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La rimozione extracorporea della CO2 in terapia intensiva

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Academic year: 2021

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INDICE

CAPITOLO I INSUFFICIENZA RESPIRATORIA 1.1Definizioni 1.2Classificazione 1.3Eziologia CAPITOLO II ARDS 2.1 Definizioni 2.2 Epidemiologia 2.3 Patogenesi 2.4 Evoluzione e prognosi 2.5 Presentazione clinica 2.6 Aspetti diagnostici

CAPITOLO III STRATEGIE TERAPEUTICHE NELL’ARDS

3.1 VILI

3.1.1 Stress e strain

3.2 “Baby-lung” e strategie protettive polmonari 3.2.1 “Baby-lung”

3.2.2 Ventilazione nell’ARDS

3.3 Misure particolari per il miglioramento dell’ossigenazione 3.3.1 Mantenimento della gittata cardiaca

3.3.2 La posizione prona 3.3.3 L’utilizzo dell’iNO 3.4 Terapie farmacologiche

3.5 Modalità alternative di ventilazione meccanica 3.5.1 HFOV

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CAPITOLO IV LA CIRCOLAZIONE EXTRACORPOREA 4.1 La storia della circolazione extracorporea

4.2 Le diverse modalità di circolazione extracorporea 4.2.1 ECMO

4.2.2 iLA 4.2.3 ECCO2R

CAPITOLO V STUDIO CLINICO 5.1 Materiali e metodi

5.2 Risultati 5.3 Discussione 5.4 Conclusioni

(3)

Ai miei genitori,

per il loro supporto ed il sostegno incondizionato

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CAPITOLO I

INSUFFICIENZA RESPIRATORIA

1.1 Definizioni

L’insufficienza respiratoria è una condizione nella quale il sistema respiratorio non riesce a garantire gli scambi gassosi e dunque a mantenere un adeguato livello di ossigeno e/o di anidride carbonica nel sangue [1].

Questa sindrome si determina nel caso in cui l’apparato toraco-polmonare, nella sua interezza, sia coinvolto in un processo fisiopatologico che ne alteri la funzionalità. Normalmente, il sistema si comporta in modo tale da creare una pressione parziale di ossigeno (PaO2) pari ad un valore di 109-0,43 x età [2] oppure di PaO2 = 106,603 mmHg - 0,2447 x età (anni) [3]. La pressione parziale di anidride carbonica (PaCO2) è mantenuta entro valori di 36,8 e 39,4 mmHg nei maschi e per le femmine tra 35,5 e 38,1 mmHg. I criteri necessari per porre diagnosi di insufficienza respiratoria sono una pressione parziale di ossigeno (PaO2) < 55-60mmHg durante la respirazione in aria ambiente, accompagnata o meno da ipercapnia (con pressione parziale di CO2 > 45mmHg). La diagnosi di insufficienza respiratoria non è, quindi, determinata solo sulla base di parametri clinici, ma richiede necessariamente la misurazione della pressione parziale dei gas nel sangue arterioso. Da un punto di vista clinico, l’insufficienza respiratoria è distinta in acuta (quando insorge in un apparato respiratorio sostanzialmente intatto, fino al momento dell’episodio) e cronica. Quest’ultima è spesso una manifestazione insidiosa, progressiva e tardiva della storia naturale di una patologia respiratoria [4]. In pazienti che presentino un rapido peggioramento della funzionalità respiratoria a partire da una patologia dell’apparato toraco-polmonare già

(5)

nota, si può parlare di insufficienza respiratoria cronica riacutizzata; in questo modo, possiamo sottolinearne la modalità di insorgenza.

1.2 Classificazione

In ambito clinico, si è soliti distinguere due diverse tipologie di insufficienza respiratoria (IR), ossia:

• IR di tipo 1, ipossiemica, quando la PaO2 è 3 DS sotto il livello normale aggiustato per l’età;

• IR di tipo 2, ipossiemica e ipercapnica, quando oltre alla riduzione delle PaO2, troveremo anche una PaCO2 di 2 DS sopra 40 mmHg , cioè > 45 mmHg.

In realtà, alcuni autori sono soliti individuare quattro diverse tipologie; infatti, oltre alle prime due forme elencate precedentemente, si può parlare anche di:

• IR di tipo 3, chiamata anche insufficienza respiratoria perioperatoria. Essa è conseguenza di atelettasie polmonari, che si formano frequentemente nel periodo suddetto. Infatti, dopo l’anestesia generale, la riduzione della capacità funzionale residua causa il collasso di unità polmonari dipendenti.

• IR di tipo 4, provocata dall’ipoperfusione dei muscoli respiratori nei pazienti in shock [5].

1.3 Eziologia

Le cause di insufficienza respiratoria sono numerose e possono essere raggruppate secondo la distinzione che clinicamente è più spesso utilizzata. Quindi, tra le cause di insufficienza respiratoria ipossiemica (tipo 1) possiamo ritrovare:

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• Cause polmonari: di tipo alveolare (polmoniti, alveolite allergica estrinseca, enfisema polmonare primitivo, edema polmonare acuto), di tipo interstiziale (pneumoconiosi, sarcoidosi, ARDS), di tipo vascolare (embolia polmonare, ipertensione polmonare primitiva).

• Cause extrapolmonari: sepsi, peritonite, pancreatite acuta, stati post-traumatici chirurgici extrapolmonari e post-bypass cardiopolmonare. Per contro, tra le cause di insufficienza respiratoria ipossiemica e ipercapnica (tipo 2), troviamo:

• Cause polmonari: da malattia delle vie aeree acute (corpi estranei, edema laringeo, bronchioliti) e croniche (bronchiti croniche, bronchiectasie), da malattie del parenchima polmonare acute (polmonite ab ingestis) e croniche (enfisema polmonare, pneumopatie interstiziali, pneumoconiosi, sarcoidosi), da malattie della pleura acute (pneumotorace massivo) e croniche (fibrotorace post-pleuritico).

• Cause extrapolmonari: malattie del SNC (affezioni cerebro-vascolari, infezioni, neoplasie, traumi, anestesia, farmaci sedativi), malattie neuromuscolari (poliomielite, miastenia gravis, sindrome di Guillan-Barrè, distrofie muscolari), malattie della gabbia toracica (traumi, cifoscoliosi), malattie metaboliche (mixedema, obesità).

(7)

CAPITOLO II

ARDS

2.1 Definizioni

L’Acute Distress Respiratory Syndrome (ARDS), nella definizione dell’American-European Consensus Conference (1994), era descritta come una sindrome clinica caratterizzata da un’insufficienza respiratoria ad esordio improvviso e rapido, cianosi ed ipossiemia grave refrattaria all’ossigenoterapia, associata ad infiltrati bilaterali nella radiografia del torace, in assenza di ipertensione atriale sinistra [6].

Il riconoscimento dell’ARDS come entità patologica distinta e causa indipendente di insufficienza respiratoria, si è avuto negli anni sessanta [7]. La Consensus Conference del 1994 individuava come forma precoce di ARDS la cosiddetta Acute Lung Injury (ALI); essa veniva definita come una sindrome caratterizzata da infiammazione e aumentata permeabilità di entità minore rispetto all’ARDS, che costituiva quindi una forma più grave [8]. I parametri clinici che permettevano la distinzione tra ALI ed ARDS, secondo l’AECC, erano i seguenti:

PARAMETRO

ALI

ARDS

Presentazione Acuta Acuta

Clinica Causa correlata Causa correlata

PaO2/FiO2 ≤ 300 mmHg ≤ 200 mmHg

Rx torace Infiltrati bilaterali Infiltrati bilaterali

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Tuttavia, questi criteri non specificano una causa acuta, usano il rapporto PaO2/FiO2 indipendentemente dal supporto ventilatorio del paziente e non sono specifici sui quadri radiologici. A tal proposito, una maggiore sensibilità si può ottenere facendo riferimento al Murray Lung Injury Score (LIS) [9], il quale consente di ottenere un punteggio sulla base di quattro parametri, identificati in rapporto PaO2/FiO2, PEEP, compliance del sistema polmonare e numero di quadranti polmonari coinvolti all’ Rx del torace; oppure si può considerare la definizione di Delphi, che richiede un rapporto PaO2/FiO2 ≤ 200 mmHg con una PEEP di 10 cm H2O.

Il rapporto PaO2/FiO2 è un rapporto che esprime la gravità dell’insufficienza respiratoria: normalmente, il suo valore è > 380. Tale valore, però, non considera la pressione vigente nelle vie aeree, che è in grado di modificarlo. Per questo, successivamente è stato proposto un nuovo indice, definito Oxygenation Index (OI), espresso come FIO2 x mPaw (mean airway Pressure) x 100/PaO2. Questo parametro, considerando il valore della pressione media delle vie aeree, è più sensibile nella valutazione degli scambi alveolari e del danno polmonare.

