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2.1 – Premessa

In questo capitolo si passano in veloce rassegna i principali approcci all’analisi dei processi di internazionalizzazione che rappresentano un fenomeno estremamente rilevante nei moderni sistemi economici. In modo particolare ci si soffermerà sull’internazionalizzazione delle R&S, illustrandone le caratteristiche, i fattori e gli incentivi che spingono un’impresa a delocalizzare le ricerca in altri paesi. Verranno illustrati i metodi per misurare questo particolare tipo di internazionalizzazione e le diverse tipologie che ne conseguono, con particolare riferimento agli investimenti asset-seeking, asset-exploiting e asset-augmenting. Saranno poi mostrati, con l’ausilio di grafici e tabelle, i paesi e i settori dove la R&S si internazionalizza maggiormente.

2.2 – Brevi cenni sulle teorie dell’internazionalizzazione

L’internazionalizzazione delle attività industriali consiste nella tendenza alla crescita delle attività d’impresa cross-border, che possono includere investimenti, commercio internazionale, alleanze strategiche per lo sviluppo di prodotti, produzione, marketing, outsourcing e offshoring7. La forma più elementare di internazionalizzazione è rappresentata dalle esportazioni: il commercio è, infatti, il modo più antico, nel quale costi e rischi sono abbastanza contenuti. Accanto a questa forma basilare di internazionalizzazione ve ne sono poi altre 2. La prima è rappresentata dalle nuove modalità innovative, le cosiddette non-equity, che si sostanziano senza che un’impresa entri in partecipazione in un’altra come avviene ad esempio per gli accordi di collaborazione di tipo tecnico, produttivo e commerciale con altre imprese estere, con lo scambio di licenze, marchi e brevetti, con programmi di penetrazione commerciale nei

7 L’outsourcing e l’offshoring sono 2 modi differenti per attuare la delocalizzazione. Nel primo caso un’impresa affida un servizio a terzi che prima veniva svolto dalla stessa impresa direttamente, mentre il secondo tipo sposta lo svolgimento di un’attività dell’impresa dal paese dove ha la sede, ad un altro dove ad esempio i costi della manodopera sono inferiori, ma è sempre l’impresa stessa a svolgere l’attività.

mercati esteri. La seconda è costituita dalle forme equity come gli investimenti diretti esteri (IDE) (Mazzenga, 1998). Questa forma di internazionalizzazione richiede un’effettiva partecipazione alla gestione delle attività dell’impresa. Sono un tipo di investimento internazionale di lungo periodo effettuato da un soggetto residente in un paese verso un altro paese. Ci si può rivolgere all’estero per sfruttare delle economie di scala, quindi verso dei potenziai mercati, oppure per sfruttare dei vantaggi di localizzazione, come avviene, ad esempio, per il lavoro a basso costo. Gli IDE sono dei flussi di capitale che si spostano dal paese di origine a quello ospite dove vengono investiti allo scopo di acquisire un’impresa già esistente, attraverso fusioni o acquisizioni, o per crearne una nuova. Quest’ultimo caso viene detto greenfield investment, che sta ad indicare l’assenza di capacità produttiva preesistente, mentre nel primo caso si registra solo il cambiamento di parte o tutta la proprietà dell’impresa acquisita, ma questa forma rappresenta il 70-80% degli IDE totali (Ietto-Gillies, 2005).

Si possono distinguere, inoltre, 2 tipi di internazionalizzazione produttiva:

- attiva, nella quale sono le imprese nazionali ad effettuare l’espansione produttiva all’estero;

- passiva, data dalla presenza nel paese di IMN estere, che favorisce comunque la crescita locale, contribuendo all’allargamento e al consolidamento della base produttiva, in termini di investimenti e di occupazione, trasferiscono nel paese ospite tecnologie, competenze, capitale umano, beni intermedi, in modo diretto e indiretto, per effetto di spillovers8 o dei rapporti instaurati con le imprese indigene (Mariotti, Mutinelli, 2002).

L’internazionalizzazione comporta costi e rischi considerevoli, soprattutto quando le imprese non dispongono delle informazioni necessarie per conoscere e controllare mercati lontani e soprattutto diversi dai propri.

E’ importante analizzare le motivazioni che portano un’impresa ad internazionalizzarsi, innanzitutto occorre distinguere tra processi offensivi e difensivi.

Negli offensivi le strategie di espansione internazionale sono di tipo pro-attivo, cioè vengono decise per attuare obiettivi di crescita o di conquista di nuovi vantaggi

8 Gli spillovers o esternalità sono dei trasferimenti volontari o involontari di tecnologia, conoscenza o di tipo pecuniari che passano dal paese che effettua l’investimento a quello che lo riceve.

competitivi. Sono difensivi, invece, quelli realizzati come reazione alle azioni di competitori che possono ledere la posizione di mercato delle imprese.

