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L’invecchiamento della popolazione nel Bacino del Mediterraneo

L’invecchiamento della popolazione è una conseguenza ineluttabile dell’avanzamento dei processi di transizione demografica, nel senso che, di regola,

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Il tasso netto di riproduzione femminile è dato dalla relazione : R0 =k

fxLx/ l0, dove x e fx hanno lo stesso significato visto in precedenza, k rappresenta la quota di nati femmina sul totale nati (circa uguale a 0,486), l0 e Lx sono dati dalle tavole di mortalità del momento.

quanto più risultano progrediti tali processi tanto maggiore è la proporzione delle persone anziane.

Attualmente a tale considerazione se ne può aggiungere tenuto conto sia della cosiddetta ipotesi dello “zero population growth” che di quanto ipotizzato nell’ambito della “seconda transizione demografica” una ulteriore, sottolineando come in tutte le popolazioni che sono in piena “seconda transizione demografica” il fenomeno dell’invecchiamento assuma un rilievo mai verificatosi in precedenza, in quanto a determinarlo contribuiscono pure da un lato i livelli deficitari di una fecondità caratterizzata da valori del tasso di fecondità totale (TFT) notevolmente al di sotto del cosiddetto “valore di sostituzione” che comunemente risulta TFT= 2,10 e dall’altro la progressiva contrazione del rischio di morte delle persone anziane.

Sintetizzando, da un lato si ha un numero ridotto di nascite, che determina un restringimento nella base delle piramidi delle età, dall’altro un numero sempre maggiore di persone raggiunge il limite inferiore delle età anziane, e ciò in condizioni tali da rimanere viva più a lungo che in precedenza.

Considerando come età di soglia i 65 anni28 e utilizzando l’indice di vecchiaia (IV) che è un indice di struttura che ci permette di misurare il grado di invecchiamento di una popolazione (Vedi tav. 1.21) possiamo avere un ottima visualizzazione di detto fenomeno all’interno dell’area presa in esame.

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L’età di soglia è l’età in corrispondenza della quale un uomo può essere definito come anziano, cioè dell’età in corrispondenza della quale un adulto diverrebbe « anziano ».

Tav. 1.21 - Indice di vecchiaia nei paesi del Bacino del Mediterraneo (valori espressi in %)

Paesi della Riva Nord IV(Totale) 1950 IV(Totale) 2010 e65 2005-2010 M e65 2005-2010 F Francia 50 92 15 21 Italia 30 144 16 20 Malta 17 95 14 18 Spagna 27 115 15 20 Croazia 30 116 12 16 Montenegro 20 66 12 15 Slovenia 26 118 13 18 Albania 18 42 12 16 Bosnia-Erzegovina 11 92 12 15 Grecia 24 129 15 18 Portogallo 24 117 13 18

Paesi della Riva Est IV(Totale) 1950 IV(Totale) 2010 e65 2005-2010 M e65 2005-2010 F Libano 21 30 12 14 Palestina 10 7 12 14 Siria 10 9 12 14 Israele 12 37 16 19 Turchia 8 23 11 18 Cipro 17 75 15 18

Paesi della Riva Sud IV(Totale) 1950 IV(Totale) 2010 e65 2005-2010 M e65 2005-2010 F Tunisia 15 29 12 15 Algeria 11 17 12 15 Marocco 6 19 12 14 Libia 11 15 12 16 Egitto 8 14 11 13

Fonte: n.s. elaborazione su dati Undp-Report

Dai dati riportati nella tav. 1.21 si evince coma la popolazione anziana nel corso degli anni è andata aumentando costantemente in tutta l’area presa in esame, ad eccezione di due soli casi, in cui si osserva un decremento dell’IV ed è il caso della Palestina e della Siria, in quanto per ambedue i paesi la popolazione anziana diminuisce, costituendo al 2010 il solo 3% della popolazione totale mentre la popolazione dei giovanissimi (0-14 anni) rappresenta il 44% (per la Palestina) e il 35% (per la Siria) della popolazione totale.

Attualmente si ha una forte contrapposizione tra i paesi della Riva Nord (ad eccezione dell’Albania che ha un IV pari al 42%) a diffuso ed elevato invecchiamento e quelli della Riva Est e Sud, ove il processo anzidetto è appena agli esordi, data soprattutto l’elevata fecondità che ha caratterizzato questi paesi nel corso degli ultimi decenni del XX secolo.

Nello specifico l’Italia è oggi il paese con il più alto indice di vecchiaia (144%) e tale realtà dovrebbe continuare a riflettersi per i decenni a venire: si stima, infatti, che fino al 2050 il nostro paese subirà un progressivo considerevole aumento, in termini relativi, della popolazione ultrasessantacinquenne, che dovrebbe passare dal 20% (2010) a poco più del 40% nel 2050.