Un altro aspetto importante è il ruolo della radiografia del torace, la quale è caratterizzata da problematiche interpretative, come nel caso dell’edema polmonare cardiogeno, che può presentarsi, come l’ARDS, con infiltrati polmonari bilaterali; anche la clinica potrebbe non essere dirimente. Per questo, non tutti sono convinti che il radiogramma del torace possa essere effettivamente d’aiuto nella diagnostica differenziale tra ARDS ed edema polmonare cardiogeno [10]. L’introduzione della TC del torace ha contribuito molto in ambito clinico, ma anche sperimentale, a capire meglio l’ARDS, in particolare portando a considerarla come una patologia non uniforme [11], distinguendo nel parenchima polmonare aree non areate, scarsamente areate, normalmente areate ed iperinflate.

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La PWCP (Pulmonary Capillary Wedge Pressure) è la pressione capillare polmonare di incuneamento (con valore fisiologico di 2-15 mmHg), misurata tramite un catetere posto in arteria polmonare. Il fatto che nell’ARDS il suo valore sia ≤ 18 mmHg, indica l’assenza di un’insufficienza ventricolare sinistra, permettendo la diagnosi differenziale con l’edema polmonare.

I criteri di Berlino (2011) hanno invece specificato in maniera più precisa i principi diagnostici dell’ARDS e chiarito la nomenclatura da utilizzare, eliminando, di fatto, il concetto di ALI dalla terminologia. Questi criteri sono stati costituiti sulla base di una meta-analisi che considerava 4188 pazienti, i cui dati provenivano da centri diversi. Il punto più importante riguarda l’individuazione di tre tipi di ARDS distinti sulla base del valore del rapporto PaO2/FiO2, parlando di :

• ARDS lieve, con 200mmHg < PaO2/FiO2 ≤ 300mmHg • ARDS moderata, con 100mmHg < PaO2/FiO2 ≤ 200mmHg • ARDS grave, con PaO2/FiO2 < 100mmHg

La forma moderata corrisponde all’ALI dei criteri del 1994.

Questa categorizzazione è importante anche per la correlazione con la prognosi; infatti, le tre forme mostrano una mortalità, rispettivamente, del 10%, 32%,62% con una predittività che si mostra superiore ai criteri del 1994 [12].

Oltre a ciò, gli elementi salienti che devono essere considerati per poter porre diagnosi di ARDS sono:

• timing (insorgenza entro una settimana da un danno clinico noto o dalla comparsa di nuovi sintomi respiratori o dal peggioramento di questi ultimi);

• aspetto radiologico (opacità bilaterali alla radiografia o alla TC del torace non attribuibili a versamenti pleurici, collabimento lobare o polmonare o a noduli);

(10)

• cause (l’insufficienza respiratoria non deve essere completamente spiegata da un’insufficienza cardiaca o da un sovraccarico di fluidi)

2.2 Epidemiologia

La mortalità dei pazienti con ARDS è ampiamente considerata alta e generalmente superiore al 50% [13]. Secondo uno studio condotto nel 2005 negli Stati Uniti, l’ARDS ha un notevole impatto sulla salute, con un incidenza maggiore rispetto agli studi condotti in precedenza. Infatti, da questo studio risulta che l’incidenza di ARDS è di 58.7 casi su 100.000 abitanti all’anno con una mortalità ospedaliera del 41.1% [14]. Si deve sottolineare che i dati sulla mortalità sono contrastanti, in quanto la mortalità può risultare elevata, visto che negli studi osservazionali si includono pazienti con comorbidità ad alto rischio [15]. Nel 2009 una meta-analisi che ha raccolto dati sulla mortalità dell’ARDS dal 1986 al 2006, ha osservato una riduzione della mortalità dal 1984 al 1993, che in alcuni studi randomizzati risulta essere del 30%. In effetti negli studi osservazionali la mortalità risulta essere più elevata che negli studi randomizzati. Questo fenomeno si determina perché tali studi includono centri specializzati con protocolli di ventilazione che dimostrano di migliorare la prognosi e anche per l’esclusione di pazienti a prognosi infausta [16].

2.3 Patogenesi

Le cause dell’ARDS sono varie, ma dal punto di vista eziopatogenetico è possibile distinguerle in due categorie principali: quelle ad azione diretta sulla cellula polmonare e quelle determinate da un’azione indiretta, derivante da una risposta infiammatoria sistemica.

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I fattori scatenanti dell’ARDS di origine polmonare sono tutti quelli che vanno a danneggiare primitivamente lo pneumocita come polmoniti (46%), aspirazione, contusione polmonare, embolia, radiazioni e farmaci. Tra le cause extra-polmonari rientrano, invece, la sepsi, il trauma, lo shock, le ustioni, le pancreatiti, la CID, le trasfusioni, le alterazioni correlate alla gravidanza, il bypass cardiopolmonare, le reazioni anafilattiche [17]. In realtà, più del 50% dei casi di ARDS si associa a sepsi, polmoniti, aspirazioni del contenuto gastrico e traumi.

L’ARDS è un particolare quadro polmonare caratterizzato dal danno alveolare diffuso e dalla perdita sia della funzione di barriera che di quella di scambio dei gas, tipica del polmone. Di conseguenza, troviamo due tipi di alterazioni: una strutturale (per il danno alveolare diffuso) ed una funzionale (per la distruzione della barriera endoteliale).

Il meccanismo infiammatorio è noto ormai da tempo, tanto che studi datati dimostrano neutrofili intra ed extravascolari, piastrine e fibrina; in più, nel lavaggio bronco-alveolare si rilevarono polimorfonucleati ed altri leucociti [18].

In una prima fase precoce, che fino al 2011 era considerata come ALI, tutti i pazienti hanno una grave ipossiemia, una riduzione della compliance polmonare, infiltrati bilaterali polmonari. Durante questa fase, c’è evidenza di un aumento della permeabilità delle barriere endoteliale ed epiteliale polmonari, con accumulo di edema ricco in proteine nell’interstizio e negli spazi areati del polmone. Normalmente, la barriera alveolo-capillare ha uno spessore di 0.1-0.2 µm, con dei pori endoteliali di dimensioni pari a 6.5-7.5 nm, mentre quelli epiteliali sono quasi 1/10 (0.5-0.9 nm); quindi, la barriera principale alla fuoriuscita di proteine è l’epitelio. Questo edema contiene globuli rossi, globuli bianchi, membrane ialine (costituite da albumina, immunoglobuline, fibrina, fibrinogeno ed altre proteine). Spesso vi è evidenza di danno cellulare epiteliale ed endoteliale, a volte con necrosi degli

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pneumociti di tipo I. L’insieme di queste anomalie è stato definito come danno alveolare diffuso [19].

L’edema da aumentata permeabilità è l’anomalia primitiva nella fase precoce di ARDS. In tutti i soggetti con segni di ARDS, il rapporto tra concentrazione proteica del campione di edema, confrontato con un campione di plasma è > 0.75, mentre nei pazienti con edema cardiogeno questo rapporto è <0.75 [20],[21]. Quindi l’edema da aumentata permeabilità, ricco in proteine, è diventato un segno di riconoscimento dell’ARDS.

