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Intermezzo Il ruolo delle pratiche nella produzione e comprensione della storia

2 Le ricerche archeologiche In cammino verso la genealogia

2.3. Intermezzo Il ruolo delle pratiche nella produzione e comprensione della storia

“È senza dubbio un fatto curioso, degno di intrigare il filosofo, questa capacità degli uomini di ignorare il loro limite, la loro rarità, di non vedere il vuoto che li circonda,

di credersi ogni volta installati nella pienezza della ragione”350. In questa comune ingenuità

universalmente umana, Veyne riscontra una delle più brillanti intuizioni storiche di Foucault, quella che lo porta a cogliere la cifra dei fatti umani nel loro essere essenzialmente «rari». L’utilizzo di questo termine, non immediatamente evidente, richiede alcune specificazioni. Quella della rarità è innanzitutto una caratteristica che, intuita da Foucault, è restituita alla storia e diviene in essa constatabile solo attraverso l’operazione che Veyne chiama «rarefazione», il cui presupposto fondamentale risiede nel concetto di «pratica», chiave di volta della metodologia storica foucaultiana.

Lungi dal disporsi ordinatamente sulla linea retta d’un progresso della ragione, che

li accoglierebbe nella sua pienezza materna, “i fatti umani sono rari”351, o, più precisamente

– date l’ambiguità e l’oscillazione del termine italiano – sono radi, dispersi, accadono sempre un po’ ai margini di una ragione che li ricollocherà ideologicamente entro il suo alveo. La storia, in altre parole, non confeziona oggetti eterni, che un’intrinseca razionalità preparerebbe alla conoscenza; distribuisce invece eterogeneità, dissemina singolarità irriducibili ad ogni generalizzazione. Questi oggetti, che la nostra miope familiarità ci presenta come naturali, si dissolvono alla lente della storicizzazione foucaultiana, e si

rivelano nient’altro che “il correlato delle pratiche”352 che li plasmano e li determinano. In

questo consiste la rivoluzione copernicana che, secondo Veyne, Foucault inaugura per la storia: “ciò che è fatto, l’oggetto, si spiega a partire da quello che è stato il fare in un

determinato periodo storico”353. Prima è infatti, secondo Foucault, la «pratica», di cui i

presunti oggetti non sono che i correlati e gli ancoraggi, sostrati mobili su cui le pratiche, nella molteplicità del loro intreccio, si avvicendano plasmandoli sempre di nuovo. Non si danno innanzitutto degli oggetti transistorici dotati di una propria naturalità su cui successivamente le pratiche si conformerebbero di volta in volta nel corso del divenire della storia – nelle parole di Veyne: “non si ha, attraverso il tempo, evoluzione o

350 P. Veyne, Foucault rivoluziona la storia, in P. Veyne, Michel Foucault. La storia, il nichilismo, la morale,

trad. it. di M. Guareschi, Ombre Corte, Verona 1998, p. 27.

351 Ivi, p. 8. 352 Ivi, p. 30. 353 Ivi, p. 31.

modificazione di uno stesso oggetto che spunta sempre nello stesso luogo”; le geometrie disegnate dalle molteplici pratiche nel loro intreccio sono costantemente variabili e s’incontrano in punti sempre nuovi, spesso anche molto dissimili dai precedenti:

“Caleidoscopio, non vivaio”354. Restituire alla pratica l’anteriorità che le è propria, insieme

alla sua funzione positiva, significa riconoscere che essa agisce “colma[ndo] attivamente il vuoto lasciato da quelle pratiche” che la precedono e la sorreggono, “attualizzando virtualità prefigurate dal vuoto”355. In questo modo si riassume il concreto operare di

ciascuna pratica, che interviene e si innesta su un sottofondo ad essa solidale a partire dal quale ha la propria presa e segna la propria soglia: “essa attualizza le virtualità della

propria epoca storica, che [le] indicano, in punteggiato, la pratica”356 che potrà essere,

operando nel vuoto e nell’interstizio delle altre.