Proseguendo l’analisi del caso italiano che attualmente è in piena seconda transizione demografica e ponendo attenzione alla speranza di vita a 65 anni, si evidenzia come essa, essendo pari a 16 anni per il sesso maschile e a 20 anni per quello femminile, raggiunga livelli particolarmente elevati e contribuisca ad accentuare il fenomeno dell’invecchiamento demografico data la più lunga permanenza in vita di coloro che raggiungono la cosiddetta “età di soglia”.

Nella Riva Nord si colloca in una situazione nettamente opposta a quella italiana l’Albania, che ha un indice di vecchiaia pari a poco più del 40%, il più basso che si registra in tale Riva.

Il ritardo che si osserva in termini di invecchiamento demografico per l’Albania sussiste oltre che per la fecondità anche per quel che concerne la speranza di vita a 65 anni: per la popolazione albanese, infatti, il valore di e65 risulta, per ambedue i sessi,

abbastanza contenuto (12 per i maschi e 16 anni per le femmine) a conferma dell’esistenza di un quadro demografico suscettibile di ulteriori trasformazioni nell’ottica di un progressivo allineamento a quella che è, pur con le sue evidenti eterogeneità, la situazione predominante nel resto della Riva Nord.

Osservando la tab. 1.21 notiamo, come la speranza di vita a 65 anni in Albania e in Croazia sia la stessa, ma quest’ultimo paese ha un IV molto alto superiore al 100% mentre come abbiamo visto l’Albania ha un IV molto basso; ciò è dovuto al fatto che sebbene la Croazia abbia una e65 molto contenuta, ha un invecchiamento demografico

Tutto ciò può essere esaminato con maggiore chiarezza attraverso la piramide dell’età, che è in grado di dar conto al tempo stesso della struttura per età e della composizione per sesso di una popolazione (Vedi fig. 1.2).

Fig. 1.2 - Piramidi della popolazione albanese e croata al 2010

Fonte: n.s. elaborazione su dati ONU (United Nations, World Population Prospect – The 2008 Revision, New York).Fonte: n.s. elaborazione su dati ONU.

Attraverso la fig.1.2 notiamo come la piramide della popolazione albanese ha una forma tipicamente triangolare con una base molto larga dovuta a livelli di fecondità elevati, ed un vertice invece molto stretto a conferma di quanto abbiamo detto poco fa, nonché la popolazione anziana è numericamente contenuta; c’è da dire inoltre che l’Albania risulta essere un paese di retroguardia della Riva Nord, la cui struttura per età appare fortemente condizionata dalle vicende migratorie verificatesi in questo paese a partire dall’inizio degli anni Novanta (dai dati riportati nella tav. 1.12 abbiamo visto come il suo saldo migratorio risulta essere per il quinquennio 2005-10 negativo pari infatti a meno 4,80); mentre osservando la piramide della popolazione croata notiamo come la sua forma è tipicamente rettangolare, la sua base è molto stretta a causa dell’abbassamento dei livelli di fecondità e dei quozienti di natalità che hanno comportato un invecchiamento dal basso29.

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Per quel che concerne i paesi della Riva Est e Sud, il grado di avanzamento dei rispettivi processi di invecchiamento è strettamente legato a quello dei relativi processi di transizione demografica e ciò anche in quanto tali fenomeni sono connessi tra di loro. Tenuto conto di ciò, possiamo procedere, analogamente a quanto fatto in precedenza per i paesi della Riva Nord, all’analisi delle caratteristiche differenziali dei loro processi di invecchiamento demografico utilizzando i dati che figurano nella tab. 1.21. Tali dati pongono chiaramente in evidenza come attualmente, in ambedue le Rive, l’invecchiamento demografico risulti accentuato solo in alcuni paesi, come: Cipro con un IV pari a 75% (è un valore molto più vicino a quelli che si registrano per la Riva Nord), Israele, Libano e la Tunisia che è l’unico paese della Riva Sud ove il TFT risulta attualmente inferiore al “valore di soglia”; mentre negli altri paesi l’invecchiamento demografico è generalmente ancora allo stato embrionale, dato soprattutto il ritardo con cui sono iniziati in detti paesi i rispettivi processi di transizione demografica.

