuta ipercapnica, per i quali la NIV aveva fallito. In questo studio, 21 soggetti sono stati comparati in maniera retrospettiva con pazienti trattati con la ventilazione meccanica invasiva, in seguito a scarsa efficacia terapeutica della NIV. Dei 21 pazienti inclusi, 14 richiedevano il trattamento in seguito ad un’esacerbazione da BPCO. I risultati di questo studio mostrano che il 90% dei pazienti trattati con ECCO2R non hanno richiesto l’intubazione e la ventilazione meccanica invasiva e hanno mostrato una tendenza ad avere bisogno di un numero di giorni di degenza più basso. Nonostante questo, non si è mostrata una differenza statisticamente significativa nella mortalità a 28 giorni o a 6 mesi. Inoltre, questo studio non è riuscito a creare due gruppi omogenei di confronto; per esempio, nel gruppo dei pazienti trattati con decapenizzazione la PaCO2 di partenza era di 84 mmHg, mentre nel gruppo di controllo era di 65 mmHg. È plausibile, quindi, che questa differenza abbia influenzato negativamente l’outcome dei soggetti, condizionandone la mortalità. Per quanto riguarda gli effetti collaterali connessi al trattamento extracorporeo, si

sono verificati due episodi di sanguinamento maggiore (nel sito di inserzione della cannula) e sette di tipo minore, più un caso di trombocitopenia indotta da eparina.

Burki e coll. [141] hanno effettuato un lavoro sulla stessa categoria di pazienti (riacutizzazione di BPCO) distinti in tre gruppi diversi; il primo conteneva 7 soggetti nei quali si era verificato il fallimento della NIV, il secondo raggruppava 2 pazienti che avevano rifiutato l’intubazione (in seguito ad inefficacia della NIV) e il terzo includeva 11 pazienti sottoposti a ventilazione meccanica invasiva, associata a ECCO2R. Nel primo gruppo, nonostante un pH di partenza di 7.25 (valore medio) ed una PaCO2 pari a 83 mmHg durante trattamento con NIV, i pazienti sono riusciti ad evitare l’intubazione e la ventilazione meccanica. I primi miglioramenti si sono registrati a 6 ore dall’inizio del trattamento, fino a raggiungere un valore di pH medio pari a 7.36 ed una PaCO2 di 61 mmHg in 24 circa. Entrambi i pazienti del secondo gruppo non sono stati intubati, ma sono stati supportati in maniera intermittente dalla NIV, dopo il trattamento con la decapneizzazione. Nel terzo gruppo, quasi tutti i pazienti sono migliorati; di questi, tre sono stati svezzati dalla ventilazione dopo 30 giorni. Solo due soggetti sono stati portati al respiro spontaneo, utilizzando in contemporanea l’ECCO2R. Bisogna sottolineare che, prima di iniziare la decapneizzazione, nove pazienti su 11 sono stati sottoposti a ventilazione meccanica per più di due settimane e i due che sono stati svezzati con la rimozione extracorporea sono stati ventilati meccanicamente per 4 e 9 giorni, rispettivamente. Questo sembrerebbe suggerire che l’ECCO2R determini dei miglioramenti soprattutto se usata precocemente, prima che il paziente diventi dipendente della ventilazione meccanica. Questo studio ha riportato una frequenza di eventi avversi maggiore rispetto a quello che ci si potrebbe attendere con questa tecnica. Infatti, si sono verificati tre sanguinamenti maggiori, che hanno richiesto

trasfusioni, un caso di trombocitopenia eparina indotta, uno pneumotorace ed una TVP. La mortalità totale, calcolata a 30 giorni, era del 35%.

Un piccolo studio riguardante sei pazienti (con BPCO riacutizzata) è stato pubblicato da Spinelli e coll. [142], i quali hanno dimostrato la possibilità di modificare la frequenza respiratoria a seconda dell’entità di flusso utilizzata nella decapneizzazione. In particolare, si è osservato che la frequenza respiratoria diminuiva con l’aumentare del flusso. Questo significa che è possibile controllare la frequenza respiratoria di un soggetto non ventilato meccanicamente, ma trattato solamente con la NIV; quindi, potremmo evitare le complicanze connesse con un’ipocapnia e un’alcalosi respiratoria.

Questi primi studi hanno cercato di applicare l’utilizzo della ECCO2R in una patologia così comune come la BPCO, con il fine ultimo di trovare un sistema che permettesse di evitare l’intubazione e la ventilazione meccanica nei pazienti. In effetti, l’uso di questa procedura è associato con dei rischi significativi che aumentano col passare del tempo. Oltre alla VILI, la ventilazione meccanica può indurre un danno alle vie aeree provocato dal tubo endotracheale e lo sviluppo di una VAP (Ventilator-Associated Pneumonia). Infatti, il rischio di mortalità è più alto nei pazienti con BPCO, che sviluppano una polmonite associata alla ventilazione [143]. Inoltre, è stato dimostrato che la VAP è un fattore predittivo indipendente di mortalità nei pazienti con BPCO [144]. In questo studio, la mortalità dei pazienti con BPCO ventilati meccanicamente, che hanno sviluppato una VAP è stata del 64%; di conseguenza, possiamo dire che evitare l’intubazione comporta diversi vantaggi. Oltre a quelli precedentemente citati, possiamo anche ricordare che la ventilazione meccanica può causare dei tempi di svezzamento piuttosto lunghi. In più, diversi studi hanno dimostrato che la ventilazione meccanica prolungata è connessa con un’ aumentata incidenza di depressione, ansia e disturbo da stress post-traumatico [145][146].

CAPITOLO V

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