Quella delle pratiche è un’attualizzazione senza fine, nel duplice significato che è ammesso dalla parola; non c’è alcuna teleologia e non vi è alcun termine in questa ripresa indefinita e imprevedibile. In questo modo gli oggetti che vi vengono prodotti non si iscrivono in nessuna curva di progresso, che li renda via via più vicini alla loro idea sempiterna, ma sono temporanei risultati dell’operare delle pratiche, di cui sono funzione.

Per questo Veyne può dire che “in ogni momento l’umanità […] è adeguata a se stessa”357.

In contesto parzialmente diverso, Chauncey Wright avrebbe riassunto questa dinamica con un’espressione fulminea quanto efficace che potrebbe suonare: “nuovi usi di vecchie funzioni”358.

Se dunque la storia è attraversata da una molteplicità di pratiche che costituiscono la forza concreta che agisce in essa, si tratta di comprendere il luogo dell’errore filosofico che costringe a “moltiplicare gli epicicli ideologici tra gli oggetti naturali, senza tuttavia

354 Ivi, p. 48. 355 Ivi, p. 34. 356 Ivi, p. 27.

357 Ivi, p. 54. Si veda anche oltre nel testo: “In ogni istante, il mondo è quello che è: il fatto che le sue pratiche

e i suoi oggetti siano rari e circondati dal vuoto, non significa affatto che intorno ci sia una verità sulla quale gli uomini non si sono ancora accampati. Le future figure del caleidoscopio non sono più vere o più false di quelle che le hanno precedute”. Ivi, p. 55.

358 “Wright ragionava in questo modo: dove non c’è nulla non possono sorgere nuove facoltà. Dove c’è

qualcosa non è necessario che il qualcosa presenti tutte le caratteristiche di ciò che poi sorgerà. Non si passa con un salto da facoltà vecchie a facoltà nuove, ma semplicemente si passa a un nuovo uso di facoltà vecchie. Vecchie funzioni, che avevano un certo uso, magari marginale per il significato complessivo del fenomeno, assumono in seguito un nuovo uso, che può farsi prevalente e innescare funzioni totalmente nuove o diverse. […] Una pratica […] è un nuovo assemblaggio di senso di elementi tratti da pratiche precedenti, con nuove funzioni significative e nuovi effetti di verità. Ecco qua: vecchie funzioni per nuovi usi. In più il fatto, e il paradosso, che le vecchie funzioni sono ora guardate e definite alla luce dei nuovi usi”. C. Sini, Gli abiti, le

riuscire a collegare i movimenti del reale”359. Veyne individua questa superstizione, fonte

dell’ideologia – altisonante quanto priva di qualsiasi consistenza – “nell’illusione in forza

della quale reifichiamo le oggettivazioni in oggetti naturali”360, lasciandoci sedurre dai

“fantasmi eterni che suscita in noi il linguaggio”361. Come già aveva notato Nietzsche, la

concettualizzazione operata dalla pratica di parola reca con sé tutta una mitologia che impedisce una comprensione adeguata; inducendo la credenza – suggellata nell’eternità del significato – dell’esistenza transistorica e assoluta degli oggetti, comporta la scomparsa “al

di sotto del livello di visibilità”362 del piano delle pratiche che li generano. “Scambiando

l’esito per lo scopo”363 l’ideologia perde di vista “la parte sommersa dell’iceberg” della

storia, quella costituita dalle pratiche, e si concentra soltanto sugli oggetti che, percepiti prescindendo dalle loro radici, presentando l’apparenza di una naturalità che è però pura parvenza.

