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L’Islam dei pittori fra arte, antiquariato e mercato

L’ampia circolazione in Italia di oggetti d’arte provenienti dai territori musulmani ha favorito, o quanto meno ispirato, la loro riproduzione in pittura e in scultura.

Prima di qualsiasi altra considerazione è forse necessario cercare una risposta alle seguenti domande: gli artisti hanno copiato, inventato, modificato gli oggetti islamici che hanno dipinto? E poi: gli artisti hanno visto solo o possedevano i manufatti che abilmente hanno presentato nelle loro tele? Ebbene, se la risposta alla prima domanda si basasse su una sensazione solo epidermica potremmo dire che, nella gran maggioranza dei casi, essi hanno fatto ogni sforzo per dipingere accuratamente ciò che avevano davanti a loro. In realtà la questione è un po’ più complessa e come ha precisato Maria Vittoria Fontana “è necessario distinguere nella produzione italiana almeno tre differenti fasce cronologiche e in parte geografiche in base ai rapporti che dal medievo ad oggi sono intercorsi fra la nostra penisola e l’Islam”826

. Sulla base di ciò la studiosa ha identificato una fase medievale durante la quale l’arte italiana è stata “influenzata” da quella musulmana in un’area che riguarda perlopiù la Sicilia e l’Italia meridionale; una fase successiva collocata fra il Quattrocento e il Seicento durante la quale gli artisti del centro-nord della penisola sono sembrati più consapevoli di avere come modelli alcuni prototipi islamici e si “ispirano” ad essi; una terza fase, dal Settecento in poi, durante la quale si è verificata lungo tutta la penisola una vera e propria “imitazione” o “copia ragionata” degli originali musulmani827

.

Detto ciò, per quanto riguarda la prima fase di influenza dell’arte islamica possiamo ricordare che i numerosi tessuti orientali che hanno cominciato ad affluire nelle corti della penisola dal XIII secolo hanno avuto un forte impatto non solo nella fiorente industria italiana della seta ma hanno acceso la fantasia di abili pittori che li hanno riprodotti, così come li hanno visti o tuttalpiù con qualche variante semplificativa degli ornati, nelle loro opere. Il caso più noto, e forse più eclatante considerata l’altisonanza del nome, riguarda le rappresentazioni di ornati pseudo-epigrafici e di tappeti in alcuni dipinti di Giotto828 anche se

826

FONTANA 1993, p. 455.

827 FONTANA 1993, p. 455.

828 Si vedano l’efficace contributo di FONTANA 2001, pp. 217-225 e il saggio di TANAKA 1994, pp. 129-132. Giotto raffigurò un tappeto a decorazione geometrica nel riquadro raffigurante l’apparizione a Gregorio IX nel ciclo pittorico di Assisi, cfr.: FONTANA 1993, p. 460.

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non sono mancate riproduzioni in opere di pittori anche precedenti829. Rispetto ai tessuti e, come vedremo, ai tappeti, i metalli islamici sono stati tramandati in pittura meno frequentemente e in maniera meno convincente. E’ il caso della mesciroba nei Tre accoliti del Museo Nazionale del Bargello a Firenze, un’opera attribuita alla scuola di Nicola Pisano e ora allo scultore Arnolfo di Cambio. Il marmo proviene da uno dei pilastri dell’Arca di san Domenico a Bologna ed è riconducibile agli anni 1265-1267. La bottiglia, un oggetto di metallo o di vetro830, sorretta da uno dei tre accoliti mostra due fasce epigrafiche in caratteri arabi; sia che si tratti di una “traslitterazione di fede da una religione all’altra” – come sostiene Giovanna Damiani831 - sia che il loro contributo non abbia significato nonostante la seppur incerta leggibilità – come sostiene Spallanzani832 – è possibile evidenziare che l’operazione compiuta dallo scultore ha presupposto la consapevolezza di voler impiegare questi ornati come motivi quanto meno decorativi. L’impiego della pseudo iscrizione con intenti decorativi fu forse l’intento di Giovanni da Milano quando tra 1363 e 1366 affrescò la Cappella Rinuccini in Santa Croce a Firenze dipingendo un vaso dalle forme occidentali con un’iscrizione pseudo-nashki833

.