1. invecchiamento dal basso, l’invecchiamento dovuto ad una riduzione dell’incidenza della popolazione giovane;

2. invecchiamento dal centro, quello derivante da una diminuzione nel peso della popolazione in età adulta;

CAPITOLO II

2.1 - Introduzione

“Les migrations sont au coeur des préoccupations internationales actuelles. En effet, grâce aux révolutions technologiques qui ont réduit les distances et accru la mobilité, de plus en plus de personnes se tournent vers la migration temporaire ou définitive en quête d’un emploi, d’une formation, de liberté ou de toute autre chose dont elles sont privées dans leur propre pays. Ce phénomène, correctement géré, peut déboucher sur une prospérité partagée et un développement harmonieux et équitable, autant des pays en développement que des pays développées. En effet, les enjeux liés aux migrations sont aujourd’hui considérables, que ce soit pour les pays d’accueil ou les pays d’origine »30.

Le migrazioni internazionali, intese come mobilità di persone che attraversano frontiere nazionali, sono una realtà oramai acquisita ed inevitabile, le cui ragioni si ritrovano nei divari economici che esistono tra i diversi paesi del mondo e nella ricerca da parte delle popolazioni di migliori standard di vita, sia in termini economici che di sicurezza.

Il fenomeno delle migrazioni costituisce da anni oggetto di analisi per gli studiosi delle scienze umane e sociali, la storia dell’umanità potrebbe essere raccontata come un susseguirsi di spostamenti territoriali.

E’ ormai noto che i processi di redistribuzione della popolazione a livello nazionale ed internazionale, modificano in modo più o meno marcato i panorami demografici, sociali ed economici dei paesi che ne sono coinvolti, tra i quali figurano quelli dell’area del Bacino del Mediterraneo.

In quest’ultimi paesi, infatti, le migrazioni hanno svolto un’azione che ha contribuito, in tempi e con modalità differenti, a determinare le attuali caratteristiche demografiche, compensando spesso l’azione della dinamica naturale in modo da spostare masse più o

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meno cospicue di individui da aree generalmente ad elevato tasso di incremento demografico, verso aree che attraversano una successiva fase del processo di transizione demografica o che, in qualche modo, potevano offrire migliori condizioni sociali ed economiche ai migranti.

A tal proposito, introduciamo un rapidissimo accenno al pensiero di un noto demografo il quale ha di recente osservato con riferimento alla situazione attuale che: “Flussi crescenti vengono sospinti da un paese all’altro dai processi di globalizzazione e dalla divaricazione dei livelli di vita tra paesi e continenti. Un divario che si allarga non solo tra paesi ricchi e paesi poveri, ma anche all’interno di questi tra quelli che hanno imboccato il binario dello sviluppo e quelli rimasti impantanati nella sindrome di arretratezza. Una molla in continua carica che allenta la tensione spingendo fuori del loro paese numeri crescenti di persone che cercano di sfuggire alla povertà. Un processo lubrificato dall’omologazione del mondo e dall’efficienza delle comunicazioni” (Livi Bacci, 2002)31.

Oggigiorno il fenomeno migratorio non è visto soltanto come un evento permanente che rappresenta una svolta radicale nella vita del migrante, infatti, sempre più frequentemente esso è considerato un processo aperto e reversibile, anche grazie ai progressi tecnologici registratisi nei settori delle comunicazioni e dei trasporti che insieme con la riduzione dei costi di trasferimento hanno reso più agevoli gli spostamenti e accresciuto la mobilità territoriale delle popolazioni.

Non a caso, le migrazioni hanno attualmente raggiunto dimensioni mai conosciute nei secoli passati. Secondo l’ultima stima delle Nazioni Unite il numero dei migranti nel mondo proprio nel 2009 ha raggiunto la soglia dei 200 milioni, pari cioè al 3% della popolazione mondiale (si tratta nell’85% dei casi di migranti economici e nel 15% di richiedenti asilo o rifugiati); un numero che è più che raddoppiato dal 1975.

Castles e Miller (1998), due dei principali studiosi di migrazioni internazionali, nel loro lavoro “The Age of Migrations”, sottolineando la portata e la rilevanza degli attuali movimenti migratori, ne hanno messo in luce le differenze con quelli passati.

Per definizione le “migrazioni” sono in continuo movimento, cambiano direzione e quindi destinazione, tipologia, composizione e strategia. Esse sono un fenomeno

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strutturale i cui fattori causali sono soprattutto identificabili nell’esistenza di uno squilibrio demo-economico fra il luogo di origine e quello di destinazione. Con riferimento a ciò è stato coniato il termine di “pressione demografica differenziale” intesa come diversità nel rapporto tra ritmo di sviluppo demografico e ritmo di sviluppo economico (Federici, 1965)32.

