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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO Carlo Bo FACOLTÀ DI ECONOMIA L INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA R&S. IL SETTORE DEL SOFTWARE IN INDIA

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO

“Carlo Bo”

FACOLTÀ DI ECONOMIA

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN ECONOMIA E COMMERCIO

L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA R&S.

IL SETTORE DEL SOFTWARE IN INDIA

Relatore: Chiar.mo Prof. Tesi di laurea di:

ANTONELLO ZANFEI LAURA PULCINELLI

Anno Accademico 2006/2007

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L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA R&S.

IL SETTORE DEL SOFTWARE IN INDIA

- INTRODUZIONE

CAPITOLO 1 – LA RICERCA E SVILUPPO E L’INNOVAZIONE

1.1 - Premessa

1.2 - Il processo di ricerca e sviluppo 1.3 - Misurare la R&S

1.4 - Gli attori coinvolti nel processo di ricerca 1.5 - Un quadro d’insieme

1.6 - Considerazioni conclusive

CAPITOLO 2 – L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA RICERCA E SVILUPPO

2.1 - Premessa

2.2 – Brevi cenni sulle teorie dell’internazionalizzazione 2.3 - L’internazionalizzazione della R&S

2.4 - Classificazioni e misurazioni dell’internazionalizzazione della R&S 2.5 - Un quadro d’insieme

2.6 - Considerazioni conclusive

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CAPITOLO 3 – STRUTTURA DI MERCATO E STRATEGIE DI

INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA R&S NEL SETTORE DEL SOFTWARE

3.1 - Premessa

3.2 - Il settore del software

3.3 - Le multinazionali del software 3.4 - L’India e il software

3.4.1 – Peculiarità del mercato indiano 3.4.2 –Tendenze in atto in India

3.4.3 - Politiche intraprese dal governo indiano 3.5 - Il distretto tecnologico di Bangalore

3.6 - Considerazioni conclusive

CAPITOLO 4 – INVESTIMENTI ASSET-SEEKING E ASSET-EXPLOITING NEL SOFTWARE IN INDIA

4.1 - Premessa

4.2 - Presentazione delle imprese indiane 4.3 - Presentazione delle imprese americane 4.4 - Calcolo dei “vantaggi rivelati commerciali”

4.4.1 - Calcolo dei vantaggi rivelati commerciali nei paesi d’origine

4.4.2 - Calcolo dei vantaggi rivelati commerciali nello scenario internazionale 4.4.3 - Calcolo dei vantaggi rivelati commerciali in India

4.5 - Analisi dei risultati 4.6 - Considerazioni conclusive

- CONCLUSIONE

BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

Lo scopo che si propone questa tesi è quello di analizzare gli investimenti effettuati nei processi di internazionalizzazione della ricerca e sviluppo dalle multinazionali statunitensi nel particolare settore del software in India. Il presente lavoro si compone di 4 capitoli, oltre all’introduzione e alla conclusione.

Nel primo capitolo verranno presentate le caratteristiche fondamentali del processo di ricerca e i principali indicatori per la misurazione, distinguendo tra quelli di input (riguardanti le risorse utilizzate) e di output (relativi ai risultati conseguiti). La complessità del fenomeno rende difficile anche la misurazione stessa; infatti ciascun indicatore coglie un particolare aspetto del processo, ma inevitabilmente ne trascura altri. Questo tipo di misure sono spesso considerate rilevatori di attività innovativa, mentre va considerato che la R&S ne rappresenta solo una componente. La ricerca infatti è l’input principale per la realizzazione di un’innovazione e la sua ampia disponibilità la rende facilmente comparabile anche a livello internazionale.

Il secondo capitolo tratterà il processo di internazionalizzazione, fenomeno in forte crescita e attuato dalle imprese che tentano di estendere il proprio potere di mercato anche all’estero; molto spesso l’internazionalizzazione della ricerca è la fase successiva a quella produttiva. Dopo una breve rassegna dei principali studi riguardanti la questione, verranno presentati i principali fattori che spingono un’impresa ad internazionalizzarsi nella ricerca e ad effettuare investimenti diretti esteri e alcuni dei metodi utilizzati in letteratura per identificare e quantificare le diverse strategie di investimento delle multinazionali.

Nel capitolo 3 si illustrano le caratteristiche salienti del settore del software, un’industria dai confini incerti, nata intorno agli anni ’70. Fino ad allora infatti i software venivano incorporati nei computer o prodotti per uso proprio da altre industrie. Questo settore presenta numerose opportunità per l’internazionalizzazione della R&S, specie in India. Le particolari caratteristiche di questo paese hanno permesso un veloce sviluppo e attratto molte multinazionali estere che hanno localizzato qui le proprie sussidiarie. Inoltre va evidenziata la presenza di un centro culturale, commerciale ed industriale nel paese:

Bangalore. La città può essere considerata un distretto tecnologico, è definita la capitale dell’information technology (IT) e viene detta la “Silicon Valley dell’India”.

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Infine, il quarto capitolo, analizza le principali imprese presenti in India nel software; ne saranno prese in considerazione 3 di origini indiane e 2 americane. Si costruirà un indice che permetterà di misurare i vantaggi rivelati commerciali e, attraverso questi, la specializzazione commerciale di ciascuna impresa nel settore nel proprio paese d’origine, nello scenario internazionale e in India. Per quanto questo indicatore fornisca indirettamente e solo in parte una misura della specializzazione tecnologica delle imprese, si confronterà tale specializzazione per le multinazionali estere operanti in india con quella di alcune delle principali imprese locali del settore. Si tenterà in tale modo di stabilire se le multinazionali statunitensi effettuano investimenti in India con l’obiettivo di acquisire nuove capacità che mancano nel proprio paese d’origine, oppure per sviluppare ulteriormente quelle preesistenti grazie alle caratteristiche del paese ospitante. In particolare si cercherà di individuare se si tratta di investimenti asset-seeking, effettuati con l’obiettivo di acquisire vantaggi che mancano nel proprio paese d’origine; asset-exploiting, che mirano a valorizzare le competenze preesistenti la fase di internazionalizzazione;

oppure asset-augmenting, che si verificano quando le multinazionali investono nelle aree in cui sono tecnologicamente avanzate con presenza di imprese locali anch’esse specializzate in quelle aree, dando così luogo ad una combinazione di vantaggi sia ex ante che ex post. Le imprese che vengono considerate rappresentano una parte rilevante della realtà presente nel settore del software indiano, ma va sottolineato che un quadro più completo dovrebbe prendere in considerazione anche imprese di dimensioni minori, sicuramente presenti nel settore in India ma per le quali non si dispone di dati.

Come si avrà modo di evidenziare, il settore del software indiano registra una forte attrattività degli investimenti esteri che potremmo definire asset-augmenting, ovvero della tipologia che maggiormente si presta a generare spillover in entrambe le direzioni, dalle multinazionali estere verso le imprese locali e viceversa. Ciò riflette in gran parte il forte dinamismo degli investimenti in ricerca in questo paese e le politiche che il governo ha saputo intraprendere con l’obiettivo di attrarre multinazionali estere sul proprio territorio.

Questo ha consentito al paese di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità che si sono presentate nel corso degli anni derivanti dall’intensa interazione sul piano tecnologico tra le multinazionali di proprietà indiana e quelle estere e ha reso il settore del software un centro di eccellenza a livello mondiale.

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CAPITOLO 1 – LE ATTIVITÀ DI RICERCA E L’INNOVAZIONE

1.1 – Premessa

In questo capitolo saranno presentate le caratteristiche fondamentali della funzione di ricerca e sviluppo (R&S), una tra le più importanti attività economiche. Saranno illustrati alcuni metodi per misurare i risultati della ricerca ed in particolar modo si presenterà il brevetto come misura di output innovativo. La R&S è solo una componente dell’attività innovativa, ma rappresenta un indicatore ampiamente disponibile e quello maggiormente comparabile a livello internazionale dei processi innovativi industriali.

Saranno illustrati gli attori coinvolti nel processo di ricerca che compongono il sistema innovativo nazionale e il ruolo fondamentale ricoperto dalle imprese multinazionali, le uniche istituzioni che possono controllare ed effettuare il processo innovativo a livello globale. Infine sarà delineata la situazione mondiale nella ricerca con un breve approfondimento relativo all’attuale contesto europeo e agli obiettivi futuri da raggiungere.

