Per quanto riguarda le ricerche provenienti del mondo anglosassone, il noto saggio di Jonathan Bennett45 sebbene non dia rilievo particolare alle questioni che c’interessano presenta spunti d’interesse specifici per la configurazione originale di alcuni aspetti di fondo. L’autore, di formazione analitica, privilegia l’esame della congruenza semantica e logica degli asserti e delle argomentazioni. Così, il chiarimento della semantica di “adeguato” è la premessa delle osservazioni relative alla parte sulla ragione e le nozioni comuni: questo aggettivo prevede un uso tecnico, che impone regole e limitazioni ai contesti che ne contemplano l’uso; tuttavia la definizione di «idea adeguata» è più rara di quanto ci si aspetterebbe nelle dimostrazioni della seconda parte. Per Bennett è inoltre rimarchevole che due differenti significati di questo aggettivale possono essere estrapolati da testi lontani tra loro per senso e funzione (E 2P11C; E 2P24D), che tuttavia prevedono un’accezione comune dove vengono identificate adeguatezza e completezza46.
Come si vede, qui lo storico della filosofia inglese perviene alle stesse conclusioni riscontrate nei casi di Walther e di Gueroult; le sue osservazioni risultano nondimeno originali per via del suo ripudio del cosiddetto «criterio ontologico» dell’adeguatezza (E 2P11C), a favore del concetto che egli estrapola dal testo della dimostrazione della proposizione 24, la quale afferma l’inadeguatezza della nostra conoscenza delle parti che compongono il corpo umano: il testo prova in negativo che avere un’idea adeguata significa pensare un contenuto che è completamente causato dall’interno dalla nostra mente, senza che vi sia riferimento essenziale ad alcuna unità rappresentativa. In questo modo sarebbe rispettata la definizione di idea adeguata (E 2Def.4). Per Bennett, il senso e l’uso di questa definizione costringe a pensare l’idea adeguata come controparte della causalità adeguata, cioè della causalità completa ed esclusiva della mente umana.
A partire da queste puntualizzazioni lo storico della filosofia anglosassone accosta la spiegazione della conoscenza razionale: le indicazioni che Spinoza ci dà sono molto scarse, segno del fatto che la dimensione pratica e le implicazioni etiche della
Ratio lo interessano maggiormente. A riprova di ciò si considera che nella strategia
filosofica dell’Ethica la “ragione” non esprimerebbe direttamente la componente
45
J. F. Bennett, A Study of Spinoza’s Ethics, Cambridge, Cambridge University Press, 1984.
cognitiva delle operazioni mentali, ma escluderebbe esplicitamente l’elemento sensibile, mentre qualcosa di analogo dovrebbe valere per la passionalità – passione e sensazione, per quanto diverse, vengono contrapposte ugualmente alla ragione. Di qui la difficoltà di stabilire una “ragion pratica” depurata di ogni passività, sia essa di carattere empirico oppure emotivo.
Ad ogni modo Bennett è persuaso che la complessità di questo versante della teoria della ragione sia direttamente proporzionale all’importanza che gli ascrive Spinoza: «It is as though Spinoza were more interested in reason for its moral role than for its place in cognition»47. Già questa osservazione comporta un interesse molto ridotto per la teoria delle nozioni comuni, che corrisponde ad uno stratagemma per collocare la razionalità all’interno della problematica conoscitiva. Nella seconda parte l’essenziale è l’affermazione inequivoca dell’autosufficienza della conoscenza razionale in quanto formata da idee che implicano esclusivamente la potenza di agire della mente, ovvero la mente come causa adeguata.
Questo è il punto su cui insiste lo storico della filosofia anglosassone, legittimamente in quanto ritiene fondamentale per l’unità sistematica dell’Ethica è la risoluzione di ragione teorica e ragione pratica in una visione unitaria del reale. Date queste circostanze, è comunque interessante rendersi conto del modo in cui l’interprete applica le sue osservazioni terminologiche alle proposizioni sulle nostre idee adeguate. Nella sua lettura, il raziocinio è un’operazione che in linea di principio non comporta il dato empirico proveniente dall’ambiente esterno (input); comporta idee adeguate per definizione, cioè – come già visto – idee delle quali la nostra mente è causa adeguata, perché sono prodotte in funzione delle leggi che la fanno essere e agire. Le dicotomie di interno e esterno, di legge e contingenza, sarebbero perciò a monte della contrapposizione di ragione e sensibilità.
