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6. L’Islam e i principi democratici: differenti aspetti e definizion

6.4 Islam e diritti uman

Per quanto riguarda il discorso relativo ai diritti umani nell’Islam, la questione del riconoscimento di tali principi diventa indispensabile per la compatibilità e il completamento democratico. Entrambi i quotidiani pongono molta attenzione al concetto del rispetto dei diritti umani, che diventa un argomento imprescindibile dall’attuazione del modello democratico anche nell’Islam.

Sull’osservanza di tali principi in Paesi musulmani la stampa italiana fornisce diverse notizie, in particolare relativi alle condizioni di vita delle donne. Come abbiamo visto nel capitolo relativo al problema del “velo islamico”, la considerazione fornita alla questione dei diritti delle musulmane è notevole, sia per quel che riguarda la condizione delle stesse nei Paesi d’origine, sia per quel che concerne le donne all’interno delle stesse società “occidentali”. La questione dei diritti nell’Islam è complessa: questi ultimi vengono posti più sul piano della comunità che su quello dell’individuo. Viene riconosciuto il liberalismo, ma non il liberismo, che invece è considerato essere la causa della competizione e dell’“individualismo che può facilmente causare la frantumazione delle garanzie e della coesione sociale”427. Il riferimento principale della cultura islamica non è l’individuo, bensì la umma; ciò significa che i bisogni dell’uomo sono ignorati, o subordinati, a quelli della comunità, che si autorappresenta come ambiente naturalmente permeato dall’idea di uguaglianza428. Su questo incide anche il fatto che i diritti vengono considerati un’emanazione diretta della volontà divina, e, sebbene nel corso degli anni molti Paesi abbiano adottato leggi volte a garantire sempre una maggiore eguaglianza tra i sessi, permane comunque una innegabile differenziazione tra uomo e donna. La questione della compatibilità tra Islam e diritti umani la si ritrova su entrambi i quotidiani, sia per quel che riguarda le vicende relative a Iraq e Afghanistan, sia l’ingresso della Turchia in Europa. Considerando l’Afghanistan, il conflitto in sé è stato impostato sul concetto di guerra per “liberare” le donne dalla prigionia del burqa, mentre nel caso dell’Iraq, la guerra ha come fine conclamato quello di esportare la democrazia e i valori in essa intrinseci, che comportano il rispetto dei diritti delle donne, delle minoranze, e, più in generale, dei diritti umani.

427

M. Campanini, K. Mezran, op. cit., p. 178.

428

Il rispetto dei diritti umani non rimane però un concetto riferito solamente alla sfera islamica: esso infatti si ritorce contro gli Stati Uniti. Le azioni degli Usa che si pongono a paladini dei diritti umani e compiono azioni (bombardamenti e torture) attuate dagli stessi in violazione di tali diritti diventano un argomento che pone sempre più quesiti sull’appropriatezza della guerra in Iraq. In particolar modo, il caso emerge in seguito ad alcune foto che ritraggono soldati statunitensi mentre torturano alcuni prigionieri nel carcere iracheno di Abu Ghraib, in completa violazione dei diritti umani. Il caso scoppia nel 2004 e contribuisce a rendere ancor più contraddittoria l’immagine degli Stati Uniti. I quotidiani ne danno ampiamente notizia:

Repubblica nel periodo 2004-2009 pubblica 105 articoli sull’argomento, mentre il Corriere

ne ospita 74429. Il caso diventa internazionale e vedrà imputati e processati gli agenti di custodia del carcere iracheno.

Su entrambi i quotidiani vengono utilizzate parole di sdegno per l’accaduto, ma mentre su

Repubblica diversi articoli usano la vicenda di Abu Ghraib per sostenere l’inutilità di tale

guerra, sul Corriere l’avvenimento è adoperato diversamente. Ad esempio, in un articolo di Angelo Panebianco, nonostante gli atti compiuti dai soldati Usa siano considerati riprovevoli, il giornalista scrive che “bisogna anche osservare che c’è una buona dose di ipocrisia nelle reazioni sia del mondo arabo (l’emittente Al Jazira si è scatenata contro gli americani, e la Lega Araba, di cui tutti abbiamo potuto apprezzare in questi mesi la latitanza e il disinteresse per la ricostruzione dell’Iraq, si è svegliata di colpo per protestare)”, poiché “in tutte le guerre accadono episodi del genere e anche i soldati delle democrazie possono commettere (ne hanno commessi spesso) atti riprovevoli”. Ciò di cui ci si preoccupa nell’articolo è il danno d’immagine che hanno gli Usa da tale vicenda, per la quale si auspica “una punizione rapida e esemplare” in modo da

dimostrare all’opinione pubblica araba (e anche a quella parte di opinione pubblica occidentale che non ci crede) che se è vero che gli uomini sono sempre gli stessi, lo stesso impasto di bene e di male, vivano essi sotto le democrazie o sotto le tirannie, è vero anche che le democrazie, per la capacità che hanno di correggere i propri errori, restano incomparabilmente migliori delle tirannie430.

Su Repubblica, invece, nell’articolo “Non possiamo essere complici nelle torture”, vengono riportate dichiarazioni di alcuni esponenti di Emergency che sollevano il problema della mancanza di rispetto dei diritti umani mostrata nel corso della guerra irachena. Essi

429

Criterio di ricerca “Abu Ghraib + ‘diritti umani’”.

430

ribadiscono che “l’Italia non può più rimanere nella ‘coalizione dei volenterosi’ [come è stata ribattezzata la coalizione dei Paesi entrati in guerra in Iraq, ndr], ci sono dei principi di etica dei diritti umani che non possono essere in nessun modo barattati”431. Il problema viene avvertito anche negli anni successivi, un esempio ne è l’articolo “La lotta al terrorismo è diventata un alibi così mezzo mondo calpesta i diritti umani”, in cui sono riportate dichiarazioni di Amnesty International che sottolinea come la lotta al terrorismo stia in realtà sfociando in una giustificazione all’utilizzo di trattamenti disumani e degradanti432. L’approccio di Repubblica è quindi più analitico e critico nei confronti dell’operato del governo statunitense. Possiamo notare una maggiore presenza di articoli di opinione, in cui si indaga sulla natura della tortura e sulla psicologia di chi la compie; ciò non implica però che l’avvenimento venga strumentalizzato a tal punto da diventare un argomento con cui sostenere l’uscita del contingente italiano dalla guerra in Iraq.