In continuità con il secolo precedente, l’influenza musulmana che abbiamo visto caratterizzare l’età medioevale, si scorge ancora tra XV e XVII secolo ed è anche più ampiamente documentata. Simili pseudo-iscrizioni si rintracciano ampiamente nelle opere dei più grandi scultori del Quattrocento, da Donatello a Michelozzo, da Andrea del Verrocchio a Lorenzo Ghiberti ma sarebbe troppo lungo, ne forse necessario, citarli tutti in questo contesto834. A proposito degli ornati pseudo-epigrafici sono interessanti le tracce lasciate da Gentile da Fabriano. Uno degli esempi fra i più evidenti è certamente la sua Madonna

dell’Umiltà, del 1423, appartenente al Museo nazionale di San Matteo a Pisa, dove il lembo

del panno che avvolge Gesù riporta in arabo il famoso versetto tratto dal Corano “Non v’è

altro Dio al di fuori di Allah” e, oltre a ciò, un altro elemento interessante è costituito

dall’ampia aureola della Madonna abbellita da forme chiaramente arabizzanti, le stesse che

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Il riferimento è a una Croce di autore ignoto della prima metà del XIII secolo conservata al Museo Nazionale di Pisa nel quale i piedi del Cristo poggiano su un piccolo tappeto, forse una stoffa, con un bordo in caratteri pseudo-cufici e a un dipinto della scuola di Coppo di Marcovaldo (ca. 1225-1276) in Santa Maria Maggiore a Firenze raffigurante la Madonna col Bambino: le calzature in stoffa della Madonna sono decorate da caratteri pseudo epigrafici. Già segnalati in TANAKA 1989, pp. 214-226, in particolare p. 214.

830 Questa mesciroba è stata esaminata da Maria Vittoria Fontana che l’ha posta in confronto con un altro contenitore in un marmo proveniente dalla stessa Arca e oggi a Boston. Nonostante la puntuale indagine non è stato stabilito se si tratta di un metallo o di un oggetto in vetro; cfr.: FONTANA 1999, pp. 9-33.

831 DAMIANI 2002 (a), p. 16.

832 SPALLANZANI 2010 (a), p. 5.

833 SPALLANZANI 2010 (a), p. 6.

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ritroviamo nelle aureole della splendida Pala dell’Adorazione dei Magi, ancora del 1423, conservata alla Galleria degli Uffizi di Firenze835.

La riproduzione dell’uso degli oggetti islamici in pittura (cioè come abito, copertura di trono, tenda, arredo domestico ecc. ), caratteristica maggiormente presente tra Quattrocento e Seicento, può essere anticipata addirittura all’inizio del XIV secolo. Poche righe sopra abbiamo menzionato Giotto, ma anche a Simone Martini, che pure molto deve all’esempio del grande maestro trecentesco, va riconosciuto il merito di aver raffigurato un tappeto ad animali i cui disegni fortemente stilizzati sembrano vicini a quelli del tappeto anatolico detto “di Marby”836

nel suo celebre dipinto San Ludovico di Tolosa incorona Roberto d’Angiò (1317) originariamente allocato in una cappella della basilica di San Lorenzo Maggiore di Napoli e ora al Museo di Capodimonte837.

È con il Quattrocento e poi con il Cinquecento che le riproduzioni dei tappeti orientali nella pittura italiana si moltiplicarono e finirono coll’estendersi a tutta la pittura europea assumendo un’importanza sempre maggiore, tale cioè da spingere gli studiosi a denominare gruppi di tappeti al nome del pittore che li rappresentò. Ciò però avvenne – precisa Curatola - secondo criteri arbitrari o comunque non sempre rispondenti alla “primogenitura” della rappresentazione838. Così ancora oggi parliamo di tappeti “Holbein” – suddivisi in “Holbein a disegno grande” e “Holbein a disegno piccolo” – “Lotto”, “Bellini”, “Crivelli”, “Ghirlandaio” e così via secondo una terminologia convenzionale, però imprecisa e a volte fuorviante, entrata nell’uso e come tale difficile, se non impossibile, da modificare. Basti ricordare che, per esempio, il pittore Hans Holbein il Giovane (1497-1543) non fu certamente il primo, né tanto meno l’unico, a rappresentare nei suoi dipinti quelle tipologie di tappeti turchi ottomani839. Il pittore tedesco dipinse nel 1532 un tappeto anatolico annodato probabilmente nelle botteghe di Ushak e oggi denominato “Holbein a disegno piccolo o rotelle” a copertura del tavolo nel Ritratto del mercante Georg Gisze della Gemäldegalerie di Berlino. Nell’altrettanto famoso quadro Gli Ambasciatori alla National Gallery di Londra dipinto nel

835 Si rimanda al famoso saggio di AULD 1986.

836 Il tappeto di Marby deve il suo nome alla cittadina svedese dove fu scoperto. Ora è conservato nel museo di Stoccolma. Cfr. CURATOLA 1981, n. 3. Pare che un tappeto con le stesse caratteristiche sia stato raffigurato sempre da Simone Martini, o dal suo seguace Lippo Memmi, in una Madonna ora a Berlino; cfr.:FONTANA

1993, p. 461.

