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L’ironia continua: alla scoperta del personaggio

Come ribadisce Giorgio Marcon360, l’esperienza della scrittura palazzeschiana si muove, secondo la definizione di Montale, in uno schema «spiraliforme» che si snoda creando uno «sdoppiamento comico» già a partire dal primo romanzo, avvalorando la tesi di Luigi Baldacci circa l’inesistenza di un forte contrasto strutturale tra le due parti in cui si divide formalmente :riflessi: la «stilizzazione parodica»361 sarebbe dunque già presente nella sezione epistolare dell’opera, come affermato, grazie all’implicito rovesciamento della cifra espressiva decadente sublime362. Come è già stato riconosciuto, un piazzamento ancora più originale di Palazzeschi all’interno della narrativa novecentesca avviene proprio grazie al secondo romanzo363, Il Codice di Perelà. Esasperata (e dunque esaurita) nel romanzo precedente364 la linea dell’estetismo tramite un’auto-identificazione patetica e dai toni crepuscolari, e superata la propria diversità (l’omosessualità, la diversità di spirito e di sensibilità) con il suo Valentino, Palazzeschi può finalmente prepararsi a sorridere al futuro; ma può anche finalmente vedere il mondo con occhi diversi.

Il riscatto dal proprio passato traumatico si era tradotto, sempre in :riflessi, nella «disintegrazione dell’estetismo» 365 nel fuoco, risolvendo l’autoanalisi tormentata della parte epistolare in una libertà conquistata, la libertà di scrittore e di uomo dai vincoli omologanti e costrittivi dell’umanità (norme sociali, norme culturali, norme morali). La vita cui va incontro Valentino-Palazzeschi festosamente alla fine di :riflessi, uscito dalla propria prigionia (come anche fa il “giovane bianco” delle prime poesie) non se ne fa più nulla delle maniere366 sublimi, decadenti, crepuscolari del giovane recluso: dalla loro cenere esce l’uomo di fumo, sorridente ed ingenuo: Perelà.

E come nel primo romanzo anche qui il protagonista non conduce367 auto-parodia: «tabula rasa», come lo definisce Tellini, a livello di conoscenza pragmatica del mondo, è entità ingenua – e dunque innocente – priva sia di valori imposti e che di spirito di azione. Conoscendo solo la leggerezza perché costituisce la sua natura fisica e spirituale (per cui la vita e i suoi pesi sono a lui fastidiosi, inutili) Perelà non può ironicamente rivelare il falso di una gabbia di condizionamenti che in realtà non lo rinchiude: ciò accade, in una satira non esplicita ma raffinata, per mano dei personaggi che rappresentano la collettività del regno. Si esaminerà e si esemplificherà questo sottile e originale meccanismo messo in atto dallo scrittore “rinato” nel suo secondo romanzo. Un racconto, come si vedrà dalle citazioni desunte dal testo a titolo di esempio, che colpisce per il carattere appunto fortemente teatralizzato di certe sue scene dialogiche, correlate tra loro da un filo sottilissimo ed implicito di senso e di continuità narrativa, e spesso prive di una parte introduttiva che espliciti tali collegamenti.

Nella maggior parte dei dialoghi si ha a che fare infatti con brevi battute, monologhi interiori, immagini, simboli, gesti, dove dominano «l’allusività fonica e la frammentazione», dice Tellini368, con una

360 Marcon 2006, 107.

361 Parallelamente, continua Giorgio Marcon, ciò avviene anche nella produzione poetica coeva nei componimenti in cui Palazzeschi svuota la lingua dall’interno «per via di accumulo e soprassaturazione», secondo le parole del saggio di Pier Vincenzo Mengaldo Su una costante ritmica della poesia di Palazzeschi, in La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano, Feltrinelli, 1975.

362 L’esagerazione manieristica del pathos dato da un’ipersensibilità emotiva drammatica che produce un suo svuotamento grottesco unirebbe dunque, senza fonderle, le due parti di :riflessi.

363 Tellini, 2004, CV. 364 Tellini 2004, XCI. 365 Tellini 2004, XCII. 366 Tellini 2004, XCII. 367 Wanke 2006, 44. 368 Cfr Tellini 2006, XCVI.