Nell’analogia della caverna Platone sembra ammettere la possibilità che i prigionieri appena liberati rifiutino di accettare – pur avendola potuta constatare con i propri occhi – la relazione sussistente tra le ombre proiettate sul fondo della caverna e gli oggetti di cui esse sono evidente proiezione. La superstizione filosofica individuata da Foucault attraverso il concetto-chiave di «pratica» non sembra allontanarsi troppo dall’ostinata ottusità dei prigionieri platonici. Nelle parole di Paul Veyne, lo sforzo e l’insegnamento storico di Foucault consiste nel far riemergere, al di qua della superstizione del linguaggio, l’azione instancabile delle pratiche rispetto a cui ogni presunto oggetto – come l’ombra sulla parete della caverna – non è se non il correlato polare che il loro operare costituisce e attraversa. L’errore dello storico sprovvisto di senso storico consiste nel credere a quegli oggetti che la sua stessa pratica, ennesima tra le prossime, contribuisce a reificare, fraintendendo come oggetto dotato di una propria imperturbabile naturalità quello che invece non è che l’esito di innumerevoli sedimentazioni storiche. Questa illusione è determinata dall’effetto eternizzante della pratica di parola e scrittura, che tende a far trascurare lo spessore storico di un fenomeno attraverso la sua sublimazione nell’iperuranio del significato. Immersi nelle pratiche che costantemente frequentano, i soggetti smettono di avvertirne il costante condizionamento, e sono così portati a credere nell’origine e nella sussistenza autonoma di qualcosa che non è invece altro che segno,

359 P. Veyne, Foucault rivoluziona la storia, cit., p. 13. 360 Ivi, p. 31.

361 Ivi, p. 19. 362 Ivi, p. 24. 363 Ivi, p. 31.

sintomo, o traccia del lavorio sommesso e sommerso di una molteplicità interagente di pratiche.

“Anziché cogliere il problema nel suo autentico centro, la pratica, partiamo dall’estremità, l’oggetto, tanto che le pratiche successive appaiono come reazioni a uno

stesso oggetto, «materiale» o razionale, preliminarmente dato”364.

Contro questo stato di cose, Foucault invita a ritornare alle pratiche, riacquistando una percezione corretta che consenta di descrivere con esattezza il loro operare per come esso è, e “[nel] non presupporre altro, [nel] non presupporre l’esistenza di un obiettivo, di un oggetto, di una causa materiale […] e di un tipo di comportamento”365. «Vedere

esattamente»: questo potrebbe essere un efficace formula per riassumere ciò che Foucault poteva intendere per archeologia; una riconversione dello sguardo che lo allontani “dagli

oggetti naturali per percepire una determinata pratica […] che li ha oggettivati”366. Non che

la pratica sia di per sé “un’istanza misteriosa, un sottosuolo della storia, un motore nascosto”367; al contrario, le pratiche sono, come si dice, sotto gli occhi di tutti,

indefinitamente disponibili e senza sosta frequentate e incarnate dai loro molteplici attori, i soggetti. Se passano inosservate, è perché “condivid[ono] la sorte della quasi totalità dei

nostri comportamenti: ne siamo consapevoli, ma non ne possediamo il concetto”368. Come

scrive efficacemente Veyne, «vanno-da-sé». Se l’ideologia, soffermandosi in maniera non genealogica sugli oggetti, asseconda la tendenza inapparente delle pratiche facendone “la parte sommersa dell’iceberg”, per l’archeologia si tratta precisamente di effettuare uno spostamento dall’oggetto “per tentare di scoprire, sotto il livello delle acque, le pratiche di cui è proiezione”369.

364 Ibidem. 365 Ivi, p. 19. 366 Ivi, p. 13. 367 Ivi, p. 19.

368 Ibidem. L’espressione «andare da sé» è utilizzata da Paul Veyne in due sensi distinti, la cui omissione può

indurre spiacevoli fraintendimenti. In un primo significato l’espressione indica lo status di ogni pratica, in quanto essa si trova ad essere generalmente inavvertita, e non portata a concetto – si potrebbe anche dire che non è appercepita, ma è anonima occasione del fare. In un secondo significato, che è adoperato da Veyne nell’ultima citazione, «andare da sé» descrive l’apparenza di un fenomeno storico percepito ideologicamente, in maniera non genealogica. Se in un primo senso indica il carattere costitutivo di una percezione inconsapevole, il suo carattere preconcettuale – Veyne scrive infatti che il soggetto delle pratiche “non deve affatto concepire quello che lui stesso e la sua pratica sono, gli basta che lo siano” e “non sa nemmeno di non sapere (questo il significato delle parole «va da sé»)” – il secondo significato indica un atteggiamento filosoficamente superstizioso che si tratta di superare.