837 SCARAMUZZA 2007, p. 33. Un tappeto a disegni stilizzati vicini a quelli del tappeto di Marby è stato individuato anche in opere di Sano di Pietro (1406-1481) alla Pinacoteca Vaticana, del Beato Angelico (1400-1455) nel Convento di San Marco a Firenze, e di Niccolò di Buonaccorso (attivo attorno al 1370-1388) con il suo Sposalizio della Vergine (Inv. n. NG1109) alla National Gallery di Londra; cfr.: CURATOLA 1991, p. 17.

838 CURATOLA 1991, p. 17.

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1533 in occasione della visita di Georges de Selve, ritratto sulla destra, ambasciatore a Venezia all'amico Jean de Dinteville, ambasciatore francese a Londra, Holbein raffigurò un tappeto turco, simile al precedente ma con i medaglioni di dimensioni maggiori, comunemente noto come “Holbein a disegno grande”.

Questi tappeti con gul (in turco fiore, rosa) grandi o piccoli ma ripetuti nel campo a file e colori sfalsati, furono largamente raffigurati dai pittori italiani già nel Quattrocento (quindi ben prima di Holbein!).

Nella Pala di San Zeno (1456-59) a Verona dipinta da Andrea Mantegna840, il trono della Vergine è coperto da un tappeto “Holbein a disegno piccolo” anche se la sua comparsa più antica sembrerebbe risalire agli affreschi di Piero della Francesca a Rimini, nel 1451841. Più tarda, ma costituisce uno degli esempi più notevoli e non possiamo non ricordarla seppur brevemente, è la bellissima Annunciazione (1508 circa) di Andrea Previtali per la Chiesa di Santa Maria del Meschio di Vittorio Veneto dove il tappeto turco a disegni piccoli con il bordo decorato con un motivo di pseudo cufico intrecciato è disteso a copertura di un “cassone” sotto la finestra della nobile camera della Vergine842

. In questo caso non è da escludere che il tappeto, collegato con l’esemplare del Museum für Islamische Kunst di Berlino843, fosse presente nella chiesa della marca trevigiana ma si può anche ipotizzare che esso appartenesse al committente del dipinto.

Una tra le più evidenti raffigurazioni di tappeti “Holbein a disegno grande” precedenti quella nella citata opera della National Gallery londinese, si trova in Sicilia nel San Gerolamo di Marco Costanzo nel Duomo di Siracusa datato 1468844. Un Holbein è presente anche nella

Madonna in trono con Bambino e Santi dipinta nel 1487 dal Bergognone (1453 – 1523) per

l'altare maggiore della chiesa dell'Abbazia benedettina di Arona, dedicata ai Santi martiri Gratiniano e Felino845. Un’altra interpretazione dell’”Holbein a disegno grande” appare nella

Sacra conversazione degli Ingesuati (1484), la tavola dipinta dal Ghirlandaio per l’altare

maggiore della chiesa fiorentina di San Giusto alle Mura e oggi agli Uffizi. Seppur in forma non completa, troviamo un altro “Holbein” negli affreschi del Mantegna alla Camera degli

Sposi di Palazzo Ducale di Mantova (1471-74). E probabilmente Mantegna ebbe sotto gli

840 SCHMIDT ARCANGELI 2010, p. 106. Inoltre, la Schmidt Arcangeli segnala che il tappeto dipinto dal Mantegna nella Pala di San Zeno a Verona ha trovato un confronto con l’esemplare del Museo di Arte Tessile Antica (MATAM) di Milano; cfr. SCHMIDT ARCANGELI 2009, pp. 123, 126, nota 12.

841

MILLS 1981, p. 17.

