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L’introduzione della legislazione antitrust in Italia e il suo fondamento costituzionale Nel nostro paese, l’introduzione di una normativa antitrust avviene nel 1990, con

LA DISCPLINA ANTITRUST IN ITALIA

1. L’introduzione della legislazione antitrust in Italia e il suo fondamento costituzionale Nel nostro paese, l’introduzione di una normativa antitrust avviene nel 1990, con

notevole ritardo sia rispetto alle previsioni del Trattato di Roma, che all’emanazione di leggi analoghe negli altri paesi europei e tale ritardo è stato spiegato con il prevalere di fattori istituzionali, politici e culturali, che hanno reso per molto tempo poco favorevole l’atteggiamento prevalente nel nostro continente, verso il mercato, l’iniziativa economica individuale e la concorrenza130.

Dal punto di vista istituzionale, l’Italia, rispetto alle altre maggiori nazioni industrializzate, è stata a lungo caratterizzata da una vasta presenza pubblica diretta nell’economia attraverso imprese pubbliche e imprese a partecipazione statale. Le linee di sviluppo di queste imprese, che spesso si trovavano in posizione dominante o addirittura monopolistica nei mercati in cui operavano, venivano di frequente elaborate in risposta a sollecitazioni di natura politica.

130La disciplina antimonopolistica si è imposta alla fine del XIX secolo nella sua terra d’origine, gli Stati Uniti,

come strumento di prevenzione e repressione del potere economico privato, anche se già prima, in Europa, si era affermata, pur con non poche contraddizioni, come portato della rivoluzione industriale del secolo XVIII, che incompatibile com’era con il regolamento corporativo dell’attività di produzione, portò allo smantellamento di quel sistema fondato sui monopoli che era stato costruito con fatica nei secoli precedenti. In questo contesto si colloca l’esperienza italiana: in un clima informato ai principi dell’ordine corporativo, in cui l’iniziativa privata nel campo della produzione era considerata lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della nazione, la previsione e la regolamentazione della costituzione e del funzionamento di consorzi obbligatori o misti, aventi lo scopo di disciplinare la produzione e la concorrenza fra esercenti uno stesso ramo di attività, rispondeva ad esigenze di ordine pubblico economico. Con l’entrata in vigore del Codice civile nel 1942, la situazione dei monopoli e delle altre forme di accordi tra imprese limitative della concorrenza, non mutò gran che, dal momento che le poche norme relative alla concorrenza, si risolvevano nella previsione di patti limitativi, ammessi fino al punto di risolversi nell’integrale esclusione della capacità concorrenziale dei contraenti. Inoltre, fu inserita la previsione di un obbligo di contrarre nel rispetto della parità di trattamento posto a carico del solo monopolista legale, che si risolveva pertanto in una dichiarazione di non interferenza nell’esercizio del potere dei monopoli privati non legali. Quanto infine alla disciplina della concorrenza sleale, essa esprimeva modelli di comportamento idonei a difendere l’assetto del mercato esistente, a proteggere cioè le posizioni e i rapporti di forza acquisiti, più che a promuovere una funzionalità di tipo concorrenziale dell’iniziativa economica. Con l’entrata in vigore della Costituzione, il sistema codicistico in materia di concorrenza rimase immutato, nella convinzione che tale materia era esterna alla Costituzione, anche se non mancava chi prospettava la necessità di predisporre altri strumenti atti a correggere quelle imperfezioni del mercato che, dando vita a formazioni monopolistiche, erano ritenute oltre che dannose per il sistema economico, in contrasto con il disegno costituzionale complessivo. Così R. Niro, Profili costituzionali della disciplina antitrust, Padova, CEDAM, 1991, pag. 71 e seguenti.

Dal punto di vista politico, invece, l’atteggiamento dei partiti nei confronti dell’iniziativa economica e del mercato è stato ambivalente: per molto tempo le forze di ispirazione comunista e socialista si sono dichiarate apertamente ostili ad un sistema di mercato; e anche quando questa ostilità si andò attenuando rimase a lungo la propensione per uno sviluppo programmato dell’economia, che privilegiava gli indirizzi politici rispetto all’autoregolamentazione propria del mercato. L’atteggiamento dei cattolici, vedeva invece contrapposti ai sostenitori della libera impresa, sicuri del fatto che gli obiettivi di solidarietà fossero conciliabili con il mercato, coloro che al contrario erano convinti che solo un vasto intervento pubblico, che riuscisse a porre sotto controllo il mercato, potesse consentire l’attuazione di appropriate politiche sociali.

