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Misure particolari per il miglioramento dell’ossigenazione

3.2.1 “Baby Lung”

3.3 Misure particolari per il miglioramento dell’ossigenazione

3.3.1 Mantenimento della gittata cardiaca

È chiaro che, per mantenere un’adeguata ossigenazione, sarà necessario garantire un’idonea funzionalità cardiaca. Nel caso in cui la gittata cardiaca fosse inadeguata, con una pressione venosa centrale o una PCWP non elevate, è opportuno somministrare liquidi. Questo è possibile anche se nell’ARDS si trova un edema polmonare; infatti, poiché quest’ultimo è di natura infiammatoria, non si provocherà un peggioramento dell’infiltrazione polmonare. Si può anche utilizzare anche la dobutamina, evitando, invece, la dopamina, visto che quest’ultima crea una costrizione delle vene polmonari; ciò creerebbe un aumento della PCWP ed una riduzione del volume tele- diastolico del ventricolo sinistro.

Spesso la valutazione della pressione venosa centrale o della PCWP, in un paziente ventilato meccanicamente con una PEEP, può falsare le considerazioni emodinamiche deducibili. La PEEP, infatti, crea un aumento della pressione intravascolare dei vasi intratoracici, senza modificare la pressione transmurale capillare: quindi, questi incrementi pressori non aggravano l’edema. Per questo motivo, il ritrovamento di una PVC o PCWP normale in questi casi, non indica necessariamente un normale riempimento di volume.

3.3.2 La posizione prona

La ventilazione meccanica in posizione prona fu proposta per la prima volta da Bryan nel 1974 con lo scopo di espandere le regioni dorsali dei polmoni [64]. Non è ancora ben compreso il meccanismo attraverso il quale la posizione prona conduca al miglioramento dell’ossigenazione. La pronazione viene adottata per vari motivi, tra i quali possiamo citare: il miglioramento della dinamica respiratoria e dell’ossigenazione, la riduzione delle regioni atelettasiche, la redistribuzione della ventilazione, il miglior drenaggio delle secrezioni respiratorie, la riduzione del danno associato al ventilatore [65]. In un soggetto sano, la distribuzione dell’insufflazione alveolare segue il gradiente gravitazionale, in modo che gli alveoli più vicini allo sterno siano più distesi rispetto a quelli posteriori (a paziente supino). Le dimensioni degli alveoli dipendono dalla pressione transpolmonare, che è più elevata nelle regioni peristernali. Si ha, quindi, un gradiente di pressione transpolmonare la cui natura non è chiara; potrebbe essere dovuta al peso del polmone, alla massa cardiaca, alla posizione cefalica del diaframma, alla morfologia e alle proprietà meccaniche della parete toracica e del polmone.

Nel paziente con ARDS in posizione supina, la ventilazione senza PEEP si distribuisce nelle regioni superiori; all’aumentare della PEEP, tende a ridistribuirsi in maniera eterogenea. Ponendo il paziente in posizione prona, la pressione transpolmonare ha una distribuzione più omogenea, rispetto alla posizione supina. Inoltre, le densità polmonari, provocate dal processo patologico, tendono a ridistribuirsi dalle regioni dorsali del polmone a quelle ventrali, con un miglioramento dell’insufflazione alveolare e forse della perfusione [66].

Ci sono alcuni fattori predittivi che potrebbero darci un’indicazione su quali saranno i pazienti maggiormente responsivi a questo trattamento; tra questi troviamo la morfologia polmonare, le proprietà meccaniche della gabbia

toracica e l’eziologia del danno polmonare. Per esempio, per quanto riguarda il primo, si osserva, intuitivamente, che un pattern di danno lobare o segmentale (valutato tramite TC) è un fattore predittivo positivo di una migliore risposta, rispetto a pazienti con danno parenchimale diffuso.

In Italia, sono stati condotti due trial che hanno analizzato la ventilazione in pronazione. Il primo [67] ha arruolato pazienti con ARDS lieve (PaO2/FiO2 ≤ 300) e moderata (PaO2/FiO2 ≤ 200), confrontando i pazienti trattati senza pronazione con quelli pronati per almeno 6 ore al giorno per 10 giorni. Non è stata osservata nessuna differenza di mortalità tra i due gruppi, nonostante i pazienti ventilati in pronazione avessero un miglioramento dell’ossigenazione; in più, non è stata dimostrata una differenza di disfunzioni d’organo. Lo studio ha evidenziato che i pazienti pronati tendevano a sviluppare maggiormente lesioni da decubito su guance, torace, mammelle, creste iliache, ginocchia.