In parallelo, si è cercato di comprendere i meccanismi che conducono i fattori edemigeni al peggioramento del fisiologico equilibrio. Una delle ipotesi era che l’ARDS fosse associata ad un’alterazione della funzione del surfactante, anche per la ridotta produzione o neutralizzazione del surfactante da parte delle proteine plasmatiche e dalla fibrina che stravasa negli alveoli. L’analisi del lavaggio bronco-alveolare indica che la componente lipidica e proteica del surfactante risulta alterata nei pazienti con ARDS. Nonostante ciò, la terapia sostitutiva con il surfactante non ha ridotto la mortalità [21],[22]. La formazione dell’edema può dipendere da un marcato aumento della permeabilità vascolare, ma se il riassorbimento dei liquidi alveolari epiteliali eguaglia la formazione di edema alveolare, allora può essere raggiunto un equilibrio che consenta la guarigione della causa fondamentale del danno. È importante ricordare come nell’ARDS si ritrovi anche una risposta infiammatoria con componente umorale e cellulare. In quest’ultima sono coinvolti macrofagi, linfociti e neutrofili, i quali producono mediatori responsabili del danno cellulare [18]. In particolare, risultano importanti gli studi che dimostrano il coinvolgimento del complemento, nello specifico di C5a, che provoca l’attivazione dei polimorfonucleati (PMN). I neutrofili sono detentori di un ruolo centrale nella patogenesi dell’ARDS: sono, infatti, l’elemento cellulare più rappresentato nel fluido di lavaggio bronco-alveolare, in campioni ottenuti precocemente. Essi aderiscono all’endotelio dei capillari

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polmonari e liberano il contenuto dei loro granuli (proteasi, metaboliti dell’ossigeno, citochine, fattore attivante le piastrine), danneggiando le cellule endoteliali e determinando un’essudazione; così, i neutrofili e i mediatori dell’infiammazione possono accedere al parenchima polmonare e continuare il processo infiammatorio in questa sede. L’adesione dei neutrofili si determina per l’espressione di integrine endoteliali; infatti, se si utilizzano sperimentalmente anticorpi di adesione molecolare, il danno polmonare si riduce, supportando così l’idea che queste cellule siano centrali nell’ARDS. Tuttavia, questa patologia può svilupparsi anche nei pazienti neutropenici e non si è riscontrato un aumento di frequenza, somministrando fattori stimolanti le colonie di granulociti in pazienti con polmonite [23]. Questo significa che ci sono altre cellule che svolgono un ruolo importante e che nel polmone ci devono già essere citochine chemo-attraenti per i neutrofili, come l’IL-8. Quest’ultima è presente nel BAL entro alcune ore dall’insulto primario e prima ancora del reclutamento dei polimorfonucleati. In studi sull’animale, si è dimostrato che la somministrazione di anticorpi anti IL-8, può proteggere il polmone, per l’assenza di un gradiente chemiotattico [24]

Elementi importanti in questa riposta sono le piastrine, le quali rilasciano IL-1β e citochine, che interagiscono anche con i polimorfonucleati e i monociti per l’organizzazione del trombo di fibrina; si tratta di cellule molto attive, visto che in contemporanea promuovono la funzione di barriera endoteliale. Per cui, a causa di questa duplice attività (di difesa e riparativa), non si capisce se il loro accumulo a livello polmonare costituisca un elemento prognostico positivo o negativo [20].

(14)

Figura 2.1: Alveolo normale (lato sinistro) confrontato con un alveolo leso nella fase precoce di danno

polmonare acuto e nell’ ARDS. Sotto l’ influenza di citochine proinfiammatorie come IL-8, IL-1 e TNF, i neutrofili vengono inizialmente sequestrati nel microcircolo polmonare e, conseguentemente alla marginazione, fuoriescono nello spazio alveolare, dove vanno incontro ad attivazione. La liberazione da parte dei neutrofili attivati di una grande varietà di fattori, tra cui leucotrieni, ossidanti, proteasi e PAF (fattore attivante le piastrine), contribuisce al danno tissutale locale, all’ accumulo di edema negli spazi aerei, all’ inattivazione del surfattante e alla formazione di membrane ialine. Il fattore inibitore dei macrofagi (MIF) rilasciato nell’ ambiente locale mantiene la risposta proinfiammatoria.

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2.4 Evoluzione e prognosi

La prognosi dell’ARDS dipende da diversi fattori quali la presenza di patologie preesistenti, le cause che la provocano, la gravità della malattia (per gli aspetti polmonari ed extrapolmonari), l’età (mortalità 5 volte più alta nei pazienti al di sopra dei 60 anni), le comorbidità inerenti allo stato immunologico del paziente [18].

In effetti, si possono individuare diversi tipi di evoluzione che diversificano i quadri clinici tra i vari pazienti. In alcuni, si ha un grave edema polmonare nella prima settimana che tende a risolversi, senza evolvere ulteriormente [19]. Grazie al sistema linfatico ed al microcircolo polmonare è possibile la rimozione dell’edema interstiziale. Questo avviene per un trasporto di acqua e sodio determinato dall’epitelio alveolare; il movimento di sodio, infatti, crea un gradiente favorevole per il passaggio dell’acqua dalle vie aeree, tramite le acquaporine [25]. Questa clearance di liquidi può essere guidata sia dagli pneumociti di tipo I che da quelli di tipo II.

Il problema dell’ARDS è la forte compromissione della capacità di trasporto alveolare. Ancora oggi, non si è ben compreso in che modo le cellule dell’infiammazione e i fattori solubili ed insolubili vengano rimossi dal polmone. Probabilmente, le proteine solubili sono rimosse tramite un processo lento di diffusione paracellulare, attraverso l’epitelio alveolare. I macrofagi alveolari, invece, si occupano della rimozione delle proteine insolubili, dei detriti cellulari e del rimodellamento delle membrane ialine [20].

Ci sono altri pazienti (la maggior parte) nei quali il processo patologico insito nell’ARDS si può prolungare oltre i primi 7 giorni, producendo una fase subacuta. In questi soggetti si sviluppa una fibrosi polmonare, con proliferazione degli pneumociti di tipo II e progressiva distruzione del microcircolo polmonare.

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Inoltre, ci sono pazienti caratterizzati da un’insufficienza respiratoria che si protrae per oltre 2 settimane, nei quali si creano i presupposti per un danno cronico, caratterizzato da riduzione della compliance polmonare ed elevata frazione di spazio morto; a ciò, si può associare anche un’ipertensione polmonare. Questa fase si determina, dal punto di vista anatomo-patologico, per una fibrosi polmonare notevolmente estesa, che oblitera la normale architettura polmonare e produce delle lesioni enfisematose nell’ambito del parenchima polmonare. In più, si trova una proliferazione patologica di fibroblasti, spesso associata alla deposizione di eccessive quantità di matrice (in particolare collagene), che peggiora ulteriormente la compliance polmonare. Alcuni autori sono soliti chiamare questa fase dell’ARDS, fibroproliferativa. Per risolvere questa alterazione alveolare, definita anche alveolite fibrosante, sarà necessario un nuovo processo di rimodellamento polmonare, che potrà portare alla graduale risoluzione della fibrosi polmonare ed al ripristino di unità alveolo-capillari normali [19]. Ad oggi non sono conosciuti gli elementi cellulari, proteici e genetici, che conducano ad una risoluzione piuttosto che ad una progressione del danno polmonare.

Queste modificazioni sono responsabili di una alterazione meccanica notevole, in quanto si ha una riduzione della compliance polmonare, elemento estremamente importante da considerare nell’ARDS, anche per quanto riguarda il trattamento. Tali alterazioni possono essere valutate, considerando come si modifica la curva pressione-volume (P-V) a seconda dello stato anatomico del polmone. Ci sono vari studi in letteratura che dimostrano come la compliance polmonare si riduca progressivamente nei pazienti in fase cronica della malattia (a 21 giorni). In effetti, nella fase iniziale dell’ARDS, caratterizzata dall’edema, la compliance si mantiene normale, mentre la curva P-V mostra un’inflessione nel suo braccio ascendente. Successivamente, col progredire del processo patologico, la curva non presenterà più l’inflessione, ma mostrerà una compliance ridotta [26].

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L’introduzione della TC ha cambiato notevolmente le considerazioni circa i fattori responsabili di questa riduzione della compliance. Infatti, le radiografie del torace in antero-posteriore fecero considerare il polmone dell’ARDS come “omogeneo”, visto che spesso si ritrovava un’opacità a vetro smerigliato, che coinvolgeva gran parte del parenchima polmonare. Con la TC, invece, Gattinoni e coll. intorno alla metà degli anni ’80, si resero conto che l’ARDS è una malattia tutt’altro che regolarmente distribuita; infatti, le immagini ci fanno vedere delle densità irregolari per localizzazione anatomica, ma, più spesso presenti nelle regioni declivi. Facendo delle valutazioni quantitative del polmone (sulla base del rapporto polmone areato/non areato), si scoprì che, nell’ARDS grave, la quantità di polmone areato, misurato a fine espirazione, era di 200-500 g, equivalente al tessuto sano di un bambino di 5-6 anni; nacque così il concetto di “baby-lung” [27]. Oltre a correlare l’ipossiemia del paziente con la quantità di tessuto non areato, la cosa più innovativa è stata relazionare la riduzione della compliance polmonare con il tessuto normalmente areato e non con il parenchima non areato. In pratica, il polmone nell’ARDS non è rigido, ma piccolo, con un’elasticità pressoché normale. Da ciò, si è compreso che una ventilazione ad alti volumi e pressioni, sarebbe potuta essere dannosa per il polmone.

