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Knowledge management e Comunità di Pratica

di Cristiana Cattaneo, Silvana Signori e Elisabetta Acerbis

5.2. Le Comunità di Pratica

5.2.1. Knowledge management e Comunità di Pratica

La valenza strategica che il capitale intellettuale e il capitale sociale assu- mono per ogni tipo di organizzazione, ha indotto anche le aziende a ricercare condizioni organizzative e sociali affinché questi due asset vengano creati e si diffondano all’interno delle proprie realtà. Il riconoscimento della cono- scenza come fattore critico di successo ha evidenziato la necessità di gover- nare e diffondere il know-how. Da queste due esigenze nasce il knowledge management. Pur non essendo argomento principale della trattazione, pare opportuno sottolineare che lo sviluppo di questo modello gestionale è carat- terizzato da più fasi, fortemente correlate all’evolversi della consapevolezza legata alla rilevanza del sapere come leva strategica. La prima fase può essere identificata con il periodo in cui è stata compresa la necessità di strutturare il flusso informativo necessario alla presa in carico delle decisioni ed alla for- mulazione delle strategie. In questa fase il knowledge management veniva

presentato come una componente della reingegnerizzazione delle organizza- zioni che faceva riferimento alla Business Process Reingeneering.

Dopo il 1995 inizia a delinearsi il knowledge management di seconda ge- nerazione che si caratterizza per la volontà di trasformare le conoscenze in- dividuali in organizzative. Tuttavia, la criticità di questa fase è evidente in quanto non tiene conto della componente socio-relazionale da cui la diffu- sione della conoscenza non può prescindere. Questa mancanza viene supe- rata con l’avvento del knowledge management di terza generazione.

È all’interno di questa terza fase che iniziano a delinearsi le basi su cui poggiano le Comunità di Pratica, come ambiente di diffusione della cono- scenza.

Con il knowledge management di terza generazione «we create ecologies in which the informal communities of the complex domain can self-organise and self-manage their knowledge in such a way as to permit that knowledge to transfer to the formal, knowable domain on a JIT basis» (Snowden, 2002, p. 108), ovvero quando ce n’è bisogno e dove il bisogno emerge.

È proprio in questa terza fase che si evince come la diffusione della co- noscenza si lega irrimediabilmente e biunivocamente alla creazione e al man- tenimento delle relazioni.

Date queste premesse è comprensibile il passaggio al più recente quarto stadio, in cui «l’interazione tra le comunità [...] formali o seminformali pre- senti nelle organizzazioni – il loro modo di collaborare, interconnettersi, scambiare informazioni, creare situazioni di cooperazione […] sta effettiva- mente diventando lo strumento più potente […] per la creazione di cono- scenza» (Astrologo e Garbolino, 2013, p. 77).

Lo sviluppo di relazioni e il passaggio da conoscenza individuale a orga- nizzativa, che non può certo essere definita come somma dei know-how in- dividuali (Quagli, 2001), sono gli elementi essenziali delle Comunità di Pra- tica (d’ora in poi CdP).

La CdP viene definita da uno dei fondatori della teoria come (Lave e Wenger 1991; Wenger 1998 e 2004):

«… a group of practitioners, who  share similar challenges;  interact regularly;

 learn from and with each other;

 improve their ability to address their challenges».

Secondo la teoria delle CdP l’apprendimento è inscindibilmente legato alla pratica, si parla, quindi, di apprendimento situato quando gli individui sviluppano pratiche, cioè apprendono il know-how, tramite la socializzazione con gli altri membri della comunità. Tramite l’osservazione di questa com-

ponente tacita della conoscenza, il singolo è in grado di estendere il suo sa- pere dando origine a pratiche specifiche che corrispondono alle norme della comunità, ma anche all’identità del soggetto (Handley, Sturdy, Fincham, e Clark, 2006). È, dunque, attraverso il processo di negoziazione del signifi- cato dell’esperienza che ogni partecipante adatta e ricostruisce l’identità e la propria pratica.

Il concetto di negoziazione, così come concepito da Wenger, «non pre- suppone una netta distinzione tra l’interpretare e l’agire, tra il fare e il pen- sare» (Fabbri, 2007, p. 43). L’esito è una costante variazione del significato delle situazioni che incide su tutti i partecipanti al processo.

All’interno della nozione di negoziazione si trova il dualismo tra il co- strutto di partecipazione e quello di reificazione. Quest’ultimo permette di codificare l’esperienza, dando origine a quegli strumenti che vengono rico- nosciuti come repertorio condiviso della comunità.

Secondo Wenger (2006) una comunità può essere classificata come una CdP quando sono presenti tre fattori caratterizzanti:

 impegno reciproco: l’interesse rispetto ad una specifica tematica è con- dizione necessaria, ma non sufficiente, affinché nasca una CdP. L’im- pegno e l’interrelazione, anche se discontinui, sono aspetti fondamen- tali. «L’appartenenza ad una CdP è dunque un patto di impegno reci- proco» (Alessandrini, 2007, p. 36, 37). La rilevanza è posta sulle inte- razioni che si sviluppano intorno alla pratica. Secondo questo modello la conoscenza assume un’accezione più simile ad un «‘bene pubblico’ disponibile per l’intera comunità, alla quale ciascun membro contribui- sce in sorta di una specie di ‘dovere morale’» (Quagli, 2001, p. 12);  impresa comune, intesa come fine ultimo condiviso.

 Per perseguire quest’ultimo la comunità non può prescindere dalla de- dizione e dalla lealtà dei suoi membri come strumento per l’acquisi- zione di conoscenza collettiva. In quest’ottica, la «responsabilizza- zione diventa parte integrante della pratica» (Alessandrini, 2007, p. 37) permettendo che il processo legato alla conoscenza «sia ‘genera- tivo’ ma anche ‘vincolante’» (Alessandrini, 2007, p. 37) nel favorire la cessione del proprio know-how e l’acquisizione di quello degli altri partecipanti alla comunità;

 prassi condivisa o repertorio comune, cioè un insieme di risorse e di pratiche, condivise dai membri della CdP, frutto della negoziazione e del confronto informale delle esperienze del singolo a cui la comunità ha attribuito un significato. Tale processo non deve essere necessaria-

mente intenzionale, ma spesso è frutto dell’interazione sociale che spontaneamente ha luogo tra i membri.

Attraverso queste caratteristiche le CdP si configurano, quindi, come «gruppi di persone che condividono un interesse per qualsiasi cosa fanno e che interagiscono con regolarità per imparare a farlo meglio» (Alessandrini, 2007, p. 37) dove le “decisioni critiche” «vengono discusse dalla comunità, poi trasformate in regole che tutti possono condividere o modificare, discu- tendone pubblicamente, fino a che non si arriva a […] una riformulazione, accettata da tutta la comunità» (Astrologo e Garbolino, 2013, p. 89).