Il discorso sulle migrazioni internazionali e sulle cause che le determinano è piuttosto complesso, tra i fattori che influenzano le scelte migratorie degli individui acquisiscono un’importanza determinante gli squilibri economici internazionali, i livelli di povertà e di degrado ambientale insieme all’assenza di pace e di sicurezza, alla violazione dei diritti umani e ai differenti livelli di sviluppo delle istituzioni giudiziarie e democratiche.

Generalmente, le cause delle migrazioni si dividono in fattori di espulsione e fattori di attrazione (push and pull factors):

- i primi riguardano l’alta disoccupazione o sottoccupazione, la povertà, i conflitti armati, il degrado ambientale e i disastri naturali, l’instabilità politica la violazione dei diritti umani nei paesi di partenza, etc.;

- diversamente, i secondi possono essere riassunti in quel complesso di fattori economici, sociali e culturali, come la minore densità demografica, la presenza di opportunità di lavoro, una maggiore modernizzazione legata a migliori modelli tecnologici, etc., i quali concorrono a fare intravedere delle maggiori opportunità e/o una qualità di vita migliore nel paese di destinazione.

A livello istituzionale, il bisogno di mano d’opera da parte di alcuni paesi ha rappresentato un forte fattore d’attrazione per i migranti. In molti paesi, interi settori d’attività hanno dipeso e dipendono in modo determinante dalla presenza di lavoratori immigrati. In periodi d’espansione economica, infatti, gli immigrati sono stati spesso reclutati per ricoprire i posti disponibili e ciò anche in virtù del fatto che i lavoratori immigrati sono più propensi a svolgere i lavori pesanti, a ricevere una modesta o addirittura una scarsa retribuzione e una minor protezione sociale.

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Oltre ai più tradizionali fattori di attrazione/espulsione, la globalizzazione dell’economia nella sua forma attuale ha comportato anche una globalizzazione del mercato del lavoro, nonostante le misure restrittive adottate da molti governi dei paesi industrializzati per limitare le migrazioni verso il proprio territorio.

Inoltre, occorre evidenziare, quando si parla di fattori di espulsione, quanto sia in crescita il numero di individui che sono costretti a emigrare a causa dei conflitti armati i quali avvengono nella maggior parte dei casi all’interno dei paesi e in minor misura tra un paese e l’altro, di persecuzioni politiche o a causa degli effetti disastrosi di alcuni fenomeni naturali (inondazioni, uragani, siccità, desertificazione, etc.).

Un esempio abbastanza rappresentativo, in questo senso, è costituito dai flussi migratori provenienti dall’area balcanica (soprattutto dall’ex Rep. Jugoslava) in seguito ai vari conflitti che si sono susseguiti nella zona.

Il discorso a questo punto potrebbe andare avanti in questo senso, delineando a grandi linee cause ed effetti dei flussi migratori in generale.

Tuttavia è necessario, per poter apprezzare pienamente l’importanza che attualmente rivestono le migrazioni internazionali, ripercorrere l’evoluzione storica senza spingersi troppo indietro, partendo piuttosto da quel particolare periodo in cui alle migrazioni transoceaniche sono andate affiancandosi quelle intra-europee.

L’Europa dell’Ottocento ha subito una emigrazione di massa senza precedenti. Se tra il 1846 e il 1932 si calcolava che più di 55 milioni di individui avessero lasciato i loro paesi per raggiungere le Americhe, la Nuova Zelanda e l’Australia, negli ultimi decenni del XX secolo si andava sviluppando un nuovo movimento migratorio che aveva origine nei paesi mediterranei e si dirigeva verso i paesi europei centro- settentrionali.

E’ con la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta che l’emigrazione extraeuropea può considerarsi conclusa, mentre quella intra-europea inizia a farsi protagonista.

L’espansione dell’economia globale e la diffusione dei sistemi di comunicazione hanno contribuito a modificare la genesi e lo sviluppo dei movimenti di popolazione tra le diverse aree del globo.

A partire dagli anni Cinquanta le migrazioni hanno, subito trasformazioni progressive e sostanziali, acquisendo, al pari dei flussi di merci e capitali, un carattere di globalità, tanto per consistenza quanto per caratteristiche spaziali e strutturali.