2.5 Presentazione clinica

Inizialmente, l’ARDS si manifesta con grave dispnea e tachipnea, senza che l’Rx del torace mostri delle importanti alterazioni. Successivamente, compare un’ipossiemia ingravescente (sovente refrattaria all’ossigenoterapia) che conduce all’insufficienza respiratoria entro 24 ore; a questo punto, l’esame radiologico del torace mostra degli infiltrati diffusi bilaterali [10]. Spesso, entro 48 ore, è necessario ricorrere alla ventilazione meccanica.

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Come già accennato, il parenchima polmonare è interessato dal processo patologico in maniera “zonale”; infatti, ci sono aree addensate o collassate, aree iperinflate ed aree che mostrano una compliance pressoché normale. Si riduce, quindi, il volume residuo e si ha un’alterazione del rapporto tra ventilazione e perfusione, poiché le aree ipoventilate sono comunque perfuse: ciò conduce all’ipossiemia [28].

2.6 Aspetti diagnostici

In ambito clinico, è importante andare ad escludere delle condizioni che possono presentarsi in maniera molto simile; in particolare, si fa riferimento all’edema polmonare cardiogeno ed all’embolia polmonare.

CLINICA ARDS EDEMA

POLMONARE CARDIOGENO

EMBOLIA POLMONARE Febbre, leucocitosi sì possibile sì

Infiltrati bilaterali sì sì improbabile Versamenti pleurici improbabile sì possibile PCPW normale elevata normale Proteine nel BAL elevate basse elevate

L’edema polmonare cardiogeno e l’ARDS hanno dei reperti radiografici sovrapponibili, anche se nell’ultimo caso l’Rx del torace mostra un infiltrato a “farfalla” a localizzazione più centrale. Inoltre, nell’edema polmonare cardiogeno l’ecocardiogramma mostra una cardiomegalia ed una riduzione della frazione di eiezione, si trova una PCWP ≥ 18 mmHg ed in più, è possibile trovare epatomegalia ed ascite.

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Può essere d’aiuto anche la considerazione del rapporto tra l’ipossiemia e le immagini radiografiche. Infatti, se nell’ARDS l’ipossiemia è più grave di quanto ci aspetteremmo dall’Rx torace, l’edema polmonare cardiogeno si comporta al contrario.

Anche l’anamnesi diventa un elemento da considerare nel processo diagnostico differenziale; infatti, l’ARDS ha delle condizioni predisponenti che sono differenti rispetto a quelle dell’edema polmonare cardiogeno. Ciò non vale sempre per l’embolia polmonare acuta.

Ci sono degli elementi strumentali che sono di supporto:

• PCWP: rappresenta la pressione capillare d’incuneamento polmonare e costituisce un parametro che aiuta nella diagnosi differenziale tra l’ARDS e l’edema polmonare acuto. Si misura tramite un catetere di Swan-Ganz e qualora risultasse ≤ 18 mmHg, potrebbe trattarsi di ARDS, mentre un valore ≥ 18 mmHg si avvicina maggiormente ad una diagnosi di edema polmonare cardiogeno.

Questo parametro è utilizzato con la logica che dovrebbe corrispondere alla misura delle pressione idrostatica dei capillari polmonari (PCP); in realtà, la PCWP è una misurazione indiretta della pressione che vige nell’atrio sinistro, la quale sarà superiore alla PCP reale (per garantire il flusso di sangue nelle vene polmonari, sarà necessaria una differenza di pressione). Per questa ragione, per avere un’idea più precisa della pressione idrostatica nei capillari, si utilizza la seguente relazione:

PCP = PCWP + 0.4 (PAP - PCWP)

dove PAP è la pressione media nell’arteria polmonare e 0.4 è la frazione del gradiente pressorio persa nelle vene polmonari.

Nell’ARDS, la PCP può avere un valore doppio rispetto alla PCWP, a causa della presenza dell’ipertensione polmonare.

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• Pressione oncotica plasmatica (πp): è importante considerare anche gli altri fattori, oltre alla PCP, che possono condurre all’edema nell’ARDS. Secondo Starling, Q = Kp ( PCP – πp), in cui Q rappresenta la velocità del fluido che si muove fuori dai capillari e Kp è il coefficiente di permeabilità capillare. La pressione oncotica è determinata dalle proteine (in particolare dall’albumina), le quali rimangono confinate nel lume capillare; in tal modo, trattengono liquidi nello spazio vascolare, opponendosi alla PCP. Πp può essere ricavata dalla seguente relazione:

πp = 2,1 (PT) + 0,16 (PT2) + 0,009 (PT3)

dove PT indica la concentrazione totale proteica. Normalmente, il suo valore varia al modificarsi della posizione corporea [29]: in posizione eretta è compreso tra 22-29 mmHg, mentre in clinostatismo varia tra 17-24 mmHg. Questa variazione si determina perché, al cambiare della posizione, si ha un movimento di fluidi privi di proteine. In UTI, i pazienti sono solitamente posti in posizione sdraiata, la πp è in media di 20 mmHg. Nei pazienti critici può arrivare a 10 mmHg, per cui in questi soggetti si può avere un edema anche quando la PCP ha dei valori normali (circa 18 mmHg). Quindi, se si trovasse un valore di PCWP superiore alla πp di almeno 4 mmHg, è probabile che si tratti di un edema polmonare.

• Lavaggio bronco-alveolare: la broncoscopia viene impiegata per ragioni diverse dalla diagnosi, in un paziente con sospetta ARDS (per esempio, per identificare un’infezione). Il BAL consente di valutare la percentuale di neutrofili presente, che nell’ARDS può superare anche l’80% (in un soggetto normale sono meno del 5%) [30]. Inoltre, potremo considerare anche la concentrazione proteica del liquido di lavaggio e confontarla con le proteine ematiche, per capire se l’edema

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sia idrostatico (proteine fluido/proteine sieriche < 0.5) o infiammatorio (proteine fluido/proteine sieriche > 0.7).

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CAPITOLO III

STRATEGIE TERAPEUTICHE NELL’ARDS

3.1 VILI

Classicamente, l’ARDS è considerata una delle cause di insufficienza respiratoria, che si caratterizza per una mancata risoluzione del quadro clinico alla somministrazione di ossigeno. I pazienti con questa patologia, quindi, devono essere trattati con la ventilazione meccanica, in modo da risolvere sia l’ipossiemia, che l’eventuale ipercapnia. Nel corso degli anni, si sono susseguiti vari studi, che hanno cercato di proporre nuove modalità terapeutiche per il trattamento dell’ARDS; le proposte che sono state avanzate, risultano indissolubilmente legate alle conoscenza fisiopatologiche su questa patologia. Infatti, sebbene inizialmente si consideravano i polmoni con ARDS come delle strutture pesanti da ventilare in maniera importante (per volume e pressione), successivamente si è giunti alla consapevolezza che questa strategia poteva essere dannosa. In effetti, queste scelte portavano spesso a delle complicanze, come l’insorgenza di pneumotorace, che erano determinate dall’eccessivo stress cui era sottoposto il parenchima polmonare; si parla, quindi, di Ventilator Induced Lung Injury (VILI).

Di conseguenza, si è passati a ventilazioni “gentili” che potessero minimizzare il danno al parenchima, già compromesso dalla patologia, eventualmente associate a tecniche di circolazione extracorporea.

3.1.1 Stress e strain

Lo scheletro fibroso del polmone è la struttura che viene messa in tensione dalle forze che si sviluppano durante la ventilazione meccanica. Esso consiste

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in un sistema di due diverse tipologie di fibre: una assiale, ancorata all’ilo, che corre lungo le diramazioni delle vie aeree fino ai dotti alveolari ed una periferica, ancorata alla pleura viscerale, ad andamento centripeto dall’interno dei polmoni verso gli acini. Questi due sistemi sono legati a livello degli alveoli e, nel complesso, formano lo scheletro polmonare [31]. Le unità istologiche sono rappresentate dall’elastina estensibile e dal collagene inestensibile che, col polmone a riposo, appare “ripiegato”. Le cellule polmonari non subiscono la forza, ma sono ancorate (tramite le integrine), allo scheletro fibroso e devono aggiustare la loro forma quando lo scheletro è disteso. La distensione massima è determinata dalle fibre collagene che, essendo inestensibili, agiscono come un sistema di “blocco”. Quando le fibre sono completamente distese, i polmoni hanno raggiunto il loro volume massimo (capacità polmonare totale) e non è più possibile un ulteriore allungamento. Questo vale sia per l’intero polmone, sia per le diverse regioni polmonari, che hanno la propria “capacità regionale massima totale”.

Figura 3.1: Disposizione delle fibre in un acino: associazione tra fibre elastiche (rappresentate dalla molla) e fibre collagene (rappresentate dalla stringa). CFR = Capacità Funzionale Residua (condizione di rilasciamento). CPT = Capacità Polmonare Totale.