1.2 – Il processo di ricerca e sviluppo

Il processo di ricerca e sviluppo è composto da un insieme di attività teoriche e/o sperimentali svolte da ricercatori e tecnici. Gli scopi sono molteplici: accrescere le conoscenze sui fenomeni della natura, sulle tecniche, e utilizzare il tutto per nuove applicazioni. La R&S rappresenta un’attività organizzata e formalizzata da parte delle imprese e di altre organizzazioni, finalizzata all’introduzione di innovazioni nel sistema economico e alla crescita del paese attraverso il rafforzamento della competitività del sistema e l’aumento dell’occupazione. Nella definizione data dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nel Manuale di Frascati la R&S comprende il lavoro creativo, condotto su base sistematica, per l’aumento del patrimonio di conoscenze nella realizzazione di nuove applicazioni (Sirilli, 2000). La funzione multidimensionale della R&S è finalizzata a generare e diffondere nuove conoscenze utili alla realizzazione di processi e prodotti innovativi in un dato ambiente e comprende 2 gruppi fondamentali di attività:

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- di ricerca: comprende l’insieme degli studi, delle analisi, delle elaborazioni e delle stime volti ad incrementare le risorse di conoscenze sia scientifiche che tecniche in possesso dell’impresa;

- di sviluppo: rappresenta il prosieguo dell’attività di ricerca e consente di selezionare in modo crescente le innovazioni attraverso una continua verifica sperimentale e la realizzazione dei prototipi, delle prime serie di prova fino al piano operativo di fabbricazione sistematica.

E’ possibile poi suddividere l’attività di ricerca in 2 ulteriori parti: la ricerca base e la ricerca applicata. La prima è definita come un’attività che mira all’ampliamento delle conoscenze scientifiche e tecniche non connesse direttamente ad obiettivi industriali e commerciali; è svolta prevalentemente dalle università e dagli enti pubblici di ricerca.

Diversamente quella applicata utilizza le conoscenze scientifiche derivanti della ricerca di base o genera nuove conoscenze tecnologiche per la creazione di nuovi prodotti o processi produttivi. Lo sviluppo, che di solito segue queste 2 fasi, riguarda la fase più a valle della ricerca e consiste nella effettiva realizzazione del nuovo prodotto o processo ed il suo sfruttamento commerciale. Va tenuto presente che le 3 attività non sono necessariamente sequenziali e, soprattutto, che per la riuscita dello stesso non tutte sono necessarie (Malerba, 2000).

L’attività di R&S è caratterizzata dalla presenza di forte intensità di conoscenza, quindi il ruolo delle risorse immateriali, delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie è primario. Inoltre il processo di ricerca è caratterizzato dalla presenza di un elevato rischio economico in quanto si sostengono anticipatamente dei costi per ottenere dei potenziali risultati che non sempre è possibile sfruttare dal punto di vista economico. In quest’ottica si inserisce la distinzione tra invenzione ed innovazione: la prima è una nuova idea, un nuovo sviluppo scientifico oppure una nuova tecnologia che non è stata ancora realizzata tecnicamente e materialmente, mentre la seconda è la realizzazione dell’invenzione stessa in un nuovo prodotto o processo produttivo ed il suo sfruttamento per fini commerciali.

La R&S è l’attività meno frammentabile dei processi economici perché necessità delle conoscenze strategiche delle imprese e perché spesso richiede un intenso scambio di conoscenza tra utilizzatori e produttori in un gruppo localizzato, la maggior parte della quale tacita e non codificata. Questa sua particolarità viene in parte superata grazie alle nuove tecnologie informatiche che diminuiscono i costi di ricerca e permettono una migliore circolazione delle informazioni sulle capacità di ricerca che sono disponibili sulla

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rete mondiale. Tra le caratteristiche fondamentali dell’attività di ricerca c’è la concentrazione nel tempo e nello spazio, cioè non ha carattere di diffusità. Dal punto di vista spaziale la R&S è concentrata in un numero ristretto di paesi, regioni, settori e organizzazioni pubbliche. Principalmente la ricerca è fatta dai paesi sviluppati (PS), questi infatti investono oltre l’85% del totale mondiale, mentre quelli in via di sviluppo (PVS) contribuiscono solo per il restante 15% (Sirilli, 2005).

1.3 – Misurare la R&S

I primi tentativi di misurare la R&S risalgono agli anni ’30 nell’allora Unione Sovietica e agli anni ’40 negli Stati Uniti. Tuttavia fu solo negli anni ’50 negli U.S.A. che si iniziò a svolgere una rilevazione regolare sulla R&S ad opera della National Science Foundation. L’OCSE dal 1963 ha adottato il Manuale Frascati per effettuare delle misurazioni su attività tecnico scientifiche (Sirilli, 2000). Va considerata la complessità del fenomeno stesso che rende particolarmente difficile la misurazione, in quanto, in primo luogo non si dispongono di misure omogenee da poter confrontare, ma si devono ricavare da dati molto diversi, correlati tra loro e non sempre disponibili per tutti i paesi o i settori analizzati. La misurazione appare, inoltre, falsata dalle diverse politiche che i paesi intraprendono a sostegno o meno di una determinata attività, classe sociale o settore industriale. Il Manuale di Frascati originariamente realizzato nel 1963 è stato costantemente aggiornato e modificato, la versione corrente è del 2002 ed è la VII edizione. Lo stesso dà una definizione delle attività che rientrano nel processo di ricerca e tenta di quantificare la spesa del personale addetto, effettuando delle misurazioni di carattere economico. Viene inoltre applicata anche alla misurazione delle innovazioni che vengono concettualizzate, cioè alle semplici idee, all’apprendimento, alla creazione di conoscenza, di competenze e capacità. Inoltre va tenuto presente che per essere rilevata statisticamente la ricerca deve avere carattere di continuità e non di occasionalità.

Successivamente l’OCSE inizia ad utilizzare anche l’OSLO Manual1 e 2 nuovi indicatori:

le statistiche sui brevetti e quelle sulla bilancia tecnologica dei pagamenti che fornisce un’indicazione del trasferimento tecnologico da un paese ad un altro.

1 Il documento sviluppato nel 1992 fornisce una comune base definitoria a tutte le rilevazioni sull’innovazione svolte a livello internazionale.

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Utilizzando la spesa effettuata in R&S è possibile calcolare l’intensità della ricerca, cioè il tasso di spesa della R&S come indicatore di output, ottenuto come rapporto tra la spesa in ricerca e le vendite (per le imprese), oppure con il valore totale della produzione o valore aggiunto (per le industrie), o ancora con il prodotto interno lordo (PIL, per i paesi).

Sulla base di questa misurazione dell’intensità di ricerca l’OCSE ha creato una classificazione delle industrie come risulta dalla tabella di seguito.

Tabella 1.1 – Intensità di ricerca nelle industrie

Grado di intensità Tipi di industrie R&S/produzione 0% -1 % Industrie a bassa tecnologia R&S/produzione 1% - 3% Industrie a medio-bassa tecnologia R&S/produzione 3% - 5% Industrie a medio-alta tecnologia R&S/produzione oltre 5% Industrie ad alta tecnologia Fonte: Elaborazione su Smith (2005)

Un’industria nella quale la R&S eccede dell’1% il valore aggiunto in una data area può essere considerata intensiva nella ricerca (Smith, 2005).

Le misurazioni della R&S sono quasi sempre considerate indicatori di attività innovativa anche se questa è solo una misura dell’input innovativo, questo perché la ricerca nella maggior parte dei casi è l’input principale per la realizzazione di un’innovazione. Ad esempio nell’UE a 15 paesi oltre la metà della spesa innovativa totale è destinata alla R&S, anche se presentano una variabilità molto elevata tra loro (Malerba, Pianta, Zanfei, 2007).

In realtà i brevetti rappresentano più un indicatore di invenzione che di innovazione perché alcune tecnologie non sono brevettabili. Gli indicatori di innovazione possono essere suddivisi in 3 grandi gruppi:

- indicatori di performance che misurano l’impatto della ricerca;

- indicatori di input innovativo, calcolano le risorse utilizzate, come la spesa o gli addetti alla ricerca. Il limite di questo tipo di indicatore relativo al fatto che coglie solo le attività innovative formalizzate in laboratori di ricerca, inoltre non è efficace nei settori meccanici, nei servizi e nel software. Questo tipo di misurazione può essere effettuata ex-post, tenendo presente ad esempio la spesa già effettuata oppure ex-ante, considerando le previsioni di spesa per gli anni a venire;

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- indicatori di output analizzano, invece, i risultati conseguiti; principalmente si considerano i brevetti concessi o le domande presentante.

In quest’ottica è utile analizzare più approfonditamente il concetto di brevetto.