Ora si può comprendere meglio in cosa consista concretamente il gesto della

rarefazione, e in che senso Veyne lo descrive come “una sorta di stacco”370: per Foucault si

tratta di increspare la piattezza indifferente della superstizione filosofica, scostare i drappi dell’ideologia e rompere le familiarità, mostrare in altre parole che “la continuità non è che

il fenomeno di una discontinuità”371. “L’istante prima non c’era niente, salvo una grande

cosa piatta appena visibile, tanto andava da sé, tanto era ovvia”; ma in seguito alla rarefazione, “nel posto occupato dal grande ciò-che-va-da-sé, apparve uno strano piccolo oggetto d’«epoca», raro, irregolare, mai visto”372.

Se questo è il risultato dell’archeologia foucaultiana, appare chiaro che la sua azione non si limita ad osservare e descrivere ciò che si troverebbe al di là del velo ideologico che il suo gesto puramente negativo rimuove; essa esibisce e porta alla luce la catena di pratiche che l’ideologia non avverte e, soprattutto, coglie quell’impensato che persiste ai margini del pensiero determinandolo; recupera infine, dando loro paradossalmente voce, quei silenzi che la cultura occidentale presuppone come condizione della sua storia373.

È ora opportuno distinguere, rimandando ad un momento successivo una trattazione più sistematica, ciò che pertiene alla pratica e ciò che è proprio di quello che Foucault chiama «episteme». La trasformazione storica che Veyne cerca per spiegare, nel suo esempio, la scomparsa e l’impensabilità della pratica della gladiatura a partire dall’epoca tardo-antica, sembra non doversi situare al livello quotidiano e immediato delle pratiche, ma in un luogo più fondamentale, quello appunto dell’episteme, in forza della quale all’interno dell’ambito del discorso “la zona di quello che viene detto present[a] dei partito preso, delle reticenze, delle sporgenze e delle rientranze delle quali i locutori non sono per nulla consapevoli”374. È questa apertura epistemica a determinare lo scacchiere delle

pratiche che configurerà la fisionomia degli oggetti correlati; è a partire dal momento che determinate mosse sono possibili, a differenza di altre che non lo sono – e sono anzi impensabili prima che empiricamente impossibili – che i poli oggettivati dalle pratiche

assumeranno una figura particolare375. L’episteme dispone così quel campo sul quale si

determina e si gioca dispiegandosi l’intreccio delle pratiche (discorsive) ad essa proprie,

370 Ivi, p. 28.

371 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, cit., p. 109. 372 P. Veyne, Foucault rivoluziona la storia, cit., p. 28.

373 “Je n’ai pas voulu faire l’histoire de ce langage; plutôt l’archéologie de ce silence”. M. Foucault, Préface,

in Dits et écrits I. 1954-1975, cit., p. 188.

374 Ivi, p. 24. 375 Cfr. Ivi, p. 57.

quella radura all’interno della quale i “locutori […] credono di parlare generosamente e liberamente, mentre inconsapevolmente dicono cose anguste, limitate ad una grammatica incongrua”376.