Anche il secondo trial [68] ha confrontato pazienti non pronati con pazienti sottoposti ad almeno 20 ore di pronazione al giorno, fino alla risoluzione dell’insufficienza respiratoria. Questo studio, come il precedente, non ha dimostrato differenze di mortalità, di disfunzioni d’organo, o delle durata delle degenza o della ventilazione meccanica. Invece, i pazienti pronati hanno avuto più complicanze: ostruzione delle vie aeree, desaturazioni transitorie, vomito, ipotensione, aritmie, aumento dei vasopressori utilizzati, perdita di accessi venosi, dislocazione del tubo tracheale.

Più recentemente, è stata pubblicata una meta-analisi [69] che aveva l’obiettivo di verificare se, nei pazienti con ipossiemia grave (PaO2/FiO2 < 100), la pronazione fosse in grado di ridurre la mortalità. Effettivamente, la mortalità è risultata più bassa; si mostrava anche una riduzione delle polmoniti associate alla ventilazione, ma un aumento di probabilità degli effetti collaterali, evidenziati già precedentemente.

Possiamo concludere, quindi, affermando che la ventilazione in pronazione è una tecnica da riservare ad una popolazione specifica di pazienti, come è stato dimostrato anche più di recente da Gattinoni e coll [70]. Inoltre, bisogna tenere di conto anche delle problematiche ad essa correlati, come le complicanze, i costi e i problemi logistici di organizzazione del personale.

3.3.3 L’utilizzo dell’ iNO

Nell’ARDS, la vasocostrizione polmonare produce una ridistribuzione del flusso polmonare dalle zone scarsamente ventilate a quelle con ventilazione normale. Visto questo fenomeno, è congruo l’utilizzo dell’ossido nitrico inalato (iNO) e della prostaciclina (PGI2), con la finalità di ridurre lo shunt polmonare e il post-carico del ventricolo destro. Queste molecole sono potenti vasodilatatori e sono inalate (l’ossido nitrico come componente di una miscela, di solito NO2/N) in modo che giungano alle zone ben ventilate del polmone, esercitando qui il loro effetto. Di conseguenza, si assiste ad una ridistribuzione del circolo polmonare lontano dalle zone scarsamente ventilate, cosa che produce una riduzione dello shunt polmonare ed un miglioramento dell’ossigenazione.

Le dosi di iNO più comunemente usate per il trattamento dell’ARDS sono 1- 60 parti per milione, considerando come risultato ottimo un aumento della PaO2 > 20%. Una volta in circolo, l’ossido nitrico è inattivato dall’emoglobina, per cui gli effetti sistemici si hanno solo per concentrazioni elevate di iNO; nonostante ciò, è necessario valutare la metaemoglobinemia, in modo che si mantenga al di sotto del 5%. Inoltre, l’NO può combinarsi con i radicali liberi dell’ossigeno, provocando tossicità polmonare, cosa che sembra determinata anche dalla sua metabolizzazione a NO2: tali effetti non mostrano un grande impatto clinico.

Solo nel 40-70% dei pazienti (chiamati responsivi) con ARDS si è registrato un miglioramento dell’ossigenazione in seguito alla terapia con iNO: negli altri, la scarsa risposta sembra essere dovuta ad una vasocostrizione grave. Nonostante gli studi clinici non abbiano mostrato differenze in termini di mortalità, l’ossido nitrico si è dimostrato un’opzione terapeutica sicura e in grado di migliorare l’ossigenazione (almeno all’inizio) rispetto al placebo o all’assenza di trattamento, quantomeno nelle prime 12-24 ore. Per questi motivi, l’iNO non è indicato in tutti i pazienti con ARDS, anche se nei soggetti con ipossiemia grave permette un miglioramento temporaneo, forse se il gas è utilizzato in associazione con l’almitrina per via endovenosa (vasocostrittore selettivo polmonare che rinforza la vasocostrizione polmonare ipossica e ha un’azione sinergica con iNO).

La PGI2 migliora l’ossigenazione dei pazienti con ARDS, aumenta il rilascio di surfactante e ha una tossicità minima (inferiore anche a quella dell’ossido nitrico): tuttavia non è in grado di migliorare l’outcome dei pazienti.

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