L’idea risale ai monarchi del medioevo, i quali conferivano diritti e privilegi in forma di lettere aperte recanti il proprio marchio reale. Si sviluppa successivamente come strumento giuridico atto a stimolare l’innovazione, premiando la scoperta di soluzioni originali di problemi tecnici. Questo tipo di contratto pubblico tra un inventore e un governo garantisce per un tempo limitato, necessario a recuperare gli investimenti fatti, dei diritti esclusivi, ossia di monopolio, per l’applicazione dell’uso dell’invenzione tecnica. In cambio l’inventore deve rendere pubblici i dettagli dell’invenzione che al termine di tale periodo diventano liberamente sfruttabili. Questa formulazione, in teoria, bilancia l’interesse del singolo, cioè il diritto dell’inventore di mettere a frutto i suoi sforzi, con l’interesse pubblico, riguardante l’utilizzo dell’invenzione stessa per migliorare le condizioni collettive. Gradualmente il ciclo economico dell’innovazione si è accorciato, mentre la durata del brevetto è stata estesa a 20 anni. Un’idea per essere brevettabile deve essere attuata in un’invenzione che arrechi un contributo tecnico e che presenti caratteri di originalità e novità rispetto alle preesistenti (Stiglitz, 2006).

Per l’analisi innovativa è possibile utilizzare anche la STI analysis (Science, Technology and Innovation) che si compone di 3 indicatori principali:

1. R&S;

2. dati sui brevetti;

3. dati bibliometrici, che analizzano la composizione e la dinamica delle pubblicazioni e citazioni scientifiche tramite l’indice di citazione scientifica e il database dell’Istituto di Informazione Scientifica.

Esiste inoltre la CIS (Community Innovation Survey) dagli anni ‘90, l’indagine sull’innovazione dell’Unione Europea elaborata dall’Eurostat, che ha il compito di produrre dati comparabili a livello internazionale sulla quantità e la qualità di risorse investite dalle imprese in attività di innovazione. Il CIS è giunto alla quarta edizione L’UNCTAD invece ha creato una nuova misura della capacità innovativa nazionale, l’UNICI, che prende in considerazione 2 dimensioni critiche, l’attività innovativa stessa e la disponibilità di capacità per alcuni particolari attività. Suddivide i paesi in 3 diversi

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gruppi calcolando l’indice di attività tecnologica e l’indice del capitale umano utilizzato come proxy per la difficoltà di misurare direttamente le capacità dei lavoratori. L’indice va da 0 a 1, più il paese ha capacità innovativa, più l’indice si avvicina all’unità. I 2 indici hanno lo stesso peso nel calcolo e nella tabella di seguito sono evidenziate le componenti di ciascun indicatore.

Tabella 1.2 – Componenti dell’indice UNICI dell’UNCTAD

Indici Componenti

Personale addetto alla R&S per milione di persone Brevetti americani per milioni di persone

Indice di attività tecnologica

Pubblicazioni scientifiche per milione di persone Grado di alfabetizzazione elementare della popolazione

Grado di alfabetizzazione secondaria della popolazione

UNICI

Indice di capitale umano

Grado di alfabetizzazione terziaria della popolazione

Fonte: Elaborazione su UNCTAD (2005)

Tabella 1.3 – L’UNCTAD UNICI (2001)

Paese Indice Paese Indice

1 Svezia 0,979 11 Giappone 0,885

2 Finlandia 0,977 12 Nuova Zelanda 0,879

3 Stati Uniti 0,927 13 Svizzera 0,877

4 Danimarca 0,926 14 Islanda 0,876

5 Norvegia 0,923 15 Taiwan 0,865

6 Australia 0,920 16 Francia 0,863

7 Canada 0,907 17 Austria 0,852

8 Gran Bretagna 0,906 18 Germania 0,850

9 Belgio 0,894 19 Repubblica di Corea 0,839

10 Olanda 0,888 20 Spagna 0,819

Fonte: Elaborazione su dati UNCTAD (2005)

Nella tabella 1.3 sono riportati i primi 20 paesi secondo i risultati dell’UNICI nel 2001. I paesi che registrano un indice fino a 0,3 vengono considerati a bassa capacità innovativa, quelli da 0.3 fino a 0,6 a media capacità e sopra ad alta capacità innovativa. L’Italia non è presente perché si attesta al numero 27, ancora tra quelli ad alta capacità. Sorprende la posizione della Cina (74a posizione con 0.358 tra i medi) e quella dell’India all’83 tra i paesi a bassa capacità con 0,285.

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Un altro indicatore è l’indicatore di capacità di settore, il quale analizza la capacità di svilupparsi di un comparto e viene calcolato come media dell’indice di capacità innovativa2 e l’indice di capacità tecnologica3. Da 1 a 2,2 le imprese hanno una discreta capacità di collegamento con il mondo della ricerca. Da 3,8 a 7,4 sono ritenuti valori relativamente bassi e i valori superiori a 9 riguardano le tecnologie mature. Il settore del software ha registrato come capacità di settore un valore di 2, gli articoli di vestiario 11,2.

Questo indicatore è stato ottenuto effettuando una mappatura delle tecnologie e delle competenze delle imprese. Il campione di riferimento era formato da 60 imprese alle quali è stato somministrato un questionario da oltre 80 domande, relative all’anagrafe aziendale, forza lavoro e professionalità, tecnologie, innovazione, rapporti con l’università e i centri di ricerca, formazione e prospettive future dell’impresa.

Si aggiungono anche altre categorie di indicatori come quelli tecnometrici che esplorano le caratteristiche delle performance dei prodotti, i sintetici, sviluppati per classificare i dati più consultati e infine dei database specifici trattati come strumento di ricerca da gruppi di individui. L’utilizzo dei brevetti presenta il vantaggio legato al fatto che gli stessi sono in larga parte pubblicamente disponibili e sostanzialmente omogenei tra i diversi paesi, ma questo metodo comporta anche degli svantaggi e per questo è stato fortemente criticato. In primo luogo non coglie tutti gli aspetti non codificabili della conoscenza e dell’innovazione, inoltre non sempre le imprese hanno incentivo a brevettare le proprie innovazioni. Essi inoltre non misurano necessariamente l’innovazione, in quanto non si traducono sempre in un successo commerciale, indicano comunque la capacità di un’impresa di saper sfruttare una tecnologia o il possesso di una risorsa in un certo ambito tecnologico.

Dalle diverse misurazioni della R&S che possono essere sviluppate conseguono poi diverse classificazioni oltre alla già citata distinzione tra ricerca di base, applicata e sviluppo sperimentale. Ad esempio è possibile ripartire i settori in base alla performance di ricerca tra imprese, governi societari, università (alta educazione) o settori no-profit;

oppure a seconda delle fonti di finanziamento domestiche o internazionali, o agli obiettivi socio-economici da raggiungere o ancora al campo di applicazione della ricerca stessa.

La creazione di nuovi e migliori indicatori è tuttora in corso, specie quelli focalizzati direttamente sull’innovazione. Esistono 2 approcci distinti, quello basato sul soggetto, cioè

2 Questo indicatore identifica 4 gradi di capacità innovativa: perfomer di ricerca, innovatore, finalizzata al miglioramento, subfornitore-esecutore.

3 Le imprese si suddividono per la loro capacità tecnologica tra imprese aventi alta tecnologia, competenze tecnologiche, modesta capacità tecnologiche e bassa tecnologia.

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che si focalizza sull’agente innovatore e quello improntato sull’oggetto che invece analizza l’output del processo innovativo. Ad esempio la Commissione europea ha sviluppato nel 2000 l’EIS (European Innovation Scoreboard o quadro di valutazione europeo dell’innovazione), uno strumento di verifica annuale della strategia individuata dal Consiglio europeo di Lisbona. Tale indicatore valuta e paragona i risultati dell’innovazione dei 25 paesi membri dell’Unione Europea (UE) e di U.S.A., Giappone, Svizzera, Norvegia, Islanda, Bulgaria, Romania e Turchia. L’EIS si concentra principalmente sull’innovazione ad alta tecnologia e fornisce quindi una serie di indicatori nell’intento di quantificare i risultati raggiunti dall’UE, mettendo in luce i punti di forza e di debolezza di ciascun paese membro. Utilizzando anche i risultati del CIS4 (Community Innovation Survey) crea per ogni paese un SII (Summary Innovation Index) basato su 26 indicatori divisi in 5 categorie5, scelti per la loro capacità di rappresentare il processo di innovazione. L’EIS cerca quindi di effettuare una misura del progresso dell’innovazione, cioè la capacità di un territorio di innovare e successivamente l’innovazione raggiunta e viene utilizzato dalla Commissione per l’implementazione delle proprie politiche (UNCTAD, 2005).

Va tenuto presente che ciascuna misurazione rappresenta sempre un’approssimazione della realtà, inoltre, come si è già detto, non sempre la ricerca è una realtà istituzionalizzata per la quale si dispone di informazioni dettagliate e di documenti ufficiali, infatti in vari casi viene svolta insieme e nell’ambito di altre attività. Risulta poi difficile la misurazione della ricerca universitaria e di quella svolta dalle piccole imprese che non hanno strutture ad hoc destinate alla specifica funzione. Va considerato anche il ritardo con il quale i dati vengono resi disponibili: generalmente la media è di 1 o 2 anni.