Le motivazioni che spingono entrambe le tipologie possono essere diverse; ad esempio un’impresa può andare alla ricerca di risorse, oppure di un mercato di sbocco per i propri prodotti, o cercare una maggiore efficienza o anche per motivi strategici. Si deve aggiungere, inoltre, che le diverse politiche di promozione o avversione da parte dei governi del paese d’origine delle IMN e dei paesi ospitanti influiscono molto sulle decisioni di investimento all’estero.

Ci si limita di seguito a richiamare alcuni dei principali filoni di pensiero in tema di internazionalizzazione delle imprese (cfr. Mariani 1999 e Ietto Gillies 2005 per recenti rassegne della letteratura)

Il contributo fondamentale di Hymer (1960) spiega l’esistenza della multinazionale come risposta alle imperfezioni strutturali nei mercati, che consentono all’impresa di ricoprire una posizione da monopolista riuscendo così ad internazionalizzarsi.

La teoria dei costi di transazione o dell’internazionalizzazione assume come nella precedente l’esistenza di imperfezioni nei mercati, per cui i costi di transazione sono maggiori rispetto ai costi di coordinamento dell’impresa e la gerarchia finisce per sostituire il mercato. L’internazionalizzazione riduce i costi dovuti alle imperfezioni del mercato, quali asimmetrie informative tra le parti, la loro razionalità limitata, il rischio di comportamenti opportunistici degli operatori e l’incertezza rispetto all’evoluzione dei contratti.

Successivamente si è sviluppato un approccio dinamico alla teoria dei costi di transazione, basato su 3 variabili: la frequenza delle transazioni, la natura del prodotto e la possibilità di realizzare economie di scala nella produzione. Questo modello suppone che le sussidiarie di vendita diventino sussidiarie di produzione e questo renda l’impresa una multi-impianto internazionale.

Nel 1966 Vernon elaborò la teoria del ciclo di vita del prodotto, cioè utilizza l’insieme delle fasi di vita di un prodotto dalla sua comparsa sul mercato al declino dello stesso, per spiegare il fenomeno dell’espansione internazionale delle multinazionali americane del dopoguerra . Viene utilizzato un concetto dinamico di tecnologia, cioè le innovazioni, che sono il vantaggio specifico delle imprese, diventano progressivamente obsolete per i processi di imitazione da parte delle altre imprese. La localizzazione all’estero permette alle IMN di controllare direttamente il mercato e questo garantisce la possibilità di sfruttare più a lungo i propri vantaggi competitivi.

Nel 1973 Knickerbocker elaborò la teoria della lotta oligopolistica. Se nel mercato esistono delle imperfezioni dovute all’incertezza, alla presenza di esternalità, alla realizzazione di economie di scala, al possesso di migliori capacità tecnologiche, diversamente che in situazioni di concorrenza perfetta, le imprese riescono ad utilizzare questi fattori per erigere barriere all’entrata. Per queste imprese l’investimento estero è un modo per combattere i concorrenti.

Una teoria che viene utilizzata come schema generale per l’interpretazione dei processi di internazionalizzazione è il paradigma eclettico di Dunning. Il punto di partenza di questo modello è la presenza di 2 tipologie diverse di fallimento di mercato, la prima relativa alla struttura del mercato stesso, la seconda invece è presente nei mercati dei beni intermedi. In base a questa teoria la scelta di investire all’estero dipende da 3 fattori (OLI):

- ownership advantage: si sostanzia nel possesso o nel facile accesso a vantaggi di proprietà, capaci di generare flussi di reddito, di diritto esclusivo del soggetto economico che li possiede. Questo tipo di vantaggi possono essere tangibili, relativi quindi a risorse naturali, forza lavoro e capitale, oppure intangibili se riguardano conoscenze tecnologiche, capacità commerciali, manageriali, di marketing e imprenditoriali, relative all’assetto organizzativo o all’accesso ai mercati dei beni intermedi e finali;

- location advantage: riguardano il luogo di origine e di utilizzo di vantaggi come l’ambiente politico, legale, istituzionale e culturale, la struttura di mercato e le politiche governative. Ogni paese ha una dotazione differente di vantaggi localizzativi;

- internalisation advantage: a causa dei fallimenti del mercato le imprese possono avere convenienza ad internalizzare il mercato dei vantaggi di proprietà, anziché cederli in uso ad altri soggetti.