Infine, dal punto di vista culturale, l’influenza del pensiero liberale nel nostro paese, è stata più limitata rispetto agli altri paesi europei e di conseguenza, sia in economia che in diritto, prevalsero filoni di pensiero secondo i quali l’intervento discrezionale del potere pubblico nel mercato avrebbe potuto dar luogo a sostanziali miglioramenti di benessere.

In questo contesto culturale e politico non ci si deve pertanto stupire se una legge antitrust appariva superflua per il settore pubblico, che riteneva di intervenire in maniera più efficace per garantire un corretto assetto dei mercati tramite le imprese controllate anziché mediante regole liberali, o addirittura dannosa per il settore privato, perché forte era il sospetto che le norme sarebbero state eluse dalle imprese pubbliche e applicate esclusivamente a quelle private, con il conseguente ampliamento dell’intervento pubblico nell’economia131.

Questa interpretazione trova conferma nel fatto che l’interesse per l’introduzione di una normativa della concorrenza nel nostro paese termina con la fine dell’esperienza politica centrista: durante gli anni cinquanta, infatti, proposte di legge di varia provenienza, erano state presentate nelle varie legislature, senza peraltro giungere all’esame parlamentare e una commissione tecnica per l’esame della concorrenza fu nominata dal Governo, con risultati interessanti; tuttavia, dopo la presentazione di un disegno di legge da parte del Governo nel

1961, per circa venti anni la concorrenza e la sua tutela cedettero il passo alla programmazione e all’intervento pubblico selettivo132.

Da questo punto di vista, la riproposizione nella seconda metà degli anni ottanta di progetti per l’introduzione di una normativa della concorrenza nel nostro paese, deve essere interpretata come un risultato rivoluzionario nell’interpretazione giuridica dei rapporti economici, e le cause di questo fenomeno, devono essere individuate in alcuni elementi di carattere economico e culturale.

In primo luogo, infatti, ha avuto grande rilievo la crescente integrazione della nostra economia nella Comunità europea, e quindi l’esigenza di adeguare il nostro sistema istituzionale a quello europeo, introducendo limiti all’intervento pubblico discrezionale nel mercato133.

132Il dibattito parlamentare sull’opportunità dell’introduzione di una disciplina antimonopolistica in Italia risente e

riflette il clima di profonda lacerazione ideologica che si era creato intorno all’interpretazione della Costituzione per ciò che riguardava i rapporti economici. Si riteneva infatti che la formulazione dell’art. 41 in materia di iniziativa economica, si prestasse ad interpretazioni di segno diverso e confliggente, le une volte ad enfatizzare l’aspetto libero-concorrenziale del regime economico configurato dalla norma, le altre volte invece a sottolineare l’importanza dell’intervento dello Stato nella vita economica, in vista del perseguimento di fini sociali. Fin dalle prime legislature repubblicane, le forze politiche avevano manifestato la necessità di un intervento riformatore sul punto ma le numerose proposte di legge da esse elaborate celavano il perseguimento di obiettivi di natura profondamente diversa, corrispondenti ai diversi modi di concepire i rapporti tra Stato e mercato, il che ne determinò l’insuccesso. Se con il primo progetto in materia presentato nel 1950 si riproducevano in buona parte le linee portanti della precedente legislazione sui consorzi, introducendo solo l’obbligo di registrazione degli stessi e la loro sottoposizione alla vigilanza di un’apposita commissione, le iniziative successive si caratterizzavano per interventi più direttamente volti a vietare l’abuso del potere di mercato di un’impresa in posizione dominante e gli accordi limitativi della concorrenza, ma le concezioni sottese alle ipotesi di disciplina proposte divergevano oltre che nelle scelte relative alla determinazione dei divieti e delle sanzioni, anche nell’individuazione dell’organo competente e dei suoi poteri e nella definizione degli ambiti di esenzione dalla normativa. Il fallimento delle numerose iniziative adottate negli anni ’50 e ’60 è stato quindi letto come una rinuncia dello Stato a dotarsi di una normativa antitrust in corrispondenza della profonda lacerazione ideologica che dette iniziative rivelavano e di conseguenza della assoluta incertezza sugli obiettivi di una normativa antitrust. A ciò si collegava da una parte, la diffusa opinione che le imprese a partecipazione statale potevano essere considerate uno strumento sostitutivo di una disciplina della concorrenza, sufficiente ad eliminare il rischio di monopoli privati e più consono alla funzione dell’intervento pubblico nell’economia; e dall’altra, il riferimento alla storica debolezza del capitalismo italiano e alle connesse esigenze di rafforzamento della struttura industriale del paese. L’insieme di questi fattori indusse ad abbandonare il progetto di introduzione di una normativa antitrust e a continuare a seguire un modello contraddistinto dal sostegno statale dell’industria e dall’impiego della grande impresa pubblica. Così R. Niro, Profili costituzionali della disciplina antitrust, Padova, CEDAM, 1994, pag. 77 e seguenti.