La ricerca è un fenomeno complesso e la sua misurazione non rappresenta mai un’attività immediata e univoca.

4 La CIS è un’indagine campionaria sviluppata congiuntamente dall’Eurostat e dagli istituti statistici dei paesi membri dell’UE, finalizzata a raccogliere dati sui processi di innovazione delle imprese dell’industria e dei servizi con almeno 10 addetti.

5 Esistono indicatori di input innovation drivers che misurano le condizioni strutturali richieste per la potenziale innovazione, indicatori di input knowledge creation che analizzano gli investimenti in attivo, indicatori di input innovation & entrepreneurship che misurano i livelli di innovazione delle imprese, indicatori di output application, che considerano le performance espresse in termini di lavoro e attività commerciali e infine indicatori di output intellectual property che esaminano i risultati ottenuti in termini di successful know-how.

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1.4 – Gli attori coinvolti nel processo di ricerca

I soggetti che svolgono ricerca in un paese sono molteplici, ciascuno con competenze e ruoli propri. Alcuni svolgono attività di ricerca come fine istituzionale, ad esempio gli enti pubblici di ricerca, altri invece dedicano alla ricerca solo una parte delle proprie risorse, come le imprese. Un ruolo importante è quello delle istituzioni, come Ministeri e Regioni che, attraverso risorse pubbliche, incentivano e sostengono la ricerca e lo sviluppo. In particolare il settore privato (imprese ed istituzioni private no profit) svolge mediamente in Italia il 48,7% dell’attività nazionale di R&S intra-muros, cioè quel tipo di ricerca svolta dalle imprese e dalle amministrazioni pubbliche al proprio interno, con proprio personale e proprie attrezzature. Al settore pubblico corrisponde il restante 51,3%.

L’impresa riveste un ruolo fondamentale nel cambiamento economico e per fare ricerca e innovare abbisogna del sostegno di una serie di attori, infatti senza il contributo delle università, degli istituti pubblici di ricerca, delle politiche pubbliche di sostengo alla R&S e alla diffusione e istituzioni finanziarie non riuscirebbero nel proprio obiettivo. Il ruolo delle istituzioni porta a una concezione dell’innovazione come sistema, cioè come risultato di una serie di relazioni e interazioni tra attori diversi, i quali vi contribuiscono in varia misura con diverse capacità e specializzazioni. L’insieme delle organizzazioni, delle istituzioni e delle infrastrutture di supporto all’attività innovativa delle imprese costituisce un sistema, il cosiddetto sistema innovativo nazionale (SIN). Esso viene definito come la rete di istituzioni nel settore pubblico e privato le cui attività e interazioni introducono, importano, modificano e diffondono le nuove tecnologie. Come si può vedere dalla figura di seguito sono presenti 4 tipi di organizzazioni: le imprese, le università e le istituzioni di ricerca scientifica, il governo e gli intermediari (Malerba, 2000).

Le imprese sono i principali agenti dell’innovazione oggi, ma esse non innovano e imparano in isolamento, esse operano in una complicata rete, formale e informale, composta dalle altre imprese, istituzioni pubbliche di ricerca, università e altri enti che creano conoscenza. Inoltre è bene sottolineare che esse vengono influenzate dalle politiche governative, necessitano di risorse umane e dei fondi del sistema finanziario.

All’interno del sottosistema delle imprese un ruolo fondamentale viene svolto da quelle multinazionali (IMN). Sulla definizione di questo tipo di imprese non vi è un consenso unanime in letteratura, ma ne esistono diverse, ad esempio Caves nel 1982 definisce l’IMN un’istituzione che controlla o gestisce attività produttive localizzate in almeno 2 paesi diversi (Mariani, 1999). Una caratteristica peculiare di questo tipo di

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imprese è la capacità di operare tra diversi paesi in modo indipendente e autonomo in ciascuno di essi. Condizione invece perché un’impresa sia definita IMN è l’essere presente direttamente in diversi paesi non solo attraverso il commercio estero, cioè per il tramite di importazioni o esportazioni. Negli anni ’60 e ’70 venivano considerate istituzioni di tipo quasi coloniale che sfruttavano vantaggi tecnologici su scala globale, monopolizzando il mercato e appropriandosi di rendite nelle economie ospiti. Oggi la visione che si è andata creando delle IMN è progressivamente cambiata, infatti viene riconosciuto il ruolo fondamentale che svolgono nei processi di generazione, adozione e diffusione internazionale della tecnologia (Mariotti, Piscitello, 2006).

Figura 1.1 – Il sistema innovativo nazionale

GOVERNO IMPRESE

UNIVERSITA’

E ENTI DI RICERCA

INTERMEDIARI Uffici per il trasferimento, uffici tecnologici, incubatori, consultenti, parchi scientifici, basi dati, reti di ricerca pubblico-privato, ecc.

Fonte: elaborazione su Malerba (2000)

Attualmente sono presenti oltre 100.000 IMN al mondo, rappresentano il 98%

delle 700 maggiori imprese che investono di più in ricerca e da sole effettuano il 67% della R&S mondiale. In aggiunta a ciò occorre affermare che oltre l’80% delle 700 imprese provengono da 5 paesi: Stati Uniti, Giappone, Germania, Gran Bretagna e Francia e solo l’1% viene dai paesi in via di sviluppo. Come si può vedere dal grafico 1.1 alcune IMN autonomamente investono in R&S più di quanto spendano alcuni paesi sviluppati come

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Spagna, Svizzera o Israele rispetto alla Ford Motor americana ad esempio, anche se la percentuale di imprese multinazionali provenienti dai PVS sono in aumento. Tali paesi rappresentano molto spesso i destinatari delle filiali estere rispetto a configurarsi come paesi d’origine.

Nel grafico 1.2 viene analizzata la composizione industriale delle 700 imprese che investono maggiormente nella ricerca e come si vede gli investimenti sono concentrati in relativamente poche industrie. Più della metà sono in solo 3 industrie (IT hardware, trasporti e farmaceutica e biotecnologie), il settore high-tech è quello che riceve una maggior quantità di investimenti visto che se si considera sia la parte hardware che la software raggiunge il 28% del totale. Inoltre va considerato che all’interno di ogni industria le 2 maggiori imprese che svolgono più ricerca sono responsabili di una quota molto elevata. Le 2 industrie più concentrate sono le telecomunicazioni e i software e i servizi per i computer, rispettivamente con il 58% e il 44%. Nel settore del software le 2 multinazionali che effettuano più R&S sono la Microsoft e l’IBM; nel complesso è quindi possibile affermare che le multinazionali dominano il mercato globale della R&S (UNCTAD, 2005).

Grafico 1.1 – Spesa in R&S di alcune IMN e paesi (2002, miliardi di dollari)

Fonte: UNCTAD (2005)

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Le IMN svolgono attività che vengono definite a “doppia rete”, cioè sviluppano una rete interna ad esse ed una esterna, interconnettendo le attività innovative di un crescente numero di affiliate localizzate in paesi diversi e attraverso questo sviluppano collegamenti anche con imprese e istituzioni estere per creare ulteriori conoscenze e accessi alle risorse locali. Lo sviluppo delle reti interne si concretizza nella creazioni di reti tra le filiali e i centri di ricerca nei diversi paesi che sono coinvolte nella creazione della conoscenza i uso comune dell’IMN. Queste reti convivono con altre di tipo esterne, relazioni cioè intrattenute con imprese e istituzioni sui mercati esteri aventi l’obiettivo di migliorare lo sfruttamento della conoscenza creata e per acquisire nuove competenze (Castellani, Zanfei, 2006; Zanfei, 2007).

Grafico 1.2 – Composizione industriale dei 700 maggiori investitori nella R&S (2003, %)

23%

18%

18%

11%

6%

5%

4%

3%

2%

2% 8%

IT hardware Trasporti Farmaceutica e biotecnologie Elettronica ed elettrica

IT software a servizi per PC

Chimica Aerospaziale e difesa

Eingegneria Telecomunicazioni Prodotti per la cura del corpo e la salute Altre

Fonte: Elaborazione su dati UNCTAD (2005)

La trasformazione delle multinazionali verso una struttura a “doppia rete” comporta la visione delle stesse come “istituzioni ponte”, perché connettono molti sistemi economici innovativi distinti e dispersi geograficamente e sono le uniche istituzioni a produrre valore aggiunto in più di un paese e sono anche le sole a generare le innovazioni in modo globale.