L’internazionalizzazione può sempre essere creata come un processo attraverso il quale si sfruttano i vantaggi di proprietà, di localizzazione e di internalizzazione. Quando sono presenti tutti questi vantaggi si sostanzia un investimento diretto all’estero, altrimenti si identificano solo rapporti commerciali quando mancano i vantaggi localizzativi. I paesi mettono in atto delle vere competizioni per attrarre gli insediamenti delle multinazionali all’interno del proprio territorio.

A partire dagli anni ’80 si sono sviluppate le cosiddette “nuove teorie sul commercio internazionale” che iniziavano a considerar l’esistenza delle IMN all’interno del sistema economico. Ad esempio Krugman nel 1985 analizza le economie di scala come determinanti della specializzazione e del commercio stesso, oltre alle diverse dotazioni di fattori. Queste nuove teorie non riescono comunque a spiegare la produzione diretta delle imprese all’estero come metodo di internazionalizzazione in alternativa alle esportazioni.

Nelle IMN viene evidenziato il controllo come fattore distintivo dalle altre imprese uninazionali, le quali producono entro i propri confini nazionali e soddisfano la domanda estera attraverso le esportazioni. Le multinazionali, invece, soddisfano la domanda estera tramite il controllo esercitato grazie agli IDE e quindi con la produzione diretta nel paese straniero.

Il modello di Markusen del 1984 e del 1995 suddivide le imprese tra uninazionali, che sviluppano il commercio internazionale e multinazionali che effettuano, per contro, IDE verso altri paesi.

Le Bas e Sierra nel 2002 hanno svolto uno studio sulle strategie di investimento nella R&S di 345 multinazionali con la maggiore quantità di brevetti registrati in Europa tra il 1988 e il 1996. Queste imprese rappresentano quasi la metà del totale dei brevetti presentati in questo periodo all’EPO e hanno prevalentemente origini americane, europee e giapponesi.

Sulla base di questo studio è stata sviluppata una tassonomia che distingue differenti tipi di IDE in base alla loro finalità (Narula, Zanfei, 2005; Mariotti, Piscitello, 2006):

- asset-exploiting, rappresentano una modalità attraverso la quale si estrae valore economico dalle competenze di cui l’impresa è già in possesso e dunque corrispondono ampiamente alla visione tradizionale dell’organizzazione delle attività innovative. Questi investimenti sono fondamentalmente trainati dalla domanda: quando le imprese desiderano migliorare le modalità di utilizzo delle proprie risorse, sono ad esempio attratte dalla prospettiva di sfruttare i loro vantaggi proprietari su una scala più ampia. Si basano sullo sfruttamento all’estero di vantaggi preesistenti, prima di rivolgersi verso un altro paese, per cui si tratta di un vantaggio ex ante e corrisponde ad esempio a strategie di market-seeking e material resource seeking. I vantaggi ex ante sono quindi delle caratteristiche distintive che le imprese posseggono già nel proprio paese d’origine e questo è anche il punto di partenza dei recenti sviluppi della letteratura sul commercio internazionale;

- asset-seeking, hanno il principale obiettivo di accedere a competenze specifiche che rinforzano la capacità dell’impresa di competere sui mercati esteri. Consentono inoltre di acquisire e internalizzare spillover tecnologici che sono localizzati nei paesi ospiti e che mancano invece nel paese d’origine. L’attività di R&S non viene duplicata nel paese ospite ed è guidata sostanzialmente dall’offerta, in questo caso le multinazionali potrebbero essere più propense ad uno scambio di conoscenza. Si concretizzano quindi nell’accumulo di vantaggi ex post, cioè nella ricerca di conoscenze e competenze che, come si è detto, mancano nel paese d’origine;

- asset-augmenting, si concretizzano nel momento in cui anche il paese d’origine è tecnologicamente forte e si rivolge all’estero per sfruttare ulteriormente i vantaggi preesistenti grazie anche alle peculiarità del paese ospitante. Si potrebbe quindi affermare che gli investimenti asset-augmenting consentono di sfruttare sia vantaggi ex ante che ex post, attuando così scambi di tecnologia in larga misura bidirezionali.

Va considerato che questa classificazione è molto usata per gli investimenti diretti nella ricerca ma può essere ritenuta valida anche per le altre tipologie di IDE (Mariotti, Piscitello, 2006).

Bernard (2003) e Melitz (2004) spiegano che le imprese più produttive si autoselezionano sui mercati internazionali; Melitz estende ulteriormente il modello basato sul legame dell’eterogeneità delle imprese e le esportazioni, considerando un’ampia gamma di strategie di internazionalizzazione e ricomprendendo tra queste anche gli IDE.

