Il tentativo di individuare le caratteristiche comuni a tutta una serie di piani che, autonomamente, cominciano ad affrontare delle problematiche inedite e di spiegare quali fossero le cause di questo rinnovamento di fatto dell’urbanistica è attribuibile, seppur con diverse caratteristiche, principalmente all’opera di Bernardo Secchi e di Giuseppe Campos Venuti. La proposta di lettura della recente storia urbanistica italiana, che conduce a una tale definizione, ha avuto un grande successo al punto da poter essere oggi considerata pressoché “canonica”, ma deve questa sua diffusione alla risonanza datale dalla rivista “Casa- bella” più che a una monografia, la quale, peraltro, fu pubblicata dopo qualche anno (Nigrelli, 1999).
Campos propone una periodizzazione dell’urbanistica italiana di tipo non tradizionale, cioè non basata sulla definizione di precisi intervalli di tempo che individuano uno o l’altro periodo, ma sulla ricerca di quelle caratteristiche fondanti e condivise da alcuni piani che testimoniano di un certo approccio con la città in una data fase della storia di quella città. Può avvenire, pertanto, che fra le tre generazioni di piani di una città, tradizionalmente pianificata, e le corrispondenti tre generazioni di piani di una città abitualmente poco incline alla pianificazione e al rispetto delle regole, intercorrano lassi di tempo anche non indifferenti. Una periodizzazione di tale genere, evidenzia la differente filosofia dei piani, il taglio diverso, ma soprattutto rende conto del ruolo e degli obiettivi che all’urbanistica si attribuiscono in un luogo in una data epoca storica, oltreché del rapporto che una data società (e in particolare la classe dominante) intrattiene con la città nel medesimo periodo.
Di una nuova generazione di piani aveva già parlato proprio Secchi nel 1983 individuando, nella necessità di confrontarsi con un territorio urbano per lo più già definito, il nuovo panorama in cui la disciplina si stava muovendo (Secchi, 1983). Questo nuovo quadro derivava dall’esaurirsi delle prospettive di crescita indiscriminata che implicava la rideterminazione degli obiettivi dei piani e un’“attenzione ai luoghi”, tra i quali si sarebbero dovute operare delle selezioni.
Un tale sviluppo è solo in parte conseguente alla situazione, per molti versi inedita, che caratterizza le città italiane dopo la grave crisi petrolifera del 1973 e la violenta e improvvisa presa di coscienza di massa della finitezza della risorse. I fattori che influirono furono senz’altro: la profonda ristrutturazione della società italiana nel suo complesso e la crescente attenzione ai temi della tutela dell’ambiente che condussero ad una situazione caratterizzata dal crescente peso delle aree dismesse di origine prevalentemente industriale; i fenomeni di espulsione degli strati deboli della popolazione dai centri delle città conse- guenti alla loro selvaggia terziarizzazione; un rinnovato interesse per i mezzi di trasporto pubblico legato anche alla crescita dei problemi di inquinamento acustico e atmosferico; una crescente richiesta di verde e attrezzature per il tempo libero nella città consolidata; una altrettanto pressante richiesta di attrezzature terziarie in periferia.
Campos, introducendo in modo più sistematizzato la suddivisione dei piani per generazioni, distingue tra una prima generazione di piani postbellici, “del primo ordinamento urbano”, la cui principale finalità è quella di stabilire un minimo di regole che possa- no guidare la galoppante crescita urbana; una seconda generazione, “dell’espansione urbana”, che è costituita dai piani della razionalizzazione e della dotazione dei servizi sociali; una terza generazione “della trasformazione urbana” che è costituita dai piani che si devono confrontare con la città esistente e i problemi con essa connessi (Nigrelli, 1999). La questione fondamentale è quella del “tema”: dentro le generazioni vengono collocati piani che utilizzano metodi differenti, che implicano diverse scelte anche ideologiche, ma che hanno in comune il porsi certe questioni. Così tra i piani della prima generazione vengono distinti quelli “accademici” e quelli “razionalisti”, che tentano l’applicazione dei principi della Carta d’Atene; tra quelli della seconda generazione vengono collocati sia i piani “razionalizza tori”, che non prendono apertamente posizione contro la struttura immo- biliare, sia i piani “riformisti” che si pongono il problema di contrastare lo strapotere contrattuale degli intestatari delle rendite urbane. Proprio nell’ambito dell’urbanistica “riformista” Campos colloca i piani della terza generazione, quasi fossero uno sboc- co naturale di quell’approccio che aveva condotto a battaglie (più politiche che disciplinari) per la dotazione, uniformemente distribuita sul territorio comunale, delle attrezzature sociali pubbliche, per la non segregazione delle classi lavoratrici rispetto a quelle più abbienti (integrazione dei quartieri di edilizia pubblica), per la tutela dei centri storici dagli incombenti sventramenti. I piani della terza generazione sviluppano le riflessioni sulla qualità urbana che erano state precedentemente interpretate in un’otti-
129 129 ca meramente quantitativa, di dotazione minima di standard, per puntare con decisione a una qualità urbana più immateriale. Essi prendono atto del fatto che “sono finite le grandi spinte che per oltre un ventennio hanno fatto saltare, per gli interessi in gioco, ogni possibilità di pianificazione reale, facendo individuare nella crescita indiscriminata anche i valori dello sviluppo e del benessere (e nell’urbanistica una scomoda modalità frenante) scatenando ogni amministrazione in una competitività giocata sulla massima offerta di suoli” e prendono atto che “il piano urbanistico che avrebbe dovuto controllare lo sviluppo in apparente contrapposizione con gli interessi locali, non ha quasi più nulla da frenare; al contrario ha da individuare nuove occasioni di sviluppo, nuove potenzialità da costruire attorno al tema della qualità” (Marcelloni, 1985).