Quando si sottopongono i polmoni ad una ventilazione meccanica, le fibre dello scheletro polmonare raggiungono una tensione (per riarrangiamento spaziale molecolare), uguale ma opposta alla pressione applicata. Per pressione applicata, si intende la pressione trans-polmonare, ossia la pressione

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delle vie aeree meno la pressione pleurica. Questa tensione è chiamata “stress” (ossia una tensione che si sviluppa all’interno di una struttura, quando ad essa venga applicata una forza; quindi la tensione sarà uguale alla forza applicata con segno contrario). Visto che lo scheletro polmonare è una struttura elastica, lo stress si associa ad un allungamento (ΔL) delle fibre dalla loro posizione di riposo (Lo), chiamato “strain” (allungamento che una struttura subisce una volta che gli venga applicata una forza). Queste due variabili sono legate dalla seguente relazione: stress = K x strain, dove K è una costante che dipende dal materiale [32].

Figura 3.2: Schema che mostra il comportamento di elastina e collagene durante l’ espirazione (A), l’ inspirazione (B) e l’ inspirazione profonda (C). In condizione di medio carico, la maggior parte dello stress è sopportato dall’ elastina (colore verde), che è estensibile, ma quando il carico aumenta, le fibre collagene, inizialmente ripiegate, iniziano a stirarsi, di modo che lo stress si scarichi su di esse.

Se lo stress supera le proprietà tensorie delle fibre collagene, il polmone sarà sottoposto al fenomeno conosciuto come “barotrauma”. Quando lo “strain” è eccessivo si parla, invece, di “volotrauma”; in questo caso, i macrofagi, le cellule epiteliali e le cellule endoteliali, ancorate allo scheletro polmonare, sono stirate in maniera eccessiva [33]. Ciò attiva i meccanocettori, con produzione di citochine ed infiammazione conclamata (biotrauma) [34].

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Inizialmente, si è osservato che sia le cellule epiteliali che quelle endoteliali sono responsabili di questa “attivazione”. In un periodo più recente, è stata focalizzata l’attenzione sull’importanza della matrice extracellulare [35]. Infatti, quando si applica alla matrice uno stimolo stressogeno, i frammenti di acido ialuronico liberati sono in grado di attivare la risposta infiammatoria tramite i recettori “toll-like”. Quindi, si è preso coscienza del fatto che eccessivi stress e strain possono determinare un danno di natura infiammatoria, seguendo varie vie di trasduzione, che originano verosimilmente dal danno alla matrice extracellulare.

Sarebbe utile, in ambito clinico, avere dei modi precisi per misurare lo stress e lo strain polmonari, poiché conoscendo tali valori, potremmo limitare il danno al parenchima polmonare. Ad oggi non ci sono delle conoscenze precise, anche se si sa che quanto maggiore è lo strain, tanto peggiore sarà l’outcome del paziente.

Come detto precedentemente, lo stress è equivalente alla pressione transalveolare (differenza tra la pressione intra-alveolare ed extra-alveolare), la quale può essere approssimata come pressione trans-polmonare (PL), che si calcola come differenza tra la pressione nelle vie aeree e quella pleurica. Sapendo che PL è lo stress e che lo strain corrisponde alle variazioni volumetriche del polmone rispetto alla sua posizione di riposo (cioè al rapporto tra il VT e il “baby lung”), per la relazione precedente

PL (stress) = K x (VT/baby lung) [strain]

in cui K corrisponde all’elastanza polmonare.

Quindi, se noi conoscessimo la PL o la dimensione del “baby lung”, potremmo calcolare lo stress e lo strain, in modo da poterli mantenere entro limiti fisiologici. Tuttavia, in UTI non si è soliti misurare queste variabili; in più, bisogna considerare che alcuni studi hanno limitato la valenza della PL

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(misurata tramite la pressione trans-esofagea) e delle misurazioni del volume polmonare residuo (ossia del “baby lung”) [36][37]. Oltre a questo, bisogna dire che la pressione trans-polmonare non è un valore unico, ma varia lungo l’asse polmonare. Infatti, il polmone (soprattutto quello del paziente con ARDS) non è omogeneo e possono essere raggiunti valori di pressioni alveolari diversi, alcuni dei quali saranno elevati. In più, man mano che il danno progredisce, il parenchima sarà meno compliante, la pressione trans-alveolare sarà più elevata e ciò incrementerà lo strain.

È stato anche osservato che il danno si può originare persino quando si usano valori di VT, che teoricamente dovrebbero essere correlati a minori stress e strain. In letteratura, questo fenomeno viene giustificato con la presenza nel polmone di aree “moltiplicatori dello stress” [35]. Infatti, se il parenchima è alterato in maniera disomogenea, si può ipotizzare che anche lo strain e lo stress siano distribuiti in maniera disomogenea. In un polmone ideale, applicando una forza allo scheletro polmonare, si generano uno stress ed uno strain uguale in ogni regione; per cui, ogni fibra subisce la stessa deformazione. In caso di ARDS, laddove esista una disomogeneità, le fibre saranno sottoposte a forze eterogenee e alcune di queste dovranno sopportare carichi maggiori (come quelle vicino ad aree consolidate). Tutto ciò, produrrà un aumento dello stress (aree moltiplicatori) e determinerà delle pressioni trans-polmonari dannose, nonostante in un parenchima sano possano essere normali.

Utilizzando una PEEP nella ventilazione, si può osservare un outcome migliore dei pazienti, come è stato dimostrato dai primi studi eseguiti sui pazienti con ARDS. Infatti, con valori consistenti della PEEP si riducono le aree sottoposte a continua apertura e chiusura e quindi diminuiscono le aree moltiplicatori dello stress [38], a costo di un aumento dello strain. Si è osservato che il beneficio guadagnato con il primo effetto è superiore allo svantaggio determinato dal secondo. Oltre alla PEEP, un’altra manovra

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utilizzata nell’ARDS, cioè la pronazione, migliora l’outcome del paziente per la riduzione della disomogeneità polmonare [39].

3.2 “Baby Lung” e strategie protettive polmonari

Appare chiaro, visto quanto detto fin’ora, che in un polmone con ARDS il danno determinato dalla ventilazione sia amplificato rispetto a quello di un soggetto normale. Infatti, si è soliti misurare lo stress e strain, che subisce il polmone sottoposto a ventilazione meccanica, come un rapporto tra il VT (volume tidalico) e il peso espresso in Kg (IBW). In realtà, bisogna considerare che ci si rapporta con un “baby lung”, cioè con un polmone piccolo, vista la riduzione del parenchima effettivamente areato; quindi lo stress e strain sarà dato dalla relazione VT/”baby lung”. In conseguenza a ciò, avremo una relazione di proporzionalità diretta, poichè più piccolo è il polmone con ARDS, maggiore sarà il danno che produrremo con una ventilazione ad alti volumi [40]. Da ciò nasce la necessità di trattare i pazienti con delle tecniche ventilatorie a bassi volumi.

3.2.1 “Baby Lung”

Come già accennato precedentemente, il concetto di “baby lung” è stato introdotto negli anni ’80, a seguito delle immagini TC dei pazienti con ARDS, nelle quali si mostrava la disomogeneità del parenchima polmonare afflitto da questa patologia. Ciò ha cambiato radicalmente l’idea che il polmone nell’ARDS fosse omogeneo, cosa che derivava dalle immagini radiografiche del torace eseguite in antero-posteriore.

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Figura 3.3–Radiografia antero-posteriore del torace (a sinistra) e TC (apice, ilo e base, a destra) in paziente con ARDS. Mentre la radiografia mostra un’ opacizzazione che risparmia solo l’ apice polmonare destro, la TC mostra una malattia non omogenea, con gradienti cranio-caudale e sterno-vertebrale.

A seguito delle analisi quantitative eseguite, si è dimostrato che il polmone dei pazienti con ARDS è dotato di quattro diversi patterns: iperinsufflato, normalmente areato, scarsamente areato, non areato [41]. Dal punto di vista prognostico, si avrà una condizione migliore in quei soggetti con più comparti non areati e meno aree normalmente inflate.

Un’altra cosa importante che è emersa dagli studi sul “baby lung” [40], è la correlazione della compliance respiratoria con la quantità di tessuto normalmente areato, come se fosse una misura indiretta del “baby lung” stesso.

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Figura 3.4– Compliance (C) in funzione del polmone residuo insufflato (espresso come % del volume polmonare normale atteso).