Da un lato le imprese che servono i mercati esteri tramite le esportazioni non sostengono i costi fissi, in parte irrecuperabili, che comporta lo sviluppo di una filiale estera. Dall’altro le esportazioni sono legate a maggiori costi marginali, tariffari e di trasporto.

Helpman (2004) dimostra che proprio partendo dal livello di produttività ex ante le imprese svilupperanno strategie differenti a seconda della loro dotazione iniziale.

Hymer afferma che lo sfruttamento di questi vantaggi ex ante permettono di superare le difficoltà dell’essere straniero nel momento in cui ci si rivolge verso un altro paese. La letteratura si è anche interessata ai vantaggi ex post, infatti come si è visto in precedenza Dunning dimostra come i vantaggi di cui dispongono le IMN sono il risultato dell’interazione tra fattori proprietari delle imprese e localizzativi dei paesi ospitanti.

Il prevalere dei vantaggi ex ante o ex post dipende dalle competenze di cui dispone l’impresa e dal contesto del paese ospite se è ricco di opportunità tecnologiche. Dunning

effettua una distinzione simile a quella creata da Le Bas e Sierra, tra 4 differenti tipi di IDE: resource seeking, market seeking, efficiency seeking e asset seeking. I primi 3 sono raggruppabili tra gli asset exploiting, concretizzandosi nello sviluppo di capacità già in possesso delle imprese.

Le “nuove teorie del commercio” sono in continua evoluzione e presentano notevoli differenze, ma tutte hanno inserito tra i soggetti presenti nel modello del sistema economico le IMN, segno che questo tipo di imprese sono divenute un soggetto determinante per lo sviluppo economico mondiale (Zanfei, 2007).

2.3 – L’internazionalizzazione della R&S

Negli ultimi 20 anni gli investimenti diretti delle multinazionali sono cresciuti di circa 10 volte, a fronte di un prodotto mondiale poco più che triplicato. In questo contesto l’Unione Europea ha svolto un ruolo centrale, infatti, come si vede dal grafico 2.1 che riassume la suddivisione geografica dei flussi in entrata di IDE mondiale dal 1980 al 2003, copre oggi la parte maggiore. Mentre all’inizio degli anni ’80 gli Stati Uniti rappresentavano ancora l’area di maggiore attrazione per gli investimenti diretti, tra la fine di quel decennio e la prima metà degli anni ‘90 i flussi diretti verso l’UE (39%) hanno decisamente superato quelli orientati verso il continente nord-americano (21%). Nello stesso periodo, il sud-est asiatico, ed in particolar modo la Cina, ha assunto un peso rilevante nella geografia dei flussi di IDE in entrata (21%).

Gli anni più recenti hanno testimoniato un ulteriore orientamento degli investimenti verso l’UE, anche a scapito delle aree emergenti: tra il 2000 e il 2003, infatti, il 49% dei flussi mondiali di IDE è stato attratto da quest’area. Tuttavia, circa la metà degli investimenti in entrata verso paesi europei durante tale periodo è stato rappresentato da flussi intra-area, ossia tra stati membri (Mariotti, Piscitello, 2006).

Va puntualizzato che l’internazionalizzazione della produzione non implica direttamente per una IMN anche l’internazionalizzazione della R&S, tuttavia la propensione a investire all’estero è correlata positivamente e in modo statisticamente significativo all’intensità di ricerca, alla presenza di imprese di grandi dimensioni, all’età del primo IDE effettuato, che viene utilizzato come proxy dei processi di apprendimento e di imitazione intra-industriale. In alcuni casi si riscontra una simultanea relazione, cioè viene osservata una coincidenza tra le imprese che si internazionalizzano maggiormente

nella produzione e quelle che si internazionalizzano anche nella ricerca, come ad esempio si verifica nelle multinazionali manifatturiere svedesi, nelle quali viene dimostrato che la spesa in ricerca alimenta le vendite nei mercati esteri e queste, a loro volta, facilitano la R&S, creando un circolo virtuoso (Fors, Svensson, 2002).

Grafico 2.1 – Distribuzione geografica dei flussi IDE in entrata nel mondo (1980-2003; %)

Fonte: Basile, Benfratello, Castellani (2005)

La funzione di ricerca e sviluppo rappresenta chiaramente il motore centrale dell’innovazione tecnologica di un’impresa e in quanto tale, oltre ad essere una realtà consolidata all’interno dell’organizzazione, estende i propri confini anche all’estero.