842 SCHMIDT ARCANGELI 2010, p. 105.

843 MACK 2002, pp. 78-79 con relativa bibliografia.

844 MILLS 1981, p. 16; CURATOLA 1991, p. 17.

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occhi il tappeto che rappresentò e forse lo vide proprio a corte perché i Gonzaga possedevano numerosi tappeti, come del resto anche altri principi o dogi. L’inventario di Francesco Gonzaga (1444-1483) redatto il 27 ottobre 1483 menziona ben trentatre voci relative ai manufatti annodati e ne specifica l’uso che di essi veniva fatto: “un par de tapeti da terra cum

l’arma vechya da Gonzaga de br. 7, un tapeto da 4 rote, un tapeto da tavola mezan longo br.8, un tapeto novo cum 5 rote longo br. 8”, un più piccolo “tapeto novo cum 3 rote longo br. 6, un tapeto usato de 4 rote de br. 7, un tapeto vechyo groso de 3 rote de br. 4” 846, per citarne alcuni e prendere atto che questi manufatti fecero parte del sofisticato arredamento della corte principesca: vennero dunque acquistati per essere usati e per godere della loro bellezza! Anche il successivo inventario dei beni custoditi nel palazzo ducale di Mantova redatto tra il 1626 e il 1627, prima cioè della nota vendita a Carlo I d’Inghilterra e del brutale saccheggio del palazzo da parte dei lanzichenecchi nel 1630, elenca un consistente numero di tappeti ripartiti tra i diversi ambienti e variamente utilizzati: troviamo quindi “un tapeto di lanna che

gira intorno a un letto”847, un “tapeto di lanna caiarino sotto a un baldacchino, longo brazza

4”848 ma anche un “tapeto di lana da tavola, longho brazza 5 in circa”849. Una breve considerazione si può fare circa il valore attribuito ai singoli oggetti. Quelli appena citati sono stimati rispettivamente 60, 72 e 18 lire che diventano 540 nel caso di un “tapeto da tavola

caerino di lanna fina di varii colori”850 e addirittura 600 nel caso di un “tapeto caerino

longho brazza 8, alto brazza 4”851. Cifre, queste ultime, piuttosto interessanti soprattutto se analizzate in relazione alle stime di altri beni appartenuti alla famiglia. Un Ritratto di

imperatore di Giulio Romano852 e un dipinto di Correggio853 con Venere e Mercurio che

insegna a leggere a Cupido sono valutati entrambi 600 lire mentre il Cristo e la Samaritana

di Palma il Vecchio854 è stimato 300 lire. Escludendo la considerevole stima dei Trionfi di

Cesare di Mantegna855 (8.100 lire) e quella dei ritratti degli Imperatori di Tiziano856 (6.600 lire) si può osservare che, a differenza di quanto si possa pensare oggi, non sempre furono i

846 CHAMBERS 1992, p. 153. 847 MORSELLI 2000, p. 487, n. 4192. 848 MORSELLI 2000, p. 488, n. 4196. 849 MORSELLI 2000, p. 487, n. 4186. 850 MORSELLI 2000, p. 487, n. 4184. 851 MORSELLI 2000, p. 487, n. 4193. 852 MORSELLI 2000, p. 268, n. 666. 853 MORSELLI 2000, pp. 268-269, n. 673. 854 MORSELLI 2000, p. 269, n. 680. 855 MORSELLI 2000, p. 287, n. 895. 856 MORSELLI 2000, p. 268, n. 665.

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dipinti – “capolavori” acclarati della nostra cultura figurativa - ad avere le valutazioni più alte quanto, piuttosto, i tessuti d’arredamento.

Dopo questa breve ma doverosa parentesi ritorniamo al grande medaglione tipico degli Holbein che è chiaramente visibile nel tappeto esposto sul davanzale del loggiato al di sopra della Vergine nell’Annunciazione con Sant’Emidio (1486) di Carlo Crivelli (1430-1493) ora alla National Gallery di Londra857. La minuziosa e dettagliata rappresentazione dei manufatti tessili da parte del Crivelli - tale da colpire la sensibilità del Lanzi che ammirò la sua capacità di trattare “tutti gli accessorj con bravura tale che finitezza ed amore non cedono al confronto

de’ fiamminghi”858

– ci permette di distinguere un medaglione a forma di stella a otto punte che ospita uccelli e forme geometriche nello svolazzante tappeto che pende dall’arco trionfale dell’Annunciazione londinese e in quello che dondola dal davanzale nella tavola con la

Vergine Annunciata dello Städel Museum di Francoforte, un tempo parte integrante del

Trittico di San Domenico dipinto dal pittore veneto nel 1482 per l’altare maggiore dell’omonima chiesa del piccolo centro marchigiano di Camerino859

. Un raffronto preciso lo ritroviamo nel frammento di “tappeto Crivelli” dell’Iparművészeti Múzeum di Budapest, così denominato nel 1984 da Ferenc Batári, grande esperto di tappeti turchi ottomani860, e ribattezzato “tappeto Batári-Crivelli” in suo onore nel 2007, anno del secondo anniversario della sua scomparsa861.

