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L’eredità dell’analisi tipo-morfologica in Italia

Ciò che appare fin dall’inizio strano ed interessante al tempo stesso è che per lunghi anni in Italia l’“invenzione” dell’analisi urbana, cioè la costruzione della teoria tipo morfologica (Fig. 2.6 e Fig. 2.7), non conduce in maniera diretta all’architettura ur- bana e al progetto urbano, così come è avvenuto in Francia, ma intraprende un percorso diverso, sebbene complementare. Nel 1960 a Gubbio un gruppo di amministrazioni comunali, di intellettuali e uomini politici organizza un convegno sulla salvaguardia e il risanamento dei centri storico-artistici nel corso del quale viene elaborato il documento che avrebbe preso il nome di “Carta di Gubbio”, dal nome della città che ospitò l’incontro e che rappresenta proprio l’inizio del nuovo percorso cui si faceva riferimento. Si tratta, dunque, dell’emergere in modo strutturato della “questione dei centri storici” il cui impatto nell’intero dibattito culturale e disciplinare, ma anche nella pratica dell’urbanistica e nella forma- zione, sarà tale da poter affermare che anche le caratteristiche assunte dalla questione dell’architettura urbana e del progetto urbano in Italia negli anni recenti sono fortemente influenzate da essa.

Il quadro politico-culturale che comincia a comporsi in Italia è assolutamente propizio per l’affermazione, in campo professio- nale, dell’analisi urbana come strumento di pianificazione e apre una prospettiva che, nel lungo periodo, sarà molto feconda di risultati soprattutto dal punto di vista qualitativo, e che caratterizzerà già da allora la politica di rinnovo urbano italiana in modo sostanzialmente diverso rispetto alle analoghe contemporanee politiche di renovation urbaine o di urban renewall, nel resto dell’Europa. Nonostante ciò il prevalere nel dibattito di alcune posizioni piuttosto che di altre e la grande importanza attribuita all’aspetto politico e istituzionale della questione, costituiranno un freno per l’evoluzione dei concetti contenuti già nella Carta e per l’adozione di strumenti d’intervento sulla città esistente nel suo complesso, che a essi facevano riferimento. Nella prevalenza della posizione “conservazionista”, come la definì Bruno Gabrielli, sta il difetto della questione urbana in Italia, schiacciata tra le lotte politiche per ottenere un rinnovato quadro normativo, per amministrare l’urbanistica, da un lato, e la perplessità (a volte il rifiuto) degli urbanisti di considerare dentro il loro ambito disciplinare l’innovazione introdotta da Muratori che, sebbene non se ne faccia mai il nome, potrebbe semmai essere il bersaglio delle accuse di accademismo che, non di rado, venivano lanciate anche da coloro che stavano conducendo la battaglia per i centri storici (Gabrielli, 1992). L’importanza della Carta di Gubbio da cui è partita questa riflessione è, tuttavia, fondamentale e infatti, fin da allora, ci si rese conto che con essa veniva posta “la prima pietra per una nuova impostazione dei problemi urbanistici che fa perno sulla città antica con la sua concretezza e singolarità” (Samonà, 1960) superando la visione di Piccinato cui comunque il nuovo approccio deve, probabilmente, non poco.

Come si vede fin dai primi anni ’60, gli aspetti innovativi e interessanti della questione e i limiti sono tutti presenti e rimar- ranno a caratterizzare il problema fino ai nostri giorni. Tra i primi la decisa affermazione dell’analisi storica urbana con i suoi strumenti tipologici e morfologici, ma anche sociologici ed economici come strumento fondamentale di una corretta pianificazione urbanistica. E ancora la scoperta del centro storico come patrimonio anche economico il cui riuso oltre che essere operazione culturalmente sostenibile, è anche economicamente conveniente. Tra i secondi, la responsabilità presso- ché esclusiva del recupero affidata all’ente pubblico, il trinceramento dietro posizioni di conservazione a tutti i costi anche a rischio di contraddire perfino le premesse culturali di tale processo, la incapacità di redigere strumenti efficaci.

Tali aspetti positivi e negativi producono effetti su due diversi fronti: i primi, prevalendo sul piano culturale rispetto alle posi- zioni estetizzanti, diventano ben presto elementi diffusi e perfino canonici sia della formazione dei tecnici della pianificazione che della strumentazione urbanistica di migliore qualità; i secondi, la cui influenza si ripercuote sugli aspetti operativi, sono causa della mancanza di consequenzialità tra analisi e progetto, della sostanziale rinuncia a risultati concreti in cambio di posizioni di ‘testimonianza’, della contemporanea deriva cui viene lasciata la città consolidata non storica e le periferie. Pre- domina, in quella fase, una sorta di ammissione di incapacità attuale di “produrre città” che conduce a considerare la città contemporanea irrecuperabile per quanto riguarda rappresentatività e vivibilità, per esempio e, di conseguenza, abbando- nata a sè stessa, per rifugiarsi nella città fatta da altri in altre epoche e alla quale si riconosce una superiorità indiscutibile.

127 127 Queste riflessioni sul dibattito culturale, però, non devono far dimenticare un grande risultato che il movimento per la tutela dei centri storico-artistici ottenne sul finire degli anni ’60: il riconoscimento, con la Legge Nazionale L. 6 Agosto 1967, n. 765 del centro storico come zona territoriale omogenea votata prevalentemente alla conservazione. Si tratta di un risultato di grandissimo rilievo il quale tuttavia, per i limiti di cui si sta parlando, avrà nei decenni e fino a oggi una interpretazione prevalente di vincolo passivo tale, cioè, da limitare i danni (sostituendo a quelli prodotti dalla trasformazione legale, quelli derivanti da trasformazione abusiva o dall’abbandono), ma non da avviare, se non di rado, un riuso dei quartieri antichi consapevole e inserito nelle dinamiche urbane complessive.

Dal punto di vista metodologico vi è un uso sistematico dell’analisi morfologica e tipologica in stretta relazione con la sud- divisione proprietaria del suolo, con l’obiettivo di individuare caratteristiche quantitative e qualitative delle diverse forme di degrado cui il centro storico è soggetto, da quello edilizio (in termini di cattiva conservazione e inadeguatezza del patrimo- nio esistente), a quello demo-economico e funzionale, a quello legato ai problemi dell’accessibilità e della mobilità. L’obiettivo principale, che è quello della conservazione della struttura sociale e demografica nel quadro di un riposiziona- mento della funzione urbana e territoriale del centro storico, è ancora fortemente influenzato dalla cultura politica dell’epo- ca, ma appare sufficientemente immune da eccessivi ideologismi che altrove erano dominanti.

Le vicende appena raccontate mostrano come l’“invenzione” dell’analisi tipo morfologica, se da un lato ha degli immediati e perduranti riscontri nell’attività professionale e nella produzione disciplinare italiana, dall’altro, per ragioni a essa esterne, trova a lungo riscontro solo in una parte dell’attività urbanistica, quella relativa al recupero dei centri storici e non in quella parte, altrettanto importante, del ridisegno urbanistico di pezzi di città a vario titolo “deboli” (Nigrelli, 1999). Quando que- sta presa di coscienza avverrà, avrà avvio quella fase che è stata chiamata della terza generazione dell’urbanistica.

Fig. 2.6 e Fig. 2.7 – Le analisi tipo - morfologiche:

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