Queste potenzialità non sono uniformemente diffuse. Ecco perché la caratteristica fondamentale che rappresenta l’originalità dei pia- ni di terza generazione sta nel fatto che “questi si presentano chiaramente come strumenti di una azione differenziata, cioè indirizzata con intensità diseguale sui diversi contesti del territorio comunale. I nuovi piani indicano esplicitamente quali funzioni e aree assume- ranno una funzione strategica nella trasformazione del sistema urbano; mentre per il rimanente tessuto, insediato e non, viene appli- cato un metodo di gestione urbanistica meno apertamente mirato, non essenziale anche se omogeneo al processo di trasformazione. Non è tanto una questione di priorità temporali, quanto una indicazione di priorità qualitative: che potranno anche essere ritardate nel tempo, ma che, quando arriveranno, daranno un apporto decisivo alla trasformazione prefigurata” (Campos Venuti, 1987). L’urbanistica della terza generazione si inserisce pertanto in quel più ampio movimento di rinnovamento che coinvolge l’Europa dalla metà degli anni ’70 in poi, ma assume, per la specificità della situazione nazionale, i caratteri di prodotto dello scontro culturale tra i fautori della pianificazione come unico metodo di gestione corretta della città e del territorio, e i sostenitori della deregulation. Per essere più precisi è la risposta dei pianificatori a una nuova domanda della società cui altri pensano di ri- spondere con la deriva liberistica senza controllo.
Quello che colpisce di tutto il dibattito sui piani della terza generazione, se paragonato ai dibattiti sviluppatisi in Francia, è il taglio totalmente diverso delle riflessioni. Se in Francia si procede verso un approfondimento da un lato dell’elaborazione cul- turale e dall’altro delle tecniche, in Italia, il livello si mantiene molto più sul piano ideologico, sul ruolo del piano nella società contemporanea, anche quando si tratta di descrivere alcuni strumenti urbanistici.
In realtà i due insieme confrontati, quelli delle riflessioni francesi sulla composizione urbana e sul progetto urbano, e quelli del dibat- tito italiano sui piani della terza generazione non sono omogenei, non solo perché i protagonisti sono da un lato architetti (o meglio “progettisti urbani”) e dall’altro urbanisti, ma anche perché del tutto diversa è, come è stato già detto, l’impostazione culturale. In Italia l’attenzione non si concentra sulla città come fatto fisico, ma sullo strumento generale, il piano comunale, come sede in cui vengono operate le scelte per la città e nella quale, pertanto, si confrontano le differenti politiche urbane; per questo motivo l’atten- zione sul prodotto degli strumenti, in primo luogo attuativi, è molto inferiore e non si sviluppa un dibattito come quello francese. La differenza di oggetto e la conseguente differenza di scala derivano, secondo il parere di Fausto Carmelo Nigrelli, dalla par- ticolare situazione politico istituzionale e culturale in cui l’Italia si viene a trovare a partire dall’inizio degli anni ’80: “in relazione alla gestione del territorio emerge la mancanza di una base comune, condivisa e non discutibile, a partire dalla quale elaborare le ipotesi di sviluppo; più esplicitamente, non tutti riconoscono la necessità della pianificazione e non tutti, di conseguenza, riconoscono a uno strumento, il piano, la sua essenzialità al di là dei contenuti, dell’impostazione che a esso può essere data”. Pertanto gli sforzi degli urbanisti in questa fase storica negativa per l’urbanistica italiana restano concentrati sulla difesa della legittimità dello strumento e, per questo, restano spesso ancorati a posizioni, appunto, ideologiche, perpetuando così una delle caratteristiche tipiche dell’urbanistica italiana che, in occasione del Congresso 1983 dell’INU, aveva spinto Secchi a rimprove- rare gli urbanisti italiani per avere “sempre seguito una particolare strategia culturale e politica che li ha portati a rappresentare la propria attività come tesa a dare soluzione a problemi che riguardano la società nel suo complesso” (Secchi, 1983b). A partire dal 1987 fino al 1993, si assiste ad una sempre maggiore perdita d’importanza della questione morfologica che, rico- nosciuta come fondamentale all’inizio proprio perché la pianificazione di nuovi insediamenti non più periferici, marginali all’ag- gregato urbano, ma interni ad esso, propone con forza il tema, trascurato nel passato, dell’integrazione con il tessuto della città esistente, a qualche anno di distanza viene ricordata solo come occasione per fornire copertura culturale alla deregulation.
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