Il ruolo di “istituzioni ponte” viene svolto attraverso lo sviluppo e il collegamento di questi diversi sistemi innovativi ed economici con cui interagiscono e contribuiscono anche alla trasformazione di questi. Le imprese multinazionali sono considerate un bundle of competence, perché hanno al loro interno un insieme di competenze, un portafoglio di

(18)

capacità e anche grazie a queste riescono a far leva sulle peculiarità di ciascun sistema attraverso un programma di ricerca, di ricombinazione e di sfruttamento delle risorse (Mariotti, Piscitello, 2006)

Negli anni ’90 erano presenti circa 37.000 multinazionali nel mondo, con 170.000 filiali estere e oltre il 90% avevano la casa madre localizzata nei paesi sviluppati. Dal 2004 sono aumentate di oltre 70.000 unità con 690.000 affiliate estere, la metà delle quali nei paesi in via di sviluppo. E’ chiara la tendenza in corso, per la quale i paesi sviluppati rimangono i maggiori ospiti per la R&S estera, ma il flusso sta cambiando e si sta orientando versi i PVS (UNCTAD, 2005).

1.5 – Un quadro d’insieme

La spesa globale in R&S è cresciuta rapidamente nel decennio passato, raggiungendo quasi 677 miliardi di dollari nel 2002. La ricerca è fortemente concentrata, infatti nel Nord America viene svolta il 38% di tutta la ricerca mondiale, il 29% in Europa, in Giappone il 15% e il residuo 18% nei restanti paesi secondo dati OCSE. I primi 10 paesi effettuano più dell’80% della ricerca mondiale. Di questi 10 paesi solo 2 sono PVS: la Cina e la Repubblica di Corea, ma negli ultimi anni si sta assistendo ad un inversione di tendenza per cui la quota dei paesi sviluppati è diminuita dal 97% del 1991 al 91% del 2002, mentre quella dell’Asia in via di sviluppo è cresciuta dal 2% al 6% nello stesso periodo. Le stesse modifiche si sono registrate anche nelle innovazioni (misurate in numero di brevetti); infatti dal periodo 1991-1993 al 2001-2003, la quota di brevetti esteri dei PVS è aumentata dal 7% al 17%.

Nel 2003 le 500 imprese europee che facevano più ricerca hanno ridotto la loro quota di un 2% rispetto al 2002 a fronte di una crescita del 3,9% delle 500 imprese non europee che svolgono più ricerca. Le 20 più grandi imprese di questo gruppo svolgono il 37% del totale della ricerca, mentre in quelle europee la concentrazione è molto più alta e arriva fino al 55%. I 4 maggiori settori in termini di investimento in R&S sono l’automobile, la farmaceutica e le biotecnologie, l’IT hardware e l’elettronica, che rappresentano il 64% in Europa e il 68% nei paesi non europei. Germania, Francia e Gran Bretagna insieme raggiungono il 74% degli investimenti delle 500 imprese europee che fanno più ricerca.

(19)

La tabella 1.4 mostra i primi 10 paesi che svolgono più ricerca al mondo (dati del 2002) e mette a confronto i risultati raggiunti con quelli del 1996.

Dal 1991 al 1996 la spesa globale in R&S è cresciuta da 438 miliardi a 576 miliardi di dollari, con un tasso annuo di crescita del 4,4%. In seguito, dal 1996 al 2002 la crescita ha subito un rallentamento, raggiungendo il 2,8% all’anno. In questo periodo a fronte di una discreta crescita da parte di Stati uniti, Canada e Gran Bretagna si contrappone la notevole ascesa della Cina che ha quasi quadruplicato la propria quota.

La tabella 1.5 mostra, invece, le prime 10 economie in via di sviluppo, del sud-est Europa e i paesi del CSI (Comunità degli Stati Indipendenti6). All’interno di questi 10 l’India ha quasi raddoppiato la sua spesa in R&S, tutti gli altri paesi sono cresciuti, fatta eccezione per Taiwan, Brasile e Singapore (UNCTAD; 2005).

Come si può notare l’unica economia che è presente in entrambe le classificazioni mostrate nella tabella 1.4 e nella 1.5 è la Cina, paese in via di sviluppo che rientra con i suoi 15,6 miliardi di dollari tra i primi 10 paesi al mondo che svolgono più ricerca.

Tabella 1.4 – Le prime 10 economie nella R&S al mondo (1996; 2002, miliardi di dollari)

ECONOMIE 1996 2002

Mondo 575,6 676,5

1 Stati Uniti 197,3 276,2

2 Giappone 138,6 133,0

3 Germania 52,3 50,2

4 Francia 35,3 32,5

5 Gran Bretagna 22,4 29,3

6 Cina 4,9 15,6

7 Repubblica di Corea 13,5 13,8

8 Canada 10,1 13,8

9 Italia 12,6 13,7

10 Svezia 8,8a 9,4b

Totale 495,8 587,6

Quota rispetto al mondo (%) 86,1 86,9

a

1995

b

2001

Fonte: Elaborazione su dati UNCTAD (2005)

Per quanto riguarda l’Europa la politica presentata dal Consiglio europeo di Barcellona nel marzo 2002 mira a raggiungere l’obiettivo di destinare il 3% del PIL alla R&S. Questo obiettivo vuole essere raggiunto entro il 2010 per portare l’UE al livello dei paesi più

6 Consiste in 12 dei 15 paesi dell’ex Unione Sovietica, sono esclusi i 3 paesi Baltici, Estonia, Lettonia e Lituania.

(20)

avanzati al mondo nella ricerca, ovvero USA e Giappone. Va considerato che l’ingresso dei nuovi paesi che hanno portato l’UE a 25 membri, ha sicuramente abbassato la media europea. Inoltre è stato introdotto un vincolo, cioè i due terzi della ricerca devono essere finanziati dal settore delle imprese, con una particolare attenzione ai settori delle scienze della vita, delle biotecnologie e delle tecnologie pulite. Nel 2002 l’Europa spendeva solo l’1,99% del PIL per la ricerca rispetto al 2,7% negli Stati Uniti e al 3% in Giappone (Mariotti, Piscitello, 2006).

Tabella 1.5 – Le prime 10 economie nella R&S tra PVS, S-E Europa e CSI (1996;

2002, miliardi di dollari)

ECONOMIE 1996 2002

PVS, S-E Europa, CSI 44,5 57,1

1 Cina 4,9 15,6

2 Repubblica di Corea 13,5 13,8

3 Taiwan 5,0 6,5

4 Brasile 6,0 4,6a

5 Federazione Russa 3,8 4,3

6 India 2,1 3,7b

7 Messico 1,0 2,7

8 Singapore 1,3 1,9

9 Turchia 0,8 1,2

10 Hong Kong 0,7c 1,0

Totale 39,1 55,4

Quota rispetto ai PVS, S-E Europa, CSI 88,0 97,0

a

2003

b

2001

c

1998

Fonte: Elaborazione su dati UNCTAD (2005)

Nel 2005 se si considera l’UE a 15 membri si registra una spesa di 1,91%, se si prende invece in esame l’UE a 25 membri la spesa in R&S sul PIL scende ulteriormente all’1,84% rispetto ad un dato quasi invariato per gli USA e il 3,18% per il Giappone. Per quanto concerne l’Italia la situazione non è particolarmente brillante, infatti si è registrato solo l’1,14% nel 2002 e rimane pressoché invariato fino al 2004. Questo fa sì che l’Italia rimanga uno dei pochi grandi paesi industrializzati a non aver superato la soglia del 2% o in alcuni casi del 3%, infatti il massimo storico italiano registrato è del 1,24%. Tra le cause di debolezza che caratterizzano il paese c’è una struttura industriale fortemente sbilanciata verso settori che non svolgono attività di ricerca e una notevole rilevanza di piccole e medie imprese che non svolgono attività di ricerca formalizzata. Come si vede dal grafico di seguito la media dell’Europa a 15 paesi nel 2000 era notevolmente inferiore al 3%,

(21)

obiettivo da raggiungere entro il 2010, e l’Italia era seguita solo da Spagna, Portogallo e Grecia. Gli unici paesi europei che superavano nel 2005 la soglia nel 3% erano la Finlandia (3,48%), la Svezia (3,86%) e anche gli altri paesi dell’Europa del nord presentano dati superiori alla media. Questa particolarità si ritrova anche nella classificazione dei paesi europei che prende in considerazione il rilievo dei fenomeni innovativi e la diversità nelle competenze e nelle strategie tecnologiche. Si possono così individuare 3 diverse Europe:

- Europa a tecnologia forte: questi paesi dedicano grandi risorse alla tecnologia e alla R&S, inoltre si registra una forte presenza di imprese innovative nei settori più dinamici. Queste imprese concentrano la loro attenzione sulle innovazioni di prodotto che solitamente hanno un effetto positivo sulla crescita e sull’occupazione dei paesi stessi. Tra questi si trovano infatti i paesi del nord Europa;

- Europa a tecnologia debole: l’Italia si trova in questa categoria insieme agli altri paese mediterranei, la quale si caratterizza per una scarsa presenza di imprese innovative nei settori ad alta tecnologia e anche in quelli considerati tradizionali. Le attività innovative sono principalmente concentrate sull’introduzione di nuovi processi, l’acquisto di nuovi macchinari e impianti e quindi la crescita è contenuta;

- Europa povera di tecnologia: qui si trovano i paesi che sono entrati recentemente nell’UE, con sistemi produttivi con attività innovative di ridotte dimensioni, bassa presenza di imprese capaci ad innovare, principalmente interessate all’acquisto di nuovi macchinari e impianti (Malerba, Pianta, Zanfei, 2007).