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estenuazione del piano fonico-visivo369 (ripetizioni, figure retoriche e di parola che alludono appunto al mondo poetico e teatrale) la quale ci proietta in un clima onirico, sospeso: di fiaba surreale. Si tratta di uno stile ibrido, con molteplici ispirazioni, fiabesche e teatralizzanti-mimetiche grazie a un «discorso diretto libero» dal sapore del parlato370.

Tellini precisa che questo nuovo modo, che nell’immediato dopo :riflessi, nella categoria del romanzo, produrrà appunto Il Codice di Perelà, non corrisponde al clownismo europeo371, il quale percorre tutt’altra direzione: Palazzeschi per la storia di Perelà si ispira al mondo fantastico delle favole per bambini, all’atmosfera di fiaba, a quegli spettacoli di giocolieri da lui stesso frequentati in gioventù: guarda quindi alla tradizione municipale della Toscana agricola della propria esperienza privata372. Con gli strumenti poveri del «linguaggio popolare»373 Palazzeschi è riuscito a creare un racconto sì favolistico e leggero, ma trasgressivo, che comunica umoristicamente, sdrammatizzandola in questo modo, una dissacrante rivelazione dell’ipocrisia dei valori costituiti della realtà (le istituzioni in primis) sin dalle prime “battute”:

- Niente per il dazio signore? Galantuomo non fate da sordo! C’avete niente? Dentro le scarpe? - Io sono… molto leggero.

- Eh caro mio, ci sono delle cose molto leggere che pagano il dazio. Coi vostri stivaloni, voi potreste frodare benissimo il governo. Che tipo buffo!

(p. 140)

Ne è scaturito un romanzo pullulante di personaggi, sia popolari che altolocati, esponenti della comunità sociale cui appartengono e di cui rivelano, attraverso buffoneschi giochi e scambi di voci ed esibizione di ruoli, l’opinione pubblica che viene ad imporsi e i sentimenti collettivi. In particolare spiccano la forte esaltazione sociale nei riguardi di miti, novità, stranezze attesi con una avidità374 e un’irrazionalità che si cela sotto la maschera di un ordinato, galante, riverente e tradizionalista meccanismo istituzionale, basato su una idea di giustizia data come assolutamente oggettiva (il Codice). In realtà quindi l’opinione pubblica risulta facilmente manovrabile da fascinazioni irrazionali irreprimibili, anche se ci si cura di nascondere ed emarginare in spazi ristretti e chiusi le pulsioni umane più abominevoli e pericolose che sviano dall’ordine costituito morale e sociale, come ad esempio: la pazzia del folle Principe volontario; la smania di denaro per la conquista del potere del re Iba imprigionato; la malattia dell’eros del mondo femminile. Queste degradazioni dell’animo umano dall’ordine prestabilito vedono all’interno del romanzo dei capitoli interamente a loro dedicati dove si dipana il talento umoristico dell’autore nel rivelare le antinomie, la follia e la saggezza, il traviamento e la normalità di coloro che hanno il coraggio di seguire i propri sentimenti ed inclinazioni estraniandosi dalla massa.

Ma la pazzia di re Iba, ad esempio, negativa, vittima di una forte caricatura altamente degradante, sia dell’uomo che seppe frodare il sistema umano sia della politica, contrasta fortemente con la saggia follia

369 Ciò si può notare ad esempio nella citazione dal testo, riportata più avanti, all’interno della descrizione della nuova visione della guerra di Perelà a seguito del confronto con alcuni personaggi della comunità sul tema: da una concezione imperniata sulla leggerezza il protagonista passa a un’idea negativa della guerra sottolineata da aspre espressioni onomatopeiche (che traslano quasi nel mondo della poesia) date dal cozzare consonantico dei sostantivi del paragone simbolico: «Ora io vedo la guerra come un’enorme minestra grigia, scodellata con stridulo crocolrolo sciulo frastuono, e rimasta li… immangiabile» (p. 142). 370 Marcon 2004, 112. 371 Cfr Tellini 2004, XCIII. 372 Cfr Tellini 2004, XCIV. 373 Tellini 2004, CV. 374 Cfr Tellini 2004, CIII.