Questo nuovo modello ha permesso la comprensione dei danni determinati con una ventilazione meccanica ad alti volumi e pressioni. Quindi, il “baby lung” è in linea con il concetto di “ volutrauma”, introdotto da Dreyfuss e coll. [42], che ha fornito le basi per i trattamenti ventilatori “gentili”, finalizzati ad ottenere il “riposo polmonare”.

A seguito degli studi di Gattinoni e coll., si pensava che il “baby lung” fosse una struttura anatomica ben distinta. In realtà, gli studi sulla ventilazione in pronazione hanno dimostrato che tale concetto è funzionale; infatti, grazie a questo tecnica si migliorava l’ossigenazione dei pazienti, ma le immagini TC mostravano una redistribuzione delle aree polmonari iperdense [43]. Tale redistribuzione è stata studiata considerando la struttura polmonare, seguendo l’asse sterno-vertebrale. Nell’ARDS, tutto il parenchima è interessato dalla patologia e l’edema si distribuisce omogeneamente, non seguendo la gravità.

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Figura 3.5: TC di polmone con ARDS in posizione supina (superiore), prona (centrale) e dopo ritorno in posizione supina (inferiore). Le densità dipendenti dalla gravità si spostano dalle regioni dorsali a quelle ventrali nel giro di pochi minuti quando il paziente è posizionato prono.

Visto che il polmone ha un peso maggiore, le pressioni idrostatiche trasmesse a tutto il polmone saranno aumentate e verranno chiamate super-imposte. Da ciò, si evince che il gas nelle regioni declivi del polmone è “spremuto” dal peso del parenchima polmonare sovrastante; infatti, le regioni declivi saranno dense, non per un aumento dell’edema, ma per la fuoriuscita di gas dagli alveoli [44]. Bone [45] definì tutto ciò col termine di “polmone a spugna”, concetto importante per capire la redistribuzione delle densità in pronazione e anche l’utilizzo delle PEEP (Positive End-Expiratory Pressure); questo perché, per mantenere aperte le regioni più declivi del polmone, la PEEP dovrà essere superiore alla pressione super-imposta. Però, ciò determina

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l’inevitabile sovradistensione delle regioni con minor pressione super-imposta.

Figura 3.6: Modello del “polmone a spugna”: nell’ ARDS il “tessuto”, ossia edema (colore grigio scuro), è quasi duplicato ad ogni livello polmonare rispetto al polmone sano, indicando una sua distribuzione non gravitazionale. L’ aumento della massa determina un aumento della pressione super-imposta (SP), che porta ad una spremitura del gas nelle regioni più declivi.

Il modello del “baby lung” è stato perfezionato successivamente, studiando il comportamento del polmone con ARDS sottoposto a ventilazione meccanica. Durante l’inspirazione, il “baby lung” aumenta il suo volume fino al raggiungimento della Pplat (pressione di picco); chiaramente, il tessuto che ha una pressione di apertura superiore alla Pplat, rimarrà collassato durante tutto il ciclo. Inoltre, con la ventilazione meccanica, le aree sane ricevono gran parte del volume tidale (VT), cosa che può favorire una sovradistensione alveolare e quindi un danno. Quindi, vista la disomogeneità del parenchima con ARDS, la ventilazione dovrà essere impostata con un volume tidalico basso, in modo da proteggere quella parte di polmone ancora in grado di partecipare agli scambi gassosi [40].

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Figura 3.7: TC toracica di un paziente con ARDS, che mostra la distribuzione eterogenea delle densità. L’ aumentata densità delle regioni dorsali (A) è causata da consolidamento e atelettasia. Le regioni ventrali aerate (B) corrispondono al “baby lung”, hanno la compliance maggiore e tendono alla sovradistensione (volotrauma). L’ interfaccia tra queste due aeree (C) è sottoposta a reclutamento/dereclutamento ciclico (atelectrauma).

3.2.2 Ventilazione nell’ARDS

Storicamente, l’ARDS fu descritta per la prima volta nel 1967 [7]. In questo studio furono selezionati dodici pazienti, dei quali cinque furono sottoposti a ventilazione con PEEP (Positive End Espiratory Pressure, per prevenire il collasso alveolare a fine espirazione) e sette furono trattati con zero di pressione positiva a fine espirazione; il maggior tasso di sopravvivenza si riscontrò nei pazienti ventilati con una PEEP. Il riscontro autoptico evidenziò polmoni pesanti (peso medio 2110 g) e l’esame microscopico la presenza di aree atelettasiche, di emorragie, di edema interstiziale e alveolare, con capillari dilatati e congesti.

A partire da questo studio, si misero in atto delle strategie terapeutiche finalizzate a mantenere normali livelli di PaO2 e PaCO2. Quest’ultimo

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obiettivo poteva essere raggiunto facilmente, visto che allora si era soliti utilizzare ventilazioni ad alti volumi e pressioni; infatti, si raccomandavano volumi di 12-15 ml/Kg [46].

La strategia principale per aumentare la PaO2, a seguito dello studio del 1967 [7], era quella di incrementare i valori della PEEP. Per studiare il meccanismo con la quale funzionava, Falke e coll. [47] provarono l’effetto dell’aumento della PEEP da 0 a 15 cm H2O in dieci pazienti con ARDS. La PEEP migliorava la PaO2 in maniera lineare e il meccanismo principale era la prevenzione del collasso alveolare tele-espiratorio e/o della chiusura delle vie aeree. Quello studio dimostrò una riduzione della compliance polmonare in presenza di PEEP elevate e risposte emodinamiche variabili, poiché la gittata cardiaca in alcuni pazienti aumentava e in altri diminuiva. A quei tempi, la preoccupazione principale rispetto all’uso della PEEP riguardava il risentimento emodinamico causato dall’aumento della pressione intratoracica. Nel 1975 Suter e coll. [48] pubblicarono il loro studio sulla “PEEP ottimale”, in cui si valutò in maniera approfondita, per la prima volta, la relazione tra dinamica respiratoria ed emodinamica. Si definiva “PEEP ottimale”, non quella necessaria ad ottenere una PaO2 migliore, ma quella associata al miglior trasporto di ossigeno (dato dalla gittata cardiaca per il contenuto di ossigeno). Gli autori si accorsero che questa correlava con una compliance migliore del sistema respiratorio.

In definitiva, per molti anni, a partire dagli anni’70, i polmoni con ARDS erano visti come pesanti e rigidi. Per ottenere una normale PaCO2 bisognava ventilare con volumi e pressioni elevate, mentre per assicurare un’adeguata ossigenazione erano necessari alti livelli di FiO2 e di PEEP, anche se non erano definiti i criteri per impostare la PEEP. Come detto precedentemente, spesso questi approcci provocavano effetti collaterali, dovuti al trauma ventilatorio a cui erano sottoposti i polmoni.

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Grazie agli studi di Gattinoni e coll. ed all’introduzione delle tecniche di circolazione extracorporea, si è cominciato ad avere un approccio completamente diverso nel trattamento dell’ARDS. Sicuramente, uno studio particolarmente emblematico in tal senso, fu quello pubblicato da Parsons e coll. [49], nel quale fu chiaramente dimostrato che la ventilazione a bassi volumi determinava un maggior tasso di sopravvivenza nei pazienti con ARDS. Gli autori randomizzarono, tramite un trial multicentrico, 861 pazienti in due gruppi. Nel primo si trovavano coloro che erano ventilati con un VT di 12 ml/Kg IBW e con una pressione di picco (Pplat) ≤ 50 cm H2O; nel secondo si collocavano i pazienti ventilati con un VT di 6 ml/Kg IBW e con una Pplat ≤ 30 cm H2O. Nel protocollo, la frequenza respiratoria poteva variare tra 6-35 atti al minuto per mantenere un pH tra 7.3 e 7.45. La PEEP e la FiO2 erano regolate in modo da ottenere una PaO2 tra 55-80 mmHg ed una SatO2 tra 88-95%. Le differenza tra i due gruppi sono state significative sulla mortalità, che è risultata essere del 39,8% nel primo gruppo (con modalità ventilatoria tradizionale) e del 31% nel secondo. Oltre a ciò, si è anche osservata la minor incidenza di insufficienza multi-organo nel gruppo sottoposto a ventilazione protettiva, con la riduzione dell’IL-6.

Questo studio, quindi, ha confermato quello che in parte si era già capito in seguito all’introduzione del concetto di “baby lung”: l’ARDS è una condizione patologica che necessita di una ventilazione a bassi volumi, cioè “gentile”. Già negli anni Novanta, Hickling e coll. introdussero il concetto di ventilazione a bassi VT, parlando di “ipercapnia permissiva” [50]; anche oggi, si utilizzano questi principi per trattare i pazienti tramite la ventilazione meccanica.