133 Il primo compiuto intervento legislativo in materia antitrust si è avuto, nel nostro Paese, non già in

corrispondenza della questione dell’attuazione della Costituzione, ma sulla spinta di fattori esterni all’ordinamento costituzionale italiano: con l’adesione alla Comunità europea, l’Italia ha fatto propri gli obiettivi fondamentali indicati dal Trattato di Roma e quindi anche quello della creazione di un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato comune per il tramite dei divieti delle intese restrittive della concorrenza e dell’abuso di posizione dominante. Inoltre, in vista della realizzazione, prevista dall’Atto Unico europeo, di uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, anche in Italia si è presentata la necessità di dotarsi di politiche atte a favorire il funzionamento del

Inoltre, ci si rese conto che la crisi dell’industria pubblica che aveva colpito l’Italia a metà degli anni ottanta era stata la conseguenza della strategia interventista perseguita nei decenni precedenti, e pertanto, la stessa concezione culturale alla base di quella impostazione cedeva il passo a schemi che consideravano più appropriato il contenimento dell’intervento pubblico a favore di un funzionamento autonomo del mercato.

In questa prospettiva devono essere considerate le caratteristiche della legge di tutela della concorrenza italiana, la legge 287/90: innanzitutto, le previsioni sostanziali relative alle intese, all’abuso di posizione dominante ed alle concentrazioni, sono molto simili a quelle comunitarie e l’interpretazione delle norme deve avvenire nel rispetto dei principi della giurisprudenza comunitaria, consentendo così alle imprese di operare in un ambiente caratterizzato da regole uniformi, a testimonianza della volontà di armonizzare e integrare il modello economico-sociale italiano in quello comunitario.

Inoltre, a queste previsioni sostanziali se ne affiancano altre di principio dal momento che il Parlamento italiano, nell’introdurre norme a tutela della concorrenza simili a quelle comunitarie, ne ha voluto enfatizzare la finalità di tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica sancito dall’art. 41 della Costituzione, e ha pertanto definito il mercato concorrenziale come il quadro entro il quale si svolge la libertà di tale iniziativa, riconoscendo che la norma si applica a tutte le imprese, sia pubbliche o a partecipazione statale, che private.

Infine, la legge contiene delle previsioni volte a limitare l’area di monopolio legale, che nel nostro paese vuol dire soprattutto monopolio pubblico. La legge italiana riprende infatti dalla normativa comunitaria la previsione che la legge sulla concorrenza non si applica ai settori in monopolio, limitatamente alle attività strettamente necessarie al perseguimento delle finalità per cui il monopolio è stato istituito, e contiene anche la previsione che laddove

mercato e coerenti con quelle comunitarie, in un orizzonte europeo caratterizzato da un generale ripensamento dei modelli di realizzazione delle finalità di progresso economico e sociale insite nella Costituzione economica espressa dall’ordinamento della Comunità europea. Da qui la rinascita dell’interesse per l’introduzione di un’organica legislazione antitrust idonea a colmare le lacune della disciplina della concorrenza contenuta nel Codice civile. Così R. Niro, Profili costituzionali della disciplina antitrust, Padova, CEDAM, 1994, pag. 84 e seguenti.

un’attività sia svolta in condizioni di monopolio legale, non ne possa essere impedito l’esercizio ad altre imprese, qualora queste operino in autoproduzione134.