Ogni anno l’Europa investe in ricerca 120 miliardi di euro in meno rispetto agli Stati Uniti ciò contribuisce ad aumentare ulteriormente il divario e visto che la quota finanziata dalla spesa pubblica è molto modesta, i dirigenti dell’UE hanno assegnato all’industria il compito di sostenere almeno il 67% della ricerca. Per raggiungere gli obiettivi di Barcellona, la spesa per la ricerca in Europa dovrebbe crescere ad un tasso medio annuo dell’8%, ripartito tra un tasso di crescita del 6% della spesa pubblica e un tasso del 9% per gli investimenti del settore privato. Se nel 2010 fossero raggiunti questi obiettivi, si dovrebbe registrare un aumento del PIL del 5% all’anno e dovrebbero essere creati 400.000 posti di lavoro all’anno. Uno studio dell’OCSE ha dimostrato come un aumento dell’1% dell’investimento in R&S delle imprese produrrebbe una crescita dello 0,13% della produttività totale del paese. Un aumento invece della spesa pubblica dell’1%

destinata alla ricerca genererebbe un incremento della produttività pari allo 0.17%

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(UNCTAD, 2005). Questo tuttavia richiede l’intervento determinato e coordinato di tutte le parti interessate: gli stati membri dell’Unione Europea, i soggetti pubblici e i privati. Infatti il traguardo del 3% è un obiettivo collettivo al quale deve contribuire ciascun paese.

Grafico 1.3 – R&S/PIL (2000, %)

Fonte: Sirilli (2004)

Nel grafico 1.4 è riportata la dinamica dell’intensità di R&S in rapporto al PIL del Giappone, degli Stati Uniti e dell’UE a 25 membri dal 1994 al 2005. Come si vede la quota del Giappone e degli USA è quasi costantemente cresciuta ogni anno, mentre quella dell’UE è rimasta quasi stabile intorno all’1,8% e ben lontana dal 3%. Va però tenuto presente il diverso ruolo della spesa industriale sulla spesa totale in R&S dei vari paesi, infatti mentre rappresenta il 75% per il Giappone, scende al 64% in America e al 50% in alcuni paesi europei come per la Francia ad esempio (Malerba, Pianta, zanfei, 2007).

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Grafico 1.4 – R&S/PIL (1994-2005; %)

0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 3,5

1994 199

5 1996

1997 1998

1999 2000

200 1

2002 2003

2004 2005 ANNI

%

GIAPPONE USA

UE 25

Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, R&D Statistics, OECD, MSTI, 2006 in Malerba, Pianta, Zanfei (2007)

1.6 – Considerazioni conclusive

Al termine di questo primo capitolo si può concludere che la R&S è un fenomeno complesso, al quale partecipano molteplici attori del settore pubblico e privato. La ricerca scaturisce proprio dalla continua interazione di questi soggetti ed è finalizzata a generare e diffondere nuove conoscenze utili alla realizzazione di processi e prodotti innovativi in un dato ambiente.

La misurazione della ricerca (input del processo innovativo) è complessa perché dapprima implica fenomeni molto differenti tra loro e in secondo luogo non esiste uno strumento univoco da poter utilizzare. Anche l’uso dei brevetti (output del processo innovativo) che era considerato nel passato molto efficace presenta i suoi svantaggi e si rischia di sottostimare la ricerca effettuata realmente, infatti alcuni tipi di tecnologie o di invenzioni non vengono comunque brevettate.

Le fasi della R&S possono essere separate e assegnate a unità distinte e geograficamente lontane tra loro, sempre all’interno dell’impresa multinazionale, o anche a unità esterne straniere in possesso di competenze complementari; ciò è stato reso possibile con il passare degli anni anche grazie alle nuove tecnologie informatiche.

(24)

Le imprese multinazionali sono diventate dei soggetti chiave che svolgono un ruolo fondamentale all’interno della ricerca come evidenziato dal fatto che la dimensione degli investimenti in ricerca è fortemente correlata alla presenza delle stesse in un determinato settore.

Quasi il 40% della R&S viene svolta nel Nord America anche se in atto c’è una tendenza che sta progressivamente spostando le mete della localizzazione dei laboratori di ricerca.

Nel prossimo capitolo si analizzeranno le determinanti di queste scelte di internazionalizzazione produttiva e in particolar modo quella riguardante la ricerca.

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CAPITOLO 2 – L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLA RICERCA E SVILUPPO

2.1 – Premessa

In questo capitolo si passano in veloce rassegna i principali approcci all’analisi dei processi di internazionalizzazione che rappresentano un fenomeno estremamente rilevante nei moderni sistemi economici. In modo particolare ci si soffermerà sull’internazionalizzazione delle R&S, illustrandone le caratteristiche, i fattori e gli incentivi che spingono un’impresa a delocalizzare le ricerca in altri paesi. Verranno illustrati i metodi per misurare questo particolare tipo di internazionalizzazione e le diverse tipologie che ne conseguono, con particolare riferimento agli investimenti asset-seeking, asset-exploiting e asset-augmenting. Saranno poi mostrati, con l’ausilio di grafici e tabelle, i paesi e i settori dove la R&S si internazionalizza maggiormente.

2.2 – Brevi cenni sulle teorie dell’internazionalizzazione

L’internazionalizzazione delle attività industriali consiste nella tendenza alla crescita delle attività d’impresa cross-border, che possono includere investimenti, commercio internazionale, alleanze strategiche per lo sviluppo di prodotti, produzione, marketing, outsourcing e offshoring7. La forma più elementare di internazionalizzazione è rappresentata dalle esportazioni: il commercio è, infatti, il modo più antico, nel quale costi e rischi sono abbastanza contenuti. Accanto a questa forma basilare di internazionalizzazione ve ne sono poi altre 2. La prima è rappresentata dalle nuove modalità innovative, le cosiddette non-equity, che si sostanziano senza che un’impresa entri in partecipazione in un’altra come avviene ad esempio per gli accordi di collaborazione di tipo tecnico, produttivo e commerciale con altre imprese estere, con lo scambio di licenze, marchi e brevetti, con programmi di penetrazione commerciale nei

7 L’outsourcing e l’offshoring sono 2 modi differenti per attuare la delocalizzazione. Nel primo caso un’impresa affida un servizio a terzi che prima veniva svolto dalla stessa impresa direttamente, mentre il secondo tipo sposta lo svolgimento di un’attività dell’impresa dal paese dove ha la sede, ad un altro dove ad esempio i costi della manodopera sono inferiori, ma è sempre l’impresa stessa a svolgere l’attività.

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mercati esteri. La seconda è costituita dalle forme equity come gli investimenti diretti esteri (IDE) (Mazzenga, 1998). Questa forma di internazionalizzazione richiede un’effettiva partecipazione alla gestione delle attività dell’impresa. Sono un tipo di investimento internazionale di lungo periodo effettuato da un soggetto residente in un paese verso un altro paese. Ci si può rivolgere all’estero per sfruttare delle economie di scala, quindi verso dei potenziai mercati, oppure per sfruttare dei vantaggi di localizzazione, come avviene, ad esempio, per il lavoro a basso costo. Gli IDE sono dei flussi di capitale che si spostano dal paese di origine a quello ospite dove vengono investiti allo scopo di acquisire un’impresa già esistente, attraverso fusioni o acquisizioni, o per crearne una nuova. Quest’ultimo caso viene detto greenfield investment, che sta ad indicare l’assenza di capacità produttiva preesistente, mentre nel primo caso si registra solo il cambiamento di parte o tutta la proprietà dell’impresa acquisita, ma questa forma rappresenta il 70-80% degli IDE totali (Ietto-Gillies, 2005).