Ovviamente, al processo di globalizzazione si è giunti gradualmente: dal 1945 al 1950, solo alcuni paesi tra cui la Francia e la Gran Bretagna hanno fatto ricorso alle immigrazioni per favorire la ricostruzione postbellica, mentre il periodo che va dal 1950 al 1973 coincide con le principali strategie economiche che, prevedendo grandi movimenti di capitale, erano concentrate nei paesi più ricchi dell’Europa centrale e settentrionale, del Nord-America (così come dell’Argentina e del Venezuela) e dell’Australia. E’, dunque, verso questi paesi che si sono dirette cospicue masse di lavoratori provenienti sia dai paesi europei meno sviluppati sia quelli più sviluppati del Bacino Mediterraneo. Negli stessi anni, Francia e Gran Bretagna hanno aperto le frontiere anche a molti immigrati delle ex colonie, mentre in America si sono verificati numerosi flussi di popolazione dal Sud (America Latina) verso il Nord (U.S.A).

Al 1973 si fa risalire la ben nota crisi petrolifera che ha segnato in modo particolare il nuovo sviluppo economico mondiale: essa ha, infatti, innescato un periodo di recessione che ha indotto tutti i paesi più sviluppati a rivedere le proprie strategie economiche.

Successivamente alla crisi è risultato quanto mai necessaria una rapida e incisiva ristrutturazione dei sistemi produttivi in particolare e dei meccanismi economici in generale, tanto da portare l’economia mondiale a una completa trasformazione.

Tale trasformazione ha, di riflesso, comportato altrettanti importanti cambiamenti nelle politiche migratorie e, quindi, nei modelli migratori e nella direzione dei flussi: è iniziata, in questo senso, una nuova fase della dinamica migratoria segnata, tra l’altro, dal passaggio di alcuni paesi dell’Europa meridionale da aree tradizionalmente di emigrazione ad aree di immigrazione.

Per fare un esempio di quanto appena detto e riferendoci solo ai flussi migratori mediterranei negli ultimi cinquanta anni, tre diverse tipologie di paesi coinvolti dai flussi: i paesi di tradizionale immigrazione, di cui la Francia rappresenta l’unico caso, visto che stiamo appunto considerando solo l’area mediterranea; i paesi di recente immigrazione, cioè quelli che precedentemente erano luoghi di emigrazione, costituiti

dal Portogallo, dalla Spagna, dall’Italia e dalla Grecia, per la Riva Nord, da Israele per la Riva Est e dalla Libia per quella Sud; i paesi di tradizionale e/o recente emigrazione, vale a dire i paesi della ex Jugoslavia33, l’Albania, la Turchia, l’Egitto, l’Algeria e il Marocco.

I cambiamenti nella direzione dei flussi sono spiegabili attraverso la politica degli “stop” adottata dai governi dei paesi europei a partire dal 1973 (come misura restrittiva alla domanda di lavoro straniera) e l’effetto di spinta nei paesi di origine determinato dall’esplosione demografica e dai differenziali di reddito esistenti tra le diverse aree del Mediterraneo, nonché attraverso i cosiddetti “push factors” di cui già abbiamo fatto cenno.

La politica degli “stop” in particolare, nata per fermare i flussi migratori provenienti dai paesi poveri, ha avuto l’effetto di deviare i flussi verso paesi in cui l’ingresso sarebbe stato più facile.

E’ in questo momento che paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia e il Portogallo, paesi tradizionalmente di emigrazione divengono aree prima di transito poi di accoglienza dei migranti, in virtù del fatto che, essendo geograficamente più vicini e permeabili a causa della mancanza di politiche e leggi adeguate sulle migrazioni, venivano visti, ma solo inizialmente, come luoghi di transito prima di raggiungere aree economicamente più forti.

Vieppiù, la politica di chiusura ufficiale adottata nei confronti dei lavoratori stranieri e la facilità a reclutare manodopera in nero nei paesi a sud del Mediterraneo ha alimentato una crescente immigrazione clandestina, provocando un ulteriore irrigidimento delle misure in materia di immigrazione.

Per tutti gli anni ’70 e ’80 la Tunisia, il Marocco e altre regioni territoriali del Maghreb sono stati i paesi che hanno contribuito maggiormente al flusso di immigrati verso i nuovi paesi mediterranei di immigrazione.

Tuttavia, la situazione è cambiata significativamente dopo il 1989, quando con la caduta del muro di Berlino sono state aperte (in uscita) le frontiere di molti paesi del blocco ex-sovietico. Da questo punto di vista, il nostro Paese rappresenta il caso più

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I paesi della ex Jugoslavia che si affacciano sul Bacino del Mediterraneo sono: Croazia, Montenegro, Slovenia, e Bosnia-Erzegovina.

evidente: all’immigrazione nordafricana si è andata progressivamente affiancando e sostituendo quella degli albanesi e successivamente quella di lavoratori provenienti da repubbliche della ex-Jugoslavia, dalla Romania, dall’Ucraina, etc.