La “gestazione comunitaria” di questa legge, se corrisponde all’orientamento volto a riconoscere una preminenza del diritto comunitario sul diritto interno, pone anche il problema del raccordo tra i principi dell’ordinamento comunitario in materia di concorrenza e quelli propri invece dell’ordinamento costituzionale italiano, dei quali la legge 287/90 si propone come strumento di attuazione. E’ quindi necessario analizzare i principi costituzionali di riferimento di una legislazione antitrust a carattere generale alla stregua dell’ordinamento costituzionale italiano.

La legge 287/90 al comma 1 dell’art. 1 stabilisce che le disposizioni in essa contenute sono in attuazione dell’art. 41 Cost. a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica, inducendo così a riflettere su quale sia la disposizione contenuta nell’art. 41, che si pone a fondamento delle norme per la tutela della concorrenza e del mercato.

La questione si pone in considerazione delle diverse interpretazioni dell’art. 41, che per un verso hanno configurato la norma come espressione della libertà di iniziativa economica del singolo imprenditore, e per altro verso come norma che da una parte difende e dall’altra assoggetta la singola impresa a fini sociali attraverso limiti, programmi, impulsi e orientamenti pubblici disposti dallo Stato.

Il principio della libera concorrenza trova la sua fonte giuridica nel riconoscimento costituzionale della libertà di iniziativa economica, è un aspetto della libertà di iniziativa economica del singolo che a sua volta si presenta come libertà di concorrenza rispetto alla libertà di iniziativa economica degli altri soggetti.

Tuttavia, se non si può dubitare che la libera concorrenza sia un principio implicito nella libertà di iniziativa economica, si dovrebbe invece dubitare che dalla libertà di iniziativa economica di cui al comma 1 dell’art. 41 possa derivare un principio imperativo di tutela della concorrenza e ritenere che dalla prima discenda l’esigenza di una legislazione antitrust: la libertà di concorrenza, come espressione della libertà di iniziativa, sarebbe infatti destinata a

subire gli effetti della libera iniziativa altrui con la conseguenza che il libero esercizio dell’attività potrebbe condurre a situazioni di monopolio o di oligopolio.

Dal comma 1 dell’art. 41 non può quindi essere ricavato un principio di tutela della concorrenza in quanto la tutela della stessa regola si presenterebbe come un’intrinseca limitazione alla esplicazione ed espansione della libertà di iniziativa economica135.

La libertà di iniziativa economica, è fonte di libertà del privato verso lo Stato e allo stesso tempo fonte di libertà del singolo verso gli altri cittadini per cui stando al comma 1 dell’art. 41, il principio di libera concorrenza si esprime nella libertà del singolo di poter concorrere liberamente sul mercato con la propria attività economica. Tuttavia, il comma 1 dell’art. 41 va coordinato con i restanti commi, e in particolare con il comma 2, con la conseguenza che il diritto individuale di libertà economica, sancito nel primo comma, incontra i limiti esterni contenuti nel comma successivo. Se infatti non vogliamo che la normativa antitrust si risolva in una violazione del principio di uguaglianza a causa della repressione dell’iniziativa di un singolo a vantaggio del diritto di un altro singolo, dobbiamo ritenere che gli interessi tutelati con la normativa antitrust non sono quelli di un imprenditore individuale rispetto a quelli di un altro, ma quelli generali, eventualmente contrapposti a quelli del singolo imprenditore e allora tutela del mercato e tutela della singola impresa non sono la stessa cosa, non hanno a loro fondamento gli stessi interessi, con la conseguenza che gli interessi superindividuali, espressi nella normativa antitrust, trovano la loro naturale collocazione non già nel comma 1 dell’art. 41 ma nei commi successivi136.

135Così C. Piccioli, Contributo all’individuazione del fondamento costituzionale della normativa a tutela della

concorrenza, Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1996, pag. 29 e seguenti.