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del protagonista del capitolo di Villa Rosa: il Principe dei pazzi che non volle diventare Re afferma di essere un «pazzo differente» perché i veri pazzi non annunciano ciò che stanno per fare mentre lui sì. E in questo modo non potrà mai venir legato, inibito: lì, nello spazio del suo manicomio, egli è libero di far tutto ciò che gli passa per la testa. Nelle comuni vie della città ciò gli sarebbe vietato. Si tratta di un ricco che finanzia il manicomio della città, per questo da tutti creduto pazzo, che mostra a Perelà i vari gradi di follia dei propri protetti; gli spiega come le persone fuori del manicomio possano meravigliarsi con un nonnulla, poiché:

- Per diventar pazzo non occorre, che una cosa: un grande cervello da gettare magnificamente in un sol pugno al vento, loro non ne ànno tanto da arrivare a tirarlo su con le dita. Qui sono i grandi signori, i miliardari delle teste umane che spesero per un sol capriccio tutto il loro denaro, essi sono ora appagati, felici l’oggetto che poterono comperare colma tutta la loro vita.

(p. 264)

Palazzeschi grazie alla visione ironica che mette in atto produce una forte deformazione della logica umana375 che regge un tale governamento del mondo, ridicolizzata per segnalare le sue contraddizioni drammatiche. Come ad esempio avviene anche nella favola storica dei mitici paesi Delfo e Dori, dove si ribaltano e si mettono a nudo le assurdità della violenza, della bramosia, dell’invidia, dell’odio umani che gli esponenti del regno presentano orgogliosamente a Perelà come basi fondamentali da attuare per giungere alla pace e alla serenità; e l’autore utilizza per questo suo intento una originale impronta favolistica proprio perché, come riferisce Matilde Dillon Wanke con le parole di Jack Zipes, «al massimo del loro valore simbolico, le fiabe […] contengono riferimenti storici e politici e rivelano un’immaginazione posta attivamente al servizio di una generale spinta verso una maggiore consapevolezza e libertà»376.

La disgregazione dei moduli tradizionali nel riso, allora, esplode con grande impatto da questo secondo romanzo, dove la stessa struttura stilistica si muove verso uno spostamento dai canoni strutturali e linguistici del genere pur rimanendo «entro la linearità del discorso»377 (ovvero entro una discorsività narrativa lineare degli avvenimenti). In ciò la comicità si viene a definire come sguardo oggettivo sul mondo, ovvero come «strumento di indagine sul presente»378 per poter effettuare un’analisi senza filtri della realtà (qui tramite gli occhi puri del protagonista) e per muovere una «corrosione dall’interno di un genere cristallizzato»379 (il romanzo). Come e con quali strumenti l’autore conduce tali operazioni? Il riso come rimedio alla pesantezza della storia, della retorica, delle imposizioni, per Palazzeschi: il comico è dunque anche strumento conoscitivo perché «apre fratture inquietanti nel tessuto del reale»380, ovvero immette un elemento inconsueto, assurdo all’interno dell’ordinata serietà del quotidiano; suggerisce la possibilità di un mondo alternativo e quindi di un disordine con la potenzialità sovversiva di minare le certezze sociali, storiche, culturali, letterarie ricoprendo esse stesse di assurdo e di illusorietà.

L’umorismo è perciò frutto di profonde e drammatiche meditazioni sul rapporto tra l’io e il mondo e, come sostiene Marco Sirtori, il «comico interviene a operare una sua parziale neutralizzazione sotto forma di motto di spirito» (quando questo è esplicito) e si configura essere «stratagemma alternativo al

375 Wanke, 2006, 51.

376 Citate da Matilde D. Wanke da Spezzare l’incantesimo, Milano, Mondadori, 2004, pp. 83 e 85.

377 Marcon 2006, 112.

378 Sirtori, 2006, 375.

379 Sirtori 2006, 375.

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processo decadente di retoricizzazione estetica, ritorno del rimosso che altrove prende le forme inquietanti dell’erotismo romantico»381.

Il Codice di Perelà si configura dunque come romanzo di avanguardia che esprime una linea inventiva originale all’interno della carriera dell’autore, muovendosi in modo eversivo contro le convenzioni formali dei generi. Marinetti coglie bene questa potente carica eversiva del giovane Palazzeschi: il poeta saltimbanco che si stacca definitivamente dalla precedente dimensione poetica dell’interrogazione di un sé diverso, complicatamente lacerato e vittima di contraddizioni (individuo che si nasconde e che si esibisce, fallendo, con slancio rivoluzionario) in questo secondo romanzo crea un’atmosfera irreale ed astratta dove si cerca di definire un personaggio fumoso nella sua alterità. Operazione che Palazzeschi conduce attraverso la «lente deformante dell’ovvietà comica e del passaparola della folla, che mette in libertà pareri di segno opposto, ma leggibili come espressione di una razionalità stereotipata anche quando va in diverse direzioni»382.