L’American-European Consenus Conference del 1994 ha posto degli obiettivi minimi di trattamento per l’ARDS. In particolare, si afferma la necessità di assicurare un’appropriata disponibilità di O2 agli organi vitali ed una

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rimozione adeguata della CO2 per mantenere l’omeostasi, di ridurre il lavoro respiratorio, di prevenire l’ulteriore danno al parenchima polmonare e di prevenire la sofferenza tissutale. Inoltre, si raccomanda di ridurre al minimo la tossicità derivante dall’ossigeno e il reclutamento alveolare, effettuato aumentando la PEEP, oppure estendendo il tempo inspiratorio. Si dovrebbe applicare la più bassa pressione media delle vie aeree (mPaw) possibile, in modo da ottenere un’ossigenazione ottimale, a concentrazioni di ossigeno inspirate non tossiche. La pressione trans-alveolare non deve eccedere i 25-30 cm H2O; questo generalmente corrisponde a 30-40 cmH2O di pressione di plateau di fine inspirazione, in funzione della compliance del polmone e della parete toracica. Altro punto raccomandato è la prevenzione delle atelectasie attraverso l’uso periodico di un volume maggiore, una pressione più alta e una durata della inspirazione maggiore. E’ raccomandato inoltre un uso razionale della sedazione e della paralisi muscolare: occorre effettuare frequenti rivalutazioni della profondità della sedazione, mentre i curari dovrebbero essere somministrati solo per brevi periodi [51].

Gli elementi da considerare per impostare la ventilazione sono:

• Volume tidalico: si è già accennato sull’importanza di mantenere VT bassi, per ridurre il danno al parenchima polmonare. Questo concetto ha raggiunto la sua massima importanza con l’ARDS Network Study [49].

Nel 2005 è stata pubblicata una meta-analisi che ha valutato cinque studi clinici, rilevando come un VT < 7.7 ml/Kg IBW abbia un ruolo protettivo, a differenza di un VT > 11.2 ml/Kg IBW per il danno che esso provoca [52].

Bisogna considerare anche che le aree interessate dal processo patologico dell’ARDS creano un minor volume disponibile per

l’insufflazione. Ciò viene superato utilizzando la PEEP; se si impiega un VT elevato, si crea un danno polmonare (“volotrauma”), perché le

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aree polmonari ridotte tendono ad andare in sovradistensione. Inoltre, anche con la manovre di reclutamento, che portano ad una continua apertura e chiusura degli alveoli, si determina un trauma alveolare, definito “atelectrauma”.

I dati su modelli animali supportano entrambi i precedenti meccanismi come causa della VILI, poiché producono un’infiammazione alveolare ed un’elevata concentrazione di citochine (“biotrauma”) [53], mentre gli studi clinici evidenziano solo il danno da sovradistensione.

La strategia a bassi volumi tidalici produce un inevitabile incremento della PaCO2, a meno che non si aumenti la frequenza respiratoria (ventilazione/minuto). L’ARDS Network Study raggiungeva l’obiettivo della normocapnia, utilizzando una frequenza respiratoria di 35 atti/minuto: così, si riduceva al minimo l’insorgenza di un’acidosi respiratoria [49]. Così facendo, però, si sottopone il polmone a ripetute sovradistensioni, producendo un’iperinflazione a causa della riduzione del tempo di espirazione [54]. Tuttavia, non si deve considerare sempre dannoso un aumento della PaCO2, poiché, se l’acidosi si produce lentamente, la riduzione del pH intracellulare è compensata metabolicamente e l’aumento del tono simpatico conduce ad un aumento della gittata cardiaca e della pressione arteriosa: questa considerazione costituisce la base del concetto di “ipercapnia permissiva”. La valutazione dei suo benefici clinici deve essere ancora ben approfondita, considerando anche che in alcuni pazienti può essere dannosa. Infatti, l’ipercapnia dovrebbe essere evitata nei pazienti a rischio di aumento della pressione intracranica e nei cardiopatici, visto che l’acidosi respiratoria aumenta il rischio di aritmie cardiache e conduce ad un’ipertensione polmonare per una vasocostrizione del circolo polmonare. Oltre a questo, si deve considerare che valori di saturazione arteriosa < 90% si sono associati a comparsa di deficit

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cognitivi, come alterazione della memoria o della concentrazione, in maniera proporzionale alla durata ed alla gravità della desaturazione [55].

• PEEP: è una componente essenziale nella ventilazione del paziente con ARDS ed è utilizzata per migliorare gli scambi gassosi, tramite l’aumento della pressione e dei volumi a fine espirazione. Il suo valore dipende dalla pressione idrostatiche poste nelle diverse aree del parenchima polmonare.

Il danno alveolare può essere peggiorato dall’alternarsi tra collasso polmonare e riapertura con elevata probabilità di sovradistensione. Quindi, la strategia sarebbe quella di utilizzare bassi volumi tidalici ed una PEEP elevata, in modo da mantenere una pressione di fine espirazione con il fine di contrastare il collasso alveolare. Lo stress a carico del parenchima con questa ventilazione non è accentuato, come dimostrato da Amato e coll. [56]; in questo studio, si è osservato che, nonostante l’utilizzo di PEEP elevate (superiori a 24 cm H2O) ed alte pressioni medie delle vie aeree, c’è stata un’incidenza più bassa di barotrauma nel gruppo ventilato con modalità protettiva, oltre che un’ossigenazione migliore. Successivamente, è stato condotto uno studio con la finalità di capire se la differenza in termini di mortalità e danno alveolare fosse determinata dalla modalità di ventilazione protettiva, o unicamente dall’utilizzo della PEEP alta. Si sono divisi i pazienti in due gruppi, entrambi sottoposti a ventilazioni con bassi VT e basse pressioni delle vie aeree. I risultati affermano che nel gruppo ventilato con PEEP elevata, il rapporto PaO2/FiO2 è migliore, la compliance del sistema respiratorio è più elevata nei primi due giorni, il VT è più basso, così come la pressione di plateau. Inoltre, si è sottolineata la mancanza di una significativa differenza in termini di

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mortalità, insufficienza multi-organo e di insorgenza di barotrauma [57].

La PEEP non deve essere considerata una terapia dell’ARDS, ma un mezzo attraverso il quale si riduce il danno al parenchima polmonare, poiché permette l’utilizzo di una ventilazione con VT più bassi ed una FiO2 a livelli meno tossici.

Pressione media delle vie aeree: costituisce un parametro misurabile derivato della pressione alveolare media. Utilizzando pressioni statiche delle vie aeree superiori a 30 cm H2O, si possono indurre danni al polmone con ARDS, tramite un meccanismo di sovradistensione. Per questo motivo, è stato raccomandato l’utilizzo di una pressione di distensione alveolare massima, la quale si deriva dalla pressione di plateau (Pplat), che non superi i 30-35 cm H2O.

Uno studio interessante, condotto da Bellani e coll., ha valutato l’intensità dell’infiammazione polmonare durante la ventilazione meccanica, utilizzando la tomografia ad emissione di positroni (PET) con [18F]Fluoro-2-desossiglucosio. È stato dimostrato che la Pplat correla in modo significativo con l’attività metabolica (quindi con l’infiammazione polmonare) e questa relazione diviene importante a partire da valori al di sopra di 27 cm H2O; per cui, valori di Pplat inferiori a 25 cm H2O sarebbero meno dannosi [58].

Ci sono delle situazioni nelle quali la reale pressione transpolmonare sarà differente rispetto al valore derivato dalla Pplat. Per esempio, potrà essere inferiore all’atteso in pazienti con bassa compliance toracica (come negli obesi), mentre, in altre situazioni potremo avere un’iperinflazione per valori di Pplat bassi (18-26 cm H2O) [59].

La pressione transpolmonare può essere misurata con un palloncino esofageo, il quale deve essere posizionato correttamente (in un paziente

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semiseduto) con un’adeguata pressione di occlusione; anche la TC quantitativa del torace può essere utilizzata per valutare l’entità dell’iperinflazione. Queste metodiche sono poco pratiche, per cui, al fine di limitare la sovradistensione, si consiglia semplicemente di ridurre il VT.

• Manovre di reclutamento: una manovra spesso utilizzata prevede l’applicazione di un alto livello di PEEP (30-40 cm H2O) per 30-40 secondi in un paziente in apnea, seguita da un ritorno ad un valore di PEEP più basso. Questo metodo sembra produrre un miglioramento dell’ossigenazione, sebbene ciò non sia costante; infatti, i risultati di piccoli studi non sono stati confermati da lavori più importanti [60]. Inoltre, c’è anche il rischio di una riduzione del ritorno venoso, se il paziente non ha un adeguato carico di liquidi.