L’internazionalizzazione della ricerca da parte delle multinazionali non è da considerarsi un fenomeno nuovo, visto che le imprese che si espandono internazionalmente hanno da sempre avuto bisogno di adottare le tecnologie localmente per poter vendere con successo i propri prodotti anche nei paesi ospitanti.

Molto spesso le imprese tentano di mantenere la funzione di R&S all’interno della casa madre, nella quale i costi di comunicazione della conoscenza tra i confini nazionali non sono elevati. Questo tipo di costi aumentano con la distanza geografica, economica, culturale e linguistica. Una ragione per la quale non si vuole localizzare la ricerca all’estero

è il mantenimento del controllo sui processi innovativi e sui loro guadagni. Inoltre va considerato anche il regime della proprietà intellettuale dei paesi ospiti, la dimensione delle imprese e la struttura industriale. Il primo passo che compiono le multinazionali per internazionalizzare questa funzione è la dispersione di essa da una localizzazione unica a diverse, nella quali i costi inerenti il trasferimento di conoscenza tacita e il coordinamento della ricerca a distanza non siano insostenibili. Questa decentralizzazione è inevitabile per alcune imprese multi-impianto che sono costrette a condurre R&S dispersa e le nuove tecnologie informatiche riescono a ridurre in parte i costi delle singole unità di ricerca. Uno studio condotto alla fine degli anni ’90, effettuato su 200 IMN americane, europee e giapponesi che effettuavano ricerca offshoring in altri paesi sviluppati, ha rilevato 9 ragioni principali per le quali si internazionalizzava la ricerca:

1. adattamento delle tecnologie estere ai mercati locali;

2. accesso alle capacità del personale di ricerca e processi di apprendimento dai mercati esteri;

3. customizzazione;

4. creazione di vantaggi dallo sviluppo di tecnologie delle compagnie estere;

5. entrare direttamente in contatto con le tecnologie estere;

6. supporto alla produzione locale;

7. conformarsi alle regolazioni per l’accesso ai mercati locali;

8. sviluppare vantaggi derivanti dai programmi pubblici di R&S nei paesi ospiti;

9. evitare un ambiente nel paese d’origine non congeniale alla ricerca.

Le prime 3 ragioni vengono ritenute fondamentali tra le motivazioni che spingono un’impresa a svolgere ricerca all’estero, le successive 4 di media importanza e le ultime 2 sono considerate le meno determinanti per l’internazionalizzazione. Appare evidente che il contenimento dei costi, la disponibilità di manodopera e la necessità di adattare prodotti e processi alle condizioni dei mercati dei paesi ospiti vengono considerate elementi fondamentali, specie nelle industrie relative alle nuove tecnologie. Il set di fattori in realtà è complesso, si possono classificare in 4 distinte categorie:

- fattori pull: sono relativi alla crescita di mercato, alla disponibilità di ampi insiemi di talenti a costi favorevoli e alcuni paesi in via di sviluppo, tra cui l’Asia, emergono come una base produttiva globale per alcune industrie;

- fattori push: dovuti alla mancanza di capacità in categorie specifiche nei paesi d’origine, all’aumento dei costi e della complessità della R&S, alla crescente pressione competitiva che spinge le multinazionali ad innovare sempre maggiormente senza incrementare i costi;

- fattori policy: riguardano gli sforzi dei paesi ospiti per rafforzare i propri sistemi innovativi nazionali, per investire in educazione e per utilizzare incentivi per investimenti mirati;

- fattori enabling: considerano come vantaggi della R&S gli investimenti e le liberalizzazioni di mercato, tengono conto di tutto ciò che rende più realizzabile per le imprese le loro operazioni a livello internazionale, mentre al tempo stesso aumenta la pressione competitiva per le imprese coinvolte (UNCTAD 2005).

L’internazionalizzazione della R&S può essere vista, appunto, come il passo successivo al sistema di produzione globale delle multinazionali. Tuttavia la complessità e la natura tacita della conoscenza rendono particolarmente difficoltosa la frammentazione della ricerca e la localizzazione dei segmenti in differenti luoghi. Proprio questa particolarità del processo di ricerca rappresenta, come si è visto, una motivazione determinate per la decisione di continuare a fare ricerca, effettuare outsorcing o offshoring.

L’internazionalizzazione della R&S può essere vista, appunto, come il passo successivo al sistema di produzione globale delle multinazionali. Tuttavia la complessità e la natura tacita della conoscenza rendono particolarmente difficoltosa la frammentazione della ricerca e la localizzazione dei segmenti in differenti luoghi. Proprio questa particolarità del processo di ricerca rappresenta, come si è visto, una motivazione determinate per la decisione di continuare a fare ricerca, effettuare outsorcing o offshoring.