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4. Che cosa significa “design del testo”?

4.1 L’impostazione teorica del design di Bonsiepe

Bonsiepe (1997) ha cercato di trattare in una conferenza dal titolo “Design – the blind spot of theory or […] Theory – the blind spot of design” il difficile rapporto scambievole tra scienza e design come punto di partenza di un specie di ponte orientato teoricamente. Il punto di partenza della sua riflessione è il seguente “non-rapporto” tra linguistica e tipografia (questo viene esteso a un altro punto ma anche a una retorica visuale e verbale, cfr. Bonsiepe 1996, 85ss.):

E’ sorprendente che nella regola della tipografia venga data poca attenzione alle scienze linguistiche. Evidentemente lo scritto e la tipografia che ne segue vengono compresi solo come un doppio della parola visibile e secondario. Quindi, la tipografia deve, considerandola sempre, apparire come un contenitore passivo, come una trasposizione della parola in un mezzo visivo.

A differenza di questa indifferenza nei confronti di un campo centrale della lingua viene qui fatta la proposta di prendere la tipografia e l’organizzazione tipografica come elemento costitutivo del testo e della sua interpretazione (Bonsiepe 1996, 80).

La motivazione di Bonsiepe per la sua proposta parte dalla seguente premessa:

L’organizzazione grafica è da intendere sostanzialmente più di un servizio occasionale e quindi come una categoria centrale della lingua […]. Quando la lingua rende riconoscibile la realtà, allora la tipografia da parte sua rende percettibile la lingua come testo che è anche costitutivo per la comprensione (Bonsiepe 1996).

Su questa base Bonsiepe cerca di dare una definizione teorica del design a una connessione tra le relative “macchie cieche” di un punto di partenza. Egli per di più ricorre alla distinzione heideggeriana di “presente” (“present-at-hand”) e “a portata di mano” (“ready-to-hand”) e determina il dominio del design come rapporto di trasformazione tra i due:

Design is the domain of trasforming present-at-hand into ready-at-hand. The notion of ready-to-hand is constitutive of design – and in this central aspect it differs from both art and sciences, constituting a domain of its own right. Borrowing a notion from computer sciences, I call this domain “interface”. I interpret design as interface design, that is: a domain where the interaction between users and artifacts is structured, both instrumental physical artifacts in form of products and semiotic artifacts in form of signs. Admittedly, each instrumental value is the core for effective action. Interface is the central concern of design activities (Bonsiepe 1997, 2)4.

Adesso non è certamente cosa da tutti accettare come fondamento d’illustrazione proprio il concetto di Heidegger. Il sospetto è che Heidegger stesso sia bisognoso di spiegazioni, - solo già alla base del suo gesto etimologizzante e del suo ductus linguistico – non è da respingere. Non di meno vale la pena di seguire le connessioni di questa distinzione: senza voler entrare in una esegesi essere-tempo dettagliata (Heidegger 1986, 66ss.) sembra essere innanzi tutto un buon punto di partenza la categoria delle “cose” (Heidegger 1986, 68s.): Stanley Kubrik ha trasformato metaforicamente e in modo prototipico questo concetto nel suo film “2001,

4 [N.d.T in inglese nel testo originale] Il design è il dominio del trasformare il present-at-hand

in ready-at-hand. La nozione di ready-at-hand è costitutiva del design – e in questo aspetto centrale esso differisce sia dall’arte sia dalla scienza costituendo un dominio del suo proprio diritto. Il prendere a prestito una nozione dalle scienze del computer, lo chiamo “interfaccia”. Interpreto il design come design interfacciale, cioè: un dominio dove l’interazione è strutturata tra gli utenti e gli artefatti, sia gli artefatti strumentali e fisici in forma di prodotti e gli artefatti semiotici in forma di segni. Per ammissione, ogni artefatto strumentale ha anche una sfaccettatura semiotica, ma non di meno il valore strumentale è il nucleo per l’azione effettiva. L’interfaccia è il rapporto centrale delle attività del design.

odissea nello spazio”. Una delle nostre priorità scopre nella mischia che si può utilizzare una delle molte ossa sparse come un’arma (come delle “cose”). Le ossa (o le pietre) erano già “pronte”; come armi (o come un martello), in altre parole come delle “cose”, vengono prima “a portata di mano”, quando si riconosce il loro carattere “per”. Questo vale anche per le opere da creare come qualche testo:

L’opera prodotta come il perché del martello, della pialla, dello spillo ha dalla sua parte il modo di essere delle cose. La scarpa prodotta è da portare (materia per le scarpe), l’orologio è costruito per rilevare il tempo. L’opera vista distintamente nei rapporti trattati – che si trova nel lavoro – può incontrare già nella sua utilità fondamentale attinente il perché della sua utilità. L’opera nominata ha dalla sua parte solo la base del suo utilizzo e della connessione di rimando scoperta in ciò da ciò che esiste (Heidegger 1986, 70).

A trasmettere una lingua si può dedurre il seguente parallelismo: la “lingua” ci è “data” come “langue” o come “competenza linguistica” dopo l’acquisizione linguistica mirata e dopo quella scolastica allo stesso tempo controllata. Dal modo di questo “esserci” rendiamo diversa la lingua con il parlare e lo scrivere “bene” o funzionale e adeguato come le cose “a portata di mano”. Com’è riconoscibile, la distinzione di Heidegger è una dicotomia corrente possibile nella linguistica tra langue e parole, tra competenza e performance o tra tipo e token (cioè tipo e gerarchia). Una volta si trascurava la motivazione ontologica della priorità del “a portata di mano” di fronte al “presente” (cfr. Heidegger 1986, 71 e segg), poi abbiamo a che fare per Heidegger con una distinzione che può essere descritta e riferita alla lingua in un primo passo come differenza di capacità (competenza linguistica) e abilità linguistica.

L’“interfaccia” tra la capacità linguistica da una parte e o meglio le abilità linguistiche e di scrittura dall’altra è tradizionalmente l’oggetto della retorica, della stilistica e recentemente dello studio ortografico e

naturalmente della grafemica/tipografia. Dal punto di vista dell’accenno influenzato da Bonsiepe si tratta nella disciplina nominata della domanda su come noi possiamo produrre in un processo di creazione (orale o scritto) dalla nostra lingua biologicamente e socialmente “presente” prodotti verbali, che poi sono “a portata di mano” per le funzioni concrete. Per quanto riguarda questa definizione, adesso, si può stabilire un collegamento diretto con l’agire stilistico, come lo descrive la Sandig considerando l’accenno ispirato etimologicamente e da lei perseguito:

L’informazione sulla situazione, sull’atteggiamento e inoltre l’aspetto della motivazione si fanno strada fino alle realizzazioni dell’azione, esse si dimostrano in queste. Per questa ragione l’azione viene toccata dalla concreta situazione nell’esecuzione e nella realizzazione (Sandig 1986, 44).

Da tutte le problematiche esegetiche e ordinate non sembra essere completamente errato, secondo Bonsiepe, interpretare il design come dominio che può essere colmato allo stesso tempo tramite le attività per l’organizzazione del compimento. La presente lingua ha già certamente il carattere dei segni. Ma prima nel processo dell’organizzazione linguistica e stilistica del discorso o dello “scritto” sorge una nuova e genuina opera di segni, che – se è un testo – ha sempre anche un lato visivo relativo alla percezione. Come Bonsiepe può mostrare nel suo libro “interfaccia, comprendere nuovamente il design” (1996), la retorica visiva collegata con il design ha influito sulla nostra ricezione del testo e sulla formazione della comprensione.