Seguendo la china di questo discorso, si può osservare il formularsi di una delle aporie fondamentali dell’archeologia: l’episteme è infatti definito come l’impensato del pensiero – detto per retroflessione a partire dal pensiero che consente. Il fatto che l’episteme non sia oggetto di pensiero non è circostanza accidentale, a cui si potrebbe ovviare attraverso un pensiero più solido e acuto, ma un’impossibilità strutturale, essenziale: aprendo al pensiero non può esserne anche oggetto, o più esattamente non può essere oggetto dello stesso pensiero che rende possibile. Ma a questo punto si pongono due domande inaggirabili, perché insieme ad esse è in gioco la stessa archeologia nel suo valore filosofico: perché l’archeologia è in grado di pensare l’impensato? In virtù di cosa può cogliere le varie forme di episteme che si succedono in una cultura attraverso le rotture epistemologiche che le scandiscono? E soprattutto, qual è il suo impensato? Su quale episteme si muove e si articola? Domande di cui Foucault mostrerà di avere ben presto consapevolezza, quando in un’intervista, accennerà brevemente alla problematicità della questione: “Pour penser le système, j’étais déjà contraint par un système derrière le système, que je ne connais pas, et qui reculera à mesure que je le découvrirai, qu’il se

découvrira…”377.

Queste sono alcune delle questioni che l’originalità del pensiero foucaultiano consegna a chi sia davvero disposto a raccoglierne la sfida e a seguirne le direzioni aperte, le vie suggerite; “Foucault, da parte sua”, scrive Veyne, “raschia le banalità rassicuranti, gli oggetti naturali con il loro orizzonte di promettente razionalità, per rendere alla realtà – la sola, l’unica, la nostra – la sua origine irrazionale, «rara», inquietante, storica”378. Come

affermerà egli stesso, pensare genealogicamente implica la rottura delle evidenze, l’esibizione del brulicare mormorante al di sotto delle costruzioni ciclopiche di ogni cultura; significa in certo modo diventare degli “eruditi delle battaglie”.

*

376 Ivi, p. 25.

377 M. Foucault, Entretien avec Madeleine Chapsal, La Quinzaine littéraire, n° 5, 16 mai 1966, in Dits et

écrits I. 1954-1975, cit., p. 543.

Una notazione a margine. Paul Veyne utilizza nel suo saggio due immagini che ricorrono alternativamente ad illustrare lo statuto della pratica e la relazione che la lega alle proprie oggettivazioni: Veyne parla di «caleidoscopio» e «scacchiere», e la scelta appare non essere punto arbitraria. Entrambe le figure presentano una struttura plurale, e sono basi per delle configurazioni; prefigurano una molteplicità di risultati ottenuti attraverso la disposizione reciproca dei loro elementi – le pedine nello scacchiere, i frammenti vitrei nel caleidoscopio. La spazializzazione che producono non è tuttavia dispersiva o del tutto arbitraria, ma appare essere definita e precisamente determinata, organizzata more geometrico secondo un sistema di regole. L’intreccio delle pratiche presiede quindi la loro molteplicità e la loro reciproca combinazione, la loro solidarietà; da qui scaturiscono le figure storiche assunte dai loro correlati oggettivi, il cui aspetto muta con gli investimenti cui è sottoposto il “referente prediscorsivo”, punto d’ancoraggio per l’azione di una pratica. Ma le regole del gioco non si stabiliscono sullo scacchiere e sono invisibili nel caleidoscopio; esse, che decidono dello scacchiere e del caleidoscopio, appartengono all’episteme, che è in gioco senza comparire nel gioco.

Il saggio di Paul Veyne, scritto nel 1978, vede in Foucault, nel suo contributo teorico, il compimento della storia (intesa come disciplina), di cui Veyne era un autorevole rappresentante. La chiarezza asciutta e spedita che lo caratterizzano ne fanno un documento non trascurabile per la metodologia storica, ma lo rendono anche un contributo prezioso per introdurre la centralità del concetto di «pratica» – “rivoluzione copernicana della storia”, la definisce Veyne – che, sebbene già implicitamente presente in Storia della follia, compare più chiaramente in Nascita della clinica, che si tratta ora di affrontare, prima di ricevere una tematizzazione analitica nell’Archeologia del sapere.