136Dal contenuto dell’art. 43 Cost. si possono trarre ulteriori spunti a sostegno della tesi che esclude che il

fondamento della legge antitrust deve essere rinvenuto nel comma 1 dell’art. 41. L’art. 43 non indica un divieto assoluto di esercitare un’attività economica privata in regime di monopolio ma prevede che la legge in casi eccezionali e solo per motivi di utilità generale, può incidere sull’attività dell’imprenditore privato, trasferendo allo Stato quelle imprese aventi carattere di preminente interesse generale che agiscono nel mercato in condizioni di monopolio. Quindi l’intervento autoritativo ex art. 43 si ha quando la sostituzione dello Stato ai privati non può essere attuata nelle ordinarie forme consensuali, fermo restando che la legislazione antitrust deve essere comunque rivolta a rimuovere ovvero a scoraggiare l’abuso delle posizioni monopolistiche in modo meno drastico. Pertanto, nonostante i diversi presupposti ed effetti, la legge antitrust, almeno dal punto di vista dei soggetti, pone una valutazione di interessi che si avvicina molto a quella contenuta nell’art. 43 che vede l’interesse individuale contrapposto a quello superindividuale, confermando così la collocazione degli interessi espressi nella legge a tutela della concorrenza nell’ambito dei commi dell’art. 41 successivi al primo.

Non solo la Corte costituzionale ma la stessa Autorità garante mostrano di ricondurre la normativa per la tutela della concorrenza e del mercato al valore dell’utilità sociale di cui al comma 2 dell’art. 41, riconducendo i valori del mercato, dell’efficienza, della competitività tra le imprese e del mantenimento della regola della concorrenza, al fine di utilità sociale cui deve essere finalizzata l’attività imprenditoriale. In sostanza la Corte ha indicato il mercato, la permanenza delle imprese, le regole della libera concorrenza e il sistema economico produttivo vigente, come fini a sé stanti, capaci di esprimere di per sé interessi da ricondurre all’utilità sociale di cui al comma 2 dell’art. 41.

Anche parte della dottrina137 ha sottolineato come nell’utilità sociale del comma 2

dell’art. 41 vadano riconosciuti soprattutto i fini della produzione, del progresso materiale della società e del benessere economico, osservando che la nozione di utilità sociale deve essere circoscritta in relazione all’altro limite apposto alla libera iniziativa economica nella seconda parte del comma 2 dell’art. 41 per cui il divieto di recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, rappresenta lo strumento per la tutela e quindi l’attuazione dei più generali interessi umani, riducendo così la tutela dell’utilità sociale a mezzo di difesa e di promozione della produttività economica.

Altra parte della dottrina138, invece, giudica riduttivo limitare la nozione di utilità sociale

agli interessi della produzione e del mercato, ritenendo che tale nozione coinvolga anche la necessità di una più equa ripartizione del prodotto sociale: pur riconoscendo che l’interesse espresso dall’utilità sociale è quello del benessere economico, costituito da quei vantaggi materiali connessi all’incremento del reddito derivante da un aumento del prodotto nazionale, l’utilità sociale importa anche un’armonizzazione della ricchezza con l’esigenza della sua distribuzione.

137Così G. Minervini, Contro la funzionalizzazione dell’impresa privata, Rivista di diritto civile, 1958, pag. 622; L.

Mazziotti, Il diritto al lavoro, Milano, 1956, pag. 154; R. De Stufano, op. cit., Milano, 1956, pag. 186; G. Oppo,

L’iniziativa economica, Rivista di diritto civile, 1988, pag. 330.

138Così R. Villata, Autorizzazioni amministrative e iniziativa economica privata, Milano, 1974, pag. 92; S. Rodotà,

Note critiche in tema di proprietà, Rivista trimestrale di diritto processuale civile, 1960, pag. 1282; V. Spagnolo

Infine, vi sono indirizzi dottrinali139più distanti dalle posizioni che riconducono all’utilità

sociale soprattutto gli interessi della produzione economica, ritenendo che l’orientamento che riconduce nell’utilità sociale i soli interessi economici, presuppone che il benessere economico collettivo sia scindibile da altre forme di benessere e ciò non corrisponde all’ordinamento esistente che considera i cittadini contemporaneamente partecipi all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. Inoltre, limitare all’aspetto economico l’utilità sociale non sarebbe adeguato all’ispirazione egualitaria e al valore della dignità umana contenuti nella Costituzione, oltre che contrario al criterio di determinazione del valore individuale costituito dallo sviluppo della personalità tramite il lavoro.

Anche se le posizioni della dottrina sono tra loro diverse, si può comunque concludere