Si possono distinguere, inoltre, 2 tipi di internazionalizzazione produttiva:

- attiva, nella quale sono le imprese nazionali ad effettuare l’espansione produttiva all’estero;

- passiva, data dalla presenza nel paese di IMN estere, che favorisce comunque la crescita locale, contribuendo all’allargamento e al consolidamento della base produttiva, in termini di investimenti e di occupazione, trasferiscono nel paese ospite tecnologie, competenze, capitale umano, beni intermedi, in modo diretto e indiretto, per effetto di spillovers8 o dei rapporti instaurati con le imprese indigene (Mariotti, Mutinelli, 2002).

L’internazionalizzazione comporta costi e rischi considerevoli, soprattutto quando le imprese non dispongono delle informazioni necessarie per conoscere e controllare mercati lontani e soprattutto diversi dai propri.

E’ importante analizzare le motivazioni che portano un’impresa ad internazionalizzarsi, innanzitutto occorre distinguere tra processi offensivi e difensivi.

Negli offensivi le strategie di espansione internazionale sono di tipo pro-attivo, cioè vengono decise per attuare obiettivi di crescita o di conquista di nuovi vantaggi

8 Gli spillovers o esternalità sono dei trasferimenti volontari o involontari di tecnologia, conoscenza o di tipo pecuniari che passano dal paese che effettua l’investimento a quello che lo riceve.

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competitivi. Sono difensivi, invece, quelli realizzati come reazione alle azioni di competitori che possono ledere la posizione di mercato delle imprese.

Le motivazioni che spingono entrambe le tipologie possono essere diverse; ad esempio un’impresa può andare alla ricerca di risorse, oppure di un mercato di sbocco per i propri prodotti, o cercare una maggiore efficienza o anche per motivi strategici. Si deve aggiungere, inoltre, che le diverse politiche di promozione o avversione da parte dei governi del paese d’origine delle IMN e dei paesi ospitanti influiscono molto sulle decisioni di investimento all’estero.

Ci si limita di seguito a richiamare alcuni dei principali filoni di pensiero in tema di internazionalizzazione delle imprese (cfr. Mariani 1999 e Ietto Gillies 2005 per recenti rassegne della letteratura)

Il contributo fondamentale di Hymer (1960) spiega l’esistenza della multinazionale come risposta alle imperfezioni strutturali nei mercati, che consentono all’impresa di ricoprire una posizione da monopolista riuscendo così ad internazionalizzarsi.

La teoria dei costi di transazione o dell’internazionalizzazione assume come nella precedente l’esistenza di imperfezioni nei mercati, per cui i costi di transazione sono maggiori rispetto ai costi di coordinamento dell’impresa e la gerarchia finisce per sostituire il mercato. L’internazionalizzazione riduce i costi dovuti alle imperfezioni del mercato, quali asimmetrie informative tra le parti, la loro razionalità limitata, il rischio di comportamenti opportunistici degli operatori e l’incertezza rispetto all’evoluzione dei contratti.

Successivamente si è sviluppato un approccio dinamico alla teoria dei costi di transazione, basato su 3 variabili: la frequenza delle transazioni, la natura del prodotto e la possibilità di realizzare economie di scala nella produzione. Questo modello suppone che le sussidiarie di vendita diventino sussidiarie di produzione e questo renda l’impresa una multi-impianto internazionale.

Nel 1966 Vernon elaborò la teoria del ciclo di vita del prodotto, cioè utilizza l’insieme delle fasi di vita di un prodotto dalla sua comparsa sul mercato al declino dello stesso, per spiegare il fenomeno dell’espansione internazionale delle multinazionali americane del dopoguerra . Viene utilizzato un concetto dinamico di tecnologia, cioè le innovazioni, che sono il vantaggio specifico delle imprese, diventano progressivamente obsolete per i processi di imitazione da parte delle altre imprese. La localizzazione all’estero permette alle IMN di controllare direttamente il mercato e questo garantisce la possibilità di sfruttare più a lungo i propri vantaggi competitivi.

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Nel 1973 Knickerbocker elaborò la teoria della lotta oligopolistica. Se nel mercato esistono delle imperfezioni dovute all’incertezza, alla presenza di esternalità, alla realizzazione di economie di scala, al possesso di migliori capacità tecnologiche, diversamente che in situazioni di concorrenza perfetta, le imprese riescono ad utilizzare questi fattori per erigere barriere all’entrata. Per queste imprese l’investimento estero è un modo per combattere i concorrenti.

Una teoria che viene utilizzata come schema generale per l’interpretazione dei processi di internazionalizzazione è il paradigma eclettico di Dunning. Il punto di partenza di questo modello è la presenza di 2 tipologie diverse di fallimento di mercato, la prima relativa alla struttura del mercato stesso, la seconda invece è presente nei mercati dei beni intermedi. In base a questa teoria la scelta di investire all’estero dipende da 3 fattori (OLI):

- ownership advantage: si sostanzia nel possesso o nel facile accesso a vantaggi di proprietà, capaci di generare flussi di reddito, di diritto esclusivo del soggetto economico che li possiede. Questo tipo di vantaggi possono essere tangibili, relativi quindi a risorse naturali, forza lavoro e capitale, oppure intangibili se riguardano conoscenze tecnologiche, capacità commerciali, manageriali, di marketing e imprenditoriali, relative all’assetto organizzativo o all’accesso ai mercati dei beni intermedi e finali;

- location advantage: riguardano il luogo di origine e di utilizzo di vantaggi come l’ambiente politico, legale, istituzionale e culturale, la struttura di mercato e le politiche governative. Ogni paese ha una dotazione differente di vantaggi localizzativi;

- internalisation advantage: a causa dei fallimenti del mercato le imprese possono avere convenienza ad internalizzare il mercato dei vantaggi di proprietà, anziché cederli in uso ad altri soggetti.

L’internazionalizzazione può sempre essere creata come un processo attraverso il quale si sfruttano i vantaggi di proprietà, di localizzazione e di internalizzazione. Quando sono presenti tutti questi vantaggi si sostanzia un investimento diretto all’estero, altrimenti si identificano solo rapporti commerciali quando mancano i vantaggi localizzativi. I paesi mettono in atto delle vere competizioni per attrarre gli insediamenti delle multinazionali all’interno del proprio territorio.

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A partire dagli anni ’80 si sono sviluppate le cosiddette “nuove teorie sul commercio internazionale” che iniziavano a considerar l’esistenza delle IMN all’interno del sistema economico. Ad esempio Krugman nel 1985 analizza le economie di scala come determinanti della specializzazione e del commercio stesso, oltre alle diverse dotazioni di fattori. Queste nuove teorie non riescono comunque a spiegare la produzione diretta delle imprese all’estero come metodo di internazionalizzazione in alternativa alle esportazioni.

Nelle IMN viene evidenziato il controllo come fattore distintivo dalle altre imprese uninazionali, le quali producono entro i propri confini nazionali e soddisfano la domanda estera attraverso le esportazioni. Le multinazionali, invece, soddisfano la domanda estera tramite il controllo esercitato grazie agli IDE e quindi con la produzione diretta nel paese straniero.

Il modello di Markusen del 1984 e del 1995 suddivide le imprese tra uninazionali, che sviluppano il commercio internazionale e multinazionali che effettuano, per contro, IDE verso altri paesi.

Le Bas e Sierra nel 2002 hanno svolto uno studio sulle strategie di investimento nella R&S di 345 multinazionali con la maggiore quantità di brevetti registrati in Europa tra il 1988 e il 1996. Queste imprese rappresentano quasi la metà del totale dei brevetti presentati in questo periodo all’EPO e hanno prevalentemente origini americane, europee e giapponesi.

Sulla base di questo studio è stata sviluppata una tassonomia che distingue differenti tipi di IDE in base alla loro finalità (Narula, Zanfei, 2005; Mariotti, Piscitello, 2006):

- asset-exploiting, rappresentano una modalità attraverso la quale si estrae valore economico dalle competenze di cui l’impresa è già in possesso e dunque corrispondono ampiamente alla visione tradizionale dell’organizzazione delle attività innovative. Questi investimenti sono fondamentalmente trainati dalla domanda: quando le imprese desiderano migliorare le modalità di utilizzo delle proprie risorse, sono ad esempio attratte dalla prospettiva di sfruttare i loro vantaggi proprietari su una scala più ampia. Si basano sullo sfruttamento all’estero di vantaggi preesistenti, prima di rivolgersi verso un altro paese, per cui si tratta di un vantaggio ex ante e corrisponde ad esempio a strategie di market-seeking e material resource seeking. I vantaggi ex ante sono quindi delle caratteristiche distintive che le imprese posseggono già nel proprio paese d’origine e questo è anche il punto di partenza dei recenti sviluppi della letteratura sul commercio internazionale;

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- asset-seeking, hanno il principale obiettivo di accedere a competenze specifiche che rinforzano la capacità dell’impresa di competere sui mercati esteri. Consentono inoltre di acquisire e internalizzare spillover tecnologici che sono localizzati nei paesi ospiti e che mancano invece nel paese d’origine. L’attività di R&S non viene duplicata nel paese ospite ed è guidata sostanzialmente dall’offerta, in questo caso le multinazionali potrebbero essere più propense ad uno scambio di conoscenza. Si concretizzano quindi nell’accumulo di vantaggi ex post, cioè nella ricerca di conoscenze e competenze che, come si è detto, mancano nel paese d’origine;

- asset-augmenting, si concretizzano nel momento in cui anche il paese d’origine è tecnologicamente forte e si rivolge all’estero per sfruttare ulteriormente i vantaggi preesistenti grazie anche alle peculiarità del paese ospitante. Si potrebbe quindi affermare che gli investimenti asset-augmenting consentono di sfruttare sia vantaggi ex ante che ex post, attuando così scambi di tecnologia in larga misura bidirezionali.