Bennett sottolinea che in questo modo, però, l’autore dell’Ethica non si rifà all’idea ingenua secondo cui le operazioni cognitie indipendenti dall’empiria sono necessariamente vere. Il quadro di riferimento delle sue tesi è un altro: l’errare è una forma d’ignoranza, per cui ciò che la contraddistingue, che le assegna una pertinenza concettuale particolare, è l’implicazione di idee inadeguate, che produce necessariamente conoscenza mutilate e/o confuse. (soluzione, questa, contestata dallo studioso inglese: Spinoza non si accorge che l’errore non consiste in una mancanza di
conoscenza, ma che è piuttosto il prodotto di una mancanza di conoscenza48) Ora, le idee adeguate producono altre idee adeguate, una volta che siano a noi note come tali, in quanto abbiamo nozioni comuni – la ragione non può essere causa di errore.
La nota fondamentale del secondo genere di conoscenza resta l’indipendenza dell’operazione cognitiva rispetto all’ambiente circostante, il fatto che la mente sia determinata a pensare interne. Con grande disappunto del lettore, non si trova né in questa parte né altrove nello stesso saggio alcuna osservazione sul testo più importante per fondare questo punto di vista (E 2P29CS), che avrebbe potuto suggerire ulteriori confronti con le affermazioni metodologiche del De emendatione. Nell’Ethica la deduzione delle nozioni comuni sarebbe motivata dall’esigenza di provare l’oggettività e l’universalità di idee che, ammesso che abbiano come causa esclusiva la nostra mente, dovrebbero darci una conoscenza vera degli oggetti e poter essere pensate negli stessi termini da tutte le menti. La definizione della proprietà comune («ciò che è ugualmente nella parte e nel tutto») rappresenta la struttura interna delle nozioni basilari in geometria e in fisica, ipotizza Bennett, e soprattutto mette in parentesi la percezione sensibile.
L’autore ammette di non comprendere la dimostrabilità delle nozioni comuni universali, e sostiene la sua inconcludenza facendo allusione, a quanto pare, al testo del corollario che pone il «criterio ontologico» (E 2P11C). L’argomento è però risibile: l’autore gioca sulla letteralità di una parte del testo come se questa decidesse il suo senso complessivo e le sue implicazioni concettuali:
Its conclusion is of the form “if… then x is conceived adequately” and the only premisses which involve the concept of adeguacy have the form “if…, then x is perceived inadequately”. That makes it probable… that the demonstration is defective49.
Sempre nel merito di questa parte del sistema, viene formulata un’ipotesi sul movente originario dell’approccio spinoziano: il filosofo sarebbe stato colpito da come lo scarto tra ambiente esterno e senso interno possa mutilare le nostre rappresentazioni, e in questo modo dovette considerare che questo aspetto fosse la diretta controparte della discontinuità e dell’eterogeneità di tutto ciò che è fuori di noi: appunto, se la produzione dell’idea è imperniata sulla proprietà, su ciò che è comune a tutte le parti della materia,
48
Cfr. ibid., p. 167
allora questo scarto viene neutralizzato insieme alle sue conseguenze negative dal punto di vista cognitivo.
Tutto ciò sta a dimostrare che per lo studioso inglese la teoria delle nozioni comuni va abbandonata e con essa la fondatezza e l’autonomia della ragione in quanto genere di conoscenza; verso la fine del saggio si legge che il significato basilare dell’idea adeguata («idea caused wholly from within») deve valere negli stessi termini per la ragione e per la scienza intuitiva, per cui quanto viene postulato in precedenza a proposito delle idee di proprietà comuni va messo in parentesi.
Se considerazioni di questo tenore possono essere giustificate dagli interessi soggettivi dell’interprete, nondimeno risultano inaccettabili qualora con esse si pretenda di rispettare i moventi principali dell’autore dell’Ethica. È quanto avviene in modo lampante allorché Bennett esamina la “ragion pratica” spinozista, dove la teoria dei
dictamina rationis viene ricondotta al tentativo – peraltro fallito – di fondare un’etica
della ragione prescrittiva, in senso kantiano.
1.8 MARGARET WILSON E LE NOZIONI COMUNI COME PRINCIPIO ORDINATORE DELLE