Il reclutamento alveolare costituisce uno stimolo al rilascio di surfactante da parte degli pneumociti di tipo II, producendo un aumento dell’elastanza polmonare e un miglioramento della PaO2 nel polmone isolato e perfuso [61], spiegando quei miglioramenti registrati in alcuni studi. Questo si rileva anche nei modelli di ALI, in aggiunta ad una riduzione dei livelli di IL-8 [62].

FiO2: la FiO2 è utilizzata per produrre un’adeguata SaO2; bisogna considerare che la FiO2 alta può causare un danno tissutale, il quale sarà comunque inferiore a quello che deriverebbe dall’utilizzo di un’elevata pressione delle vie aeree [63]. Di solito, si inizia con una FiO2 alta, che viene titolata sulla base della PEEP, portandola ad una valore ≤ 60%. In caso di grave ipossiemia, è possibile utilizzare manovre particolari, come l’utilizzo dell’ossido nitrico per via inalatoria o la pronazione. Il trattamento con elevate FiO2 in maschera

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viene solitamente evitato, tanto che spesso si utilizzano comportamenti aggressivi per ridurre una FiO2 eccessiva (come l’aumento della pressione media delle vie aeree).

3.3 Misure particolari per il miglioramento dell’ossigenazione

3.3.1 Mantenimento della gittata cardiaca

È chiaro che, per mantenere un’adeguata ossigenazione, sarà necessario garantire un’idonea funzionalità cardiaca. Nel caso in cui la gittata cardiaca fosse inadeguata, con una pressione venosa centrale o una PCWP non elevate, è opportuno somministrare liquidi. Questo è possibile anche se nell’ARDS si trova un edema polmonare; infatti, poiché quest’ultimo è di natura infiammatoria, non si provocherà un peggioramento dell’infiltrazione polmonare. Si può anche utilizzare anche la dobutamina, evitando, invece, la dopamina, visto che quest’ultima crea una costrizione delle vene polmonari; ciò creerebbe un aumento della PCWP ed una riduzione del volume tele-diastolico del ventricolo sinistro.

Spesso la valutazione della pressione venosa centrale o della PCWP, in un paziente ventilato meccanicamente con una PEEP, può falsare le considerazioni emodinamiche deducibili. La PEEP, infatti, crea un aumento della pressione intravascolare dei vasi intratoracici, senza modificare la pressione transmurale capillare: quindi, questi incrementi pressori non aggravano l’edema. Per questo motivo, il ritrovamento di una PVC o PCWP normale in questi casi, non indica necessariamente un normale riempimento di volume.

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3.3.2 La posizione prona

La ventilazione meccanica in posizione prona fu proposta per la prima volta da Bryan nel 1974 con lo scopo di espandere le regioni dorsali dei polmoni [64]. Non è ancora ben compreso il meccanismo attraverso il quale la posizione prona conduca al miglioramento dell’ossigenazione. La pronazione viene adottata per vari motivi, tra i quali possiamo citare: il miglioramento della dinamica respiratoria e dell’ossigenazione, la riduzione delle regioni atelettasiche, la redistribuzione della ventilazione, il miglior drenaggio delle secrezioni respiratorie, la riduzione del danno associato al ventilatore [65]. In un soggetto sano, la distribuzione dell’insufflazione alveolare segue il gradiente gravitazionale, in modo che gli alveoli più vicini allo sterno siano più distesi rispetto a quelli posteriori (a paziente supino). Le dimensioni degli alveoli dipendono dalla pressione transpolmonare, che è più elevata nelle regioni peristernali. Si ha, quindi, un gradiente di pressione transpolmonare la cui natura non è chiara; potrebbe essere dovuta al peso del polmone, alla massa cardiaca, alla posizione cefalica del diaframma, alla morfologia e alle proprietà meccaniche della parete toracica e del polmone.

Nel paziente con ARDS in posizione supina, la ventilazione senza PEEP si distribuisce nelle regioni superiori; all’aumentare della PEEP, tende a ridistribuirsi in maniera eterogenea. Ponendo il paziente in posizione prona, la pressione transpolmonare ha una distribuzione più omogenea, rispetto alla posizione supina. Inoltre, le densità polmonari, provocate dal processo patologico, tendono a ridistribuirsi dalle regioni dorsali del polmone a quelle ventrali, con un miglioramento dell’insufflazione alveolare e forse della perfusione [66].

Ci sono alcuni fattori predittivi che potrebbero darci un’indicazione su quali saranno i pazienti maggiormente responsivi a questo trattamento; tra questi troviamo la morfologia polmonare, le proprietà meccaniche della gabbia

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toracica e l’eziologia del danno polmonare. Per esempio, per quanto riguarda il primo, si osserva, intuitivamente, che un pattern di danno lobare o segmentale (valutato tramite TC) è un fattore predittivo positivo di una migliore risposta, rispetto a pazienti con danno parenchimale diffuso.

In Italia, sono stati condotti due trial che hanno analizzato la ventilazione in pronazione. Il primo [67] ha arruolato pazienti con ARDS lieve (PaO2/FiO2 ≤ 300) e moderata (PaO2/FiO2 ≤ 200), confrontando i pazienti trattati senza pronazione con quelli pronati per almeno 6 ore al giorno per 10 giorni. Non è stata osservata nessuna differenza di mortalità tra i due gruppi, nonostante i pazienti ventilati in pronazione avessero un miglioramento dell’ossigenazione; in più, non è stata dimostrata una differenza di disfunzioni d’organo. Lo studio ha evidenziato che i pazienti pronati tendevano a sviluppare maggiormente lesioni da decubito su guance, torace, mammelle, creste iliache, ginocchia.

Anche il secondo trial [68] ha confrontato pazienti non pronati con pazienti sottoposti ad almeno 20 ore di pronazione al giorno, fino alla risoluzione dell’insufficienza respiratoria. Questo studio, come il precedente, non ha dimostrato differenze di mortalità, di disfunzioni d’organo, o delle durata delle degenza o della ventilazione meccanica. Invece, i pazienti pronati hanno avuto più complicanze: ostruzione delle vie aeree, desaturazioni transitorie, vomito, ipotensione, aritmie, aumento dei vasopressori utilizzati, perdita di accessi venosi, dislocazione del tubo tracheale.

Più recentemente, è stata pubblicata una meta-analisi [69] che aveva l’obiettivo di verificare se, nei pazienti con ipossiemia grave (PaO2/FiO2 < 100), la pronazione fosse in grado di ridurre la mortalità. Effettivamente, la mortalità è risultata più bassa; si mostrava anche una riduzione delle polmoniti associate alla ventilazione, ma un aumento di probabilità degli effetti collaterali, evidenziati già precedentemente.

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Possiamo concludere, quindi, affermando che la ventilazione in pronazione è una tecnica da riservare ad una popolazione specifica di pazienti, come è stato dimostrato anche più di recente da Gattinoni e coll [70]. Inoltre, bisogna tenere di conto anche delle problematiche ad essa correlati, come le complicanze, i costi e i problemi logistici di organizzazione del personale.

3.3.3 L’utilizzo dell’ iNO

Nell’ARDS, la vasocostrizione polmonare produce una ridistribuzione del flusso polmonare dalle zone scarsamente ventilate a quelle con ventilazione normale. Visto questo fenomeno, è congruo l’utilizzo dell’ossido nitrico inalato (iNO) e della prostaciclina (PGI2), con la finalità di ridurre lo shunt polmonare e il post-carico del ventricolo destro. Queste molecole sono potenti vasodilatatori e sono inalate (l’ossido nitrico come componente di una miscela, di solito NO2/N) in modo che giungano alle zone ben ventilate del polmone, esercitando qui il loro effetto. Di conseguenza, si assiste ad una ridistribuzione del circolo polmonare lontano dalle zone scarsamente ventilate, cosa che produce una riduzione dello shunt polmonare ed un miglioramento dell’ossigenazione.

Le dosi di iNO più comunemente usate per il trattamento dell’ARDS sono 1-60 parti per milione, considerando come risultato ottimo un aumento della PaO2 > 20%. Una volta in circolo, l’ossido nitrico è inattivato dall’emoglobina, per cui gli effetti sistemici si hanno solo per concentrazioni elevate di iNO; nonostante ciò, è necessario valutare la metaemoglobinemia, in modo che si mantenga al di sotto del 5%. Inoltre, l’NO può combinarsi con i radicali liberi dell’ossigeno, provocando tossicità polmonare, cosa che sembra determinata anche dalla sua metabolizzazione a NO2: tali effetti non mostrano un grande impatto clinico.

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