Ad esempio tra i personaggi, e specialmente all’inizio (quando la sorpresa per il nuovo venuto colpisce gli abitanti del regno), ma in realtà per tutto il racconto all’interno del coro di voci, si intrecciano giudizi discordanti sul nuovo arrivato: chi si mostra pronto ad accoglierlo a braccia aperte e chi manifesta, apertamente a Perelà o alle sue spalle, una ritrosia carica di disprezzo e sfiducia per via della diversità dell’uomo di fumo.

- Ci sapete dire un po’ che razza di bestia siete? - Io sono… molto… un uomo.

- Voi siete poco un uomo, di uomo mi sembra non abbiate che le scarpe. - Di dove venite?

- Di lassù.

- Bel discorso, ehi galantuomo, lo sapete con chi parlate? - Con la scorta del Re.

- Meno male, allora le ciarle sono inutili. - Dimandiamogli di che cos’è.

- Domandaglielo te imbecille. - Di che cosa siete signore? - Io sono… molto leggero.

- Volevo dire: di quale materia è formato il vostro corpo? - Fumo.

- L’avevo detto! Ecco! Ecco! È un uomo di fumo. Un uomo di fumo! Fumo! Fumo! Fumo! (p. 139)

- State pur certo signor Perelà, lassù vi ci avevano nascosto uomo tale e quale voi siete, a furia di star sul fuoco siete diventato di fumo, la cosa è naturalissima, se bruciamo qualcosa vediamo che si carbonizza e dopo va in fumo.

- […] Voi siete, signor Perelà, un uomo purificato, e questo vi renderà ai nostri occhi un essere privilegiato ed eccezionale.

- Chi sa il Re come ne godrà! (pp. 149-150)

- La reggia è circondata di popolo, tutti vogliono sapere, vogliono vedere, conoscere Perelà.

381 Sirtori 2006, pp. 400-401.

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- Alcune personalità cittadine domandano di essere ammesse dinanzi al signor Perelà. Possono essere ammesse?

- Signor Perelà, il vostro nome è sulle bocche di tutti, non si sente parlare più che dell’uomo di fumo! […] (p. 153)

- Ma voi siete un uomo come tutti gli altri allora? - Oh! Migliore degli altri mia cara.

- Io non avrei mai creduto di conoscere sul serio un uomo di fumo. - E di offrirgli il thè.

- E che lui lo bevesse!

- Quando ieri vi annunziarono in città io non volli crederci. - Io fui una delle ultime a crederlo… ma ora… eccovi qui… - Io ò sempre amato il fumo e ciò non m’à stupito.

(p. 167)

- […] Io sono nauseata dalla sua presenza, e assai più dal vostro contegno. - Uh!

- Mia cara tu commetti la più immensa villania verso di lui e verso noi tutte! - E tradisci l’ordine del re!

- Ogni cittadino, per primo il re, à deciso di offrire grande ospitalità a questo signore. [….] - Lui dovrà dettare il nuovo codice! […]

- Stolte! Insensate! Costui afferma impunemente di essere di fumo non è vero? - Sicuro.

- Lo è.

- Come, non lo lisciasti or ora?

- Di fumo? Ma si può immaginare cosa più stomachevole? Più schifosa? Il fumo! - Ma è una cosa tanto carina invece!

- Ma non capite ch’egli finirà per deturpare nella più sconcia maniera le vostre vesti? Ch’egli s’introdurrà per le nostre narici, negli occhi, a darci il più grande tormento? […]

- Che villana!

- Faremo che questa cosa giunga alle orecchie del Re. - Sarai cacciata dalla corte. […]

- Perdonate signor Perelà il piccolo incidente, quella povera donna non sa quello che dice, voi dovete perdonarle.

- Ma il perdono è la sua gioia.

- Non è lui fatto per l’unica dolcezza del concedere? (pp. 174-175)

Qui, ne Il Codice di Perelà, il riso è dunque utilizzato da Palazzeschi come rimedio alla pesantezza della storia, della retorica, delle imposizioni.