Va considerato che questa classificazione è molto usata per gli investimenti diretti nella ricerca ma può essere ritenuta valida anche per le altre tipologie di IDE (Mariotti, Piscitello, 2006).

Bernard (2003) e Melitz (2004) spiegano che le imprese più produttive si autoselezionano sui mercati internazionali; Melitz estende ulteriormente il modello basato sul legame dell’eterogeneità delle imprese e le esportazioni, considerando un’ampia gamma di strategie di internazionalizzazione e ricomprendendo tra queste anche gli IDE.

Da un lato le imprese che servono i mercati esteri tramite le esportazioni non sostengono i costi fissi, in parte irrecuperabili, che comporta lo sviluppo di una filiale estera. Dall’altro le esportazioni sono legate a maggiori costi marginali, tariffari e di trasporto.

Helpman (2004) dimostra che proprio partendo dal livello di produttività ex ante le imprese svilupperanno strategie differenti a seconda della loro dotazione iniziale.

Hymer afferma che lo sfruttamento di questi vantaggi ex ante permettono di superare le difficoltà dell’essere straniero nel momento in cui ci si rivolge verso un altro paese. La letteratura si è anche interessata ai vantaggi ex post, infatti come si è visto in precedenza Dunning dimostra come i vantaggi di cui dispongono le IMN sono il risultato dell’interazione tra fattori proprietari delle imprese e localizzativi dei paesi ospitanti.

Il prevalere dei vantaggi ex ante o ex post dipende dalle competenze di cui dispone l’impresa e dal contesto del paese ospite se è ricco di opportunità tecnologiche. Dunning

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effettua una distinzione simile a quella creata da Le Bas e Sierra, tra 4 differenti tipi di IDE: resource seeking, market seeking, efficiency seeking e asset seeking. I primi 3 sono raggruppabili tra gli asset exploiting, concretizzandosi nello sviluppo di capacità già in possesso delle imprese.

Le “nuove teorie del commercio” sono in continua evoluzione e presentano notevoli differenze, ma tutte hanno inserito tra i soggetti presenti nel modello del sistema economico le IMN, segno che questo tipo di imprese sono divenute un soggetto determinante per lo sviluppo economico mondiale (Zanfei, 2007).

2.3 – L’internazionalizzazione della R&S

Negli ultimi 20 anni gli investimenti diretti delle multinazionali sono cresciuti di circa 10 volte, a fronte di un prodotto mondiale poco più che triplicato. In questo contesto l’Unione Europea ha svolto un ruolo centrale, infatti, come si vede dal grafico 2.1 che riassume la suddivisione geografica dei flussi in entrata di IDE mondiale dal 1980 al 2003, copre oggi la parte maggiore. Mentre all’inizio degli anni ’80 gli Stati Uniti rappresentavano ancora l’area di maggiore attrazione per gli investimenti diretti, tra la fine di quel decennio e la prima metà degli anni ‘90 i flussi diretti verso l’UE (39%) hanno decisamente superato quelli orientati verso il continente nord-americano (21%). Nello stesso periodo, il sud-est asiatico, ed in particolar modo la Cina, ha assunto un peso rilevante nella geografia dei flussi di IDE in entrata (21%).

Gli anni più recenti hanno testimoniato un ulteriore orientamento degli investimenti verso l’UE, anche a scapito delle aree emergenti: tra il 2000 e il 2003, infatti, il 49% dei flussi mondiali di IDE è stato attratto da quest’area. Tuttavia, circa la metà degli investimenti in entrata verso paesi europei durante tale periodo è stato rappresentato da flussi intra-area, ossia tra stati membri (Mariotti, Piscitello, 2006).

Va puntualizzato che l’internazionalizzazione della produzione non implica direttamente per una IMN anche l’internazionalizzazione della R&S, tuttavia la propensione a investire all’estero è correlata positivamente e in modo statisticamente significativo all’intensità di ricerca, alla presenza di imprese di grandi dimensioni, all’età del primo IDE effettuato, che viene utilizzato come proxy dei processi di apprendimento e di imitazione intra-industriale. In alcuni casi si riscontra una simultanea relazione, cioè viene osservata una coincidenza tra le imprese che si internazionalizzano maggiormente

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nella produzione e quelle che si internazionalizzano anche nella ricerca, come ad esempio si verifica nelle multinazionali manifatturiere svedesi, nelle quali viene dimostrato che la spesa in ricerca alimenta le vendite nei mercati esteri e queste, a loro volta, facilitano la R&S, creando un circolo virtuoso (Fors, Svensson, 2002).

Grafico 2.1 – Distribuzione geografica dei flussi IDE in entrata nel mondo (1980-2003; %)

Fonte: Basile, Benfratello, Castellani (2005)

La funzione di ricerca e sviluppo rappresenta chiaramente il motore centrale dell’innovazione tecnologica di un’impresa e in quanto tale, oltre ad essere una realtà consolidata all’interno dell’organizzazione, estende i propri confini anche all’estero.

L’internazionalizzazione della ricerca da parte delle multinazionali non è da considerarsi un fenomeno nuovo, visto che le imprese che si espandono internazionalmente hanno da sempre avuto bisogno di adottare le tecnologie localmente per poter vendere con successo i propri prodotti anche nei paesi ospitanti.

Molto spesso le imprese tentano di mantenere la funzione di R&S all’interno della casa madre, nella quale i costi di comunicazione della conoscenza tra i confini nazionali non sono elevati. Questo tipo di costi aumentano con la distanza geografica, economica, culturale e linguistica. Una ragione per la quale non si vuole localizzare la ricerca all’estero

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è il mantenimento del controllo sui processi innovativi e sui loro guadagni. Inoltre va considerato anche il regime della proprietà intellettuale dei paesi ospiti, la dimensione delle imprese e la struttura industriale. Il primo passo che compiono le multinazionali per internazionalizzare questa funzione è la dispersione di essa da una localizzazione unica a diverse, nella quali i costi inerenti il trasferimento di conoscenza tacita e il coordinamento della ricerca a distanza non siano insostenibili. Questa decentralizzazione è inevitabile per alcune imprese multi-impianto che sono costrette a condurre R&S dispersa e le nuove tecnologie informatiche riescono a ridurre in parte i costi delle singole unità di ricerca. Uno studio condotto alla fine degli anni ’90, effettuato su 200 IMN americane, europee e giapponesi che effettuavano ricerca offshoring in altri paesi sviluppati, ha rilevato 9 ragioni principali per le quali si internazionalizzava la ricerca:

1. adattamento delle tecnologie estere ai mercati locali;

2. accesso alle capacità del personale di ricerca e processi di apprendimento dai mercati esteri;

3. customizzazione;

4. creazione di vantaggi dallo sviluppo di tecnologie delle compagnie estere;

5. entrare direttamente in contatto con le tecnologie estere;

6. supporto alla produzione locale;

7. conformarsi alle regolazioni per l’accesso ai mercati locali;

8. sviluppare vantaggi derivanti dai programmi pubblici di R&S nei paesi ospiti;

9. evitare un ambiente nel paese d’origine non congeniale alla ricerca.

Le prime 3 ragioni vengono ritenute fondamentali tra le motivazioni che spingono un’impresa a svolgere ricerca all’estero, le successive 4 di media importanza e le ultime 2 sono considerate le meno determinanti per l’internazionalizzazione. Appare evidente che il contenimento dei costi, la disponibilità di manodopera e la necessità di adattare prodotti e processi alle condizioni dei mercati dei paesi ospiti vengono considerate elementi fondamentali, specie nelle industrie relative alle nuove tecnologie. Il set di fattori in realtà è complesso, si possono classificare in 4 distinte categorie:

- fattori pull: sono relativi alla crescita di mercato, alla disponibilità di ampi insiemi di talenti a costi favorevoli e alcuni paesi in via di sviluppo, tra cui l’Asia, emergono come una base produttiva globale per alcune industrie;

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