A Lorenzo Lotto (1480-1566) si rifanno i tappeti con decorazione di arabeschi gialli su fondo rosso e comunemente ritenuti provenienti dalla città turca di Ushak. Il pittore veneziano dipinse tale tipologia nel Ritratto della famiglia di Giovanni della Volta (1547) alla National Gallery di Londra862 e in primo piano nella celebre Elemosina di Sant’Antonio (1542) per la chiesa veneziana dei Santi Giovanni e Paolo dove, per altro, si scorge anche un altro tappeto egiziano della tipologia nota con la definizione di paramamelucco863.

Ma la prima raffigurazione sicura del “tappeto Lotto” non si deve al pittore veneziano ma al pennello di Sebastiano del Piombo (1485–1547) che lo rappresentò nel 1516 nel

Ritratto del cardinale Bandinello Sauli, il segretario e due geografi, ora alla National Gallery

857 MILLS 1981, p. 16; CURATOLA 1991, p. 17.

858 LANZI 1968, p. 25.

859

Crivelli e Brera 2009, pp. 136-149, scheda 1.

860 Si rimanda al contributo sui tappeti ottomani in Ungheria: BATÁRI 1980, pp. 82-90.

861 Budapest, Iparművészeti Múzeum, Inv. n. 14940. Si veda: Crivelli e Brera 2009, pp. 194-195, scheda 15.

862 Londra, National Gallery, Inv. n. NG1047.

863

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di Washington864. Il Lotto fu anticipato anche dal veronese Girolamo dai Libri (1475-1555) che nel 1530 raffigurò un tappeto ad arabeschi Ushak ai piedi della Madonna con Bambino e

Santi oggi al Museo di Castelvecchio a Verona865.

Il Lotto riprodusse nelle sue opere anche altri tipi di tappeti. Nella Madonna con

bambino e Santi a S. Cristina al Tiverone di Treviso (1505), nella tela di analogo soggetto

dipinta nel 1521 per la chiesa di Santo Spirito a Bergamo, nelle Nozze mistiche di Santa

Caterina, con il donatore Niccolò Bonghi (1523) ora all’Accademia Carrara di Bergamo, nel

successivo Ritratto di coniugi conservato al Museo Hermitage di San Pietroburgo (1523-24), Lotto raffigurò dei tappeti appartenenti al gruppo denominato “a rientranza”866, caratterizzati da un particolare disegno nel quale il bordo rientra ad una estremità del campo formando una sagoma a forma di nicchia (che scherzosamente viene definita “toppa di serratura”) e il cui significato simbolico è stato studiato e interpretato da Johanna Zick–Nissen867. Tale tipologia di manufatti, pur essendo stata raffigurata dal Lotto ben quattro volte, quasi paradossalmente prende il nome di “Bellini” in quanto raffigurata nella Madonna con Bambino in trono 868 dipinta tra il 1475 e il 1485 da Gentile Bellini (1429-1507), artista che, non dimentichiamolo, fu anche a Costantinopoli alla corte del sultano Maometto II.

Se dunque Mantegna raffigurò un tappeto che forse appartenne allo stesso Gonzaga, i tappeti che Lotto tanto abilmente integrò nella sua arte a chi appartennero? Secondo Rosamond Mack, con ogni probabilità i manufatti annodati furono di proprietà degli stessi committenti del pittore veneziano. Siccome gli italiani benestanti comprarono spesso tappeti da usare ed esibire con orgoglio come segni di ricchezza è facile ipotizzare che anche il committente Niccolò Bonghi (1463-1526), appartenente ad una famiglia benestante bergamasca, possedesse qualche esemplare869. Ma l’aspetto forse più interessante di questa analisi è offerto dal registro dei conti, il Libro di spese diverse pubblicato nel 1969 a cura di Pietro Zampetti870, nel quale il Lotto annotava accuratamente tutte le sue transazioni finanziarie. In una nota del 1 gennaio 1548 si viene a sapere che il Lotto impegnò nel Ghetto di Venezia un “tapedo turchesco da mastabe alto di pelo et forma largo”871

per prestare una somma di denaro a due amici marchigiani, Giovanni Francesco da Monopoli e Dario

864 Washington DC, National Gallery of Art, Inv. n. 1961.9.37.

865 CURATOLA 1991, p. 19. Sul pittore veronese si veda: Per Girolamo dai Libri … 2008.

866 MACK 1998, pp. 59-67.

867

Citata in CURATOLA 1991, p. 19.

868 Londra, National Gallery, Inv. n. NG3911.

869 MACK 1998, p. 65.

870 Il libro di spese diverse … 1969.

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Franceschini872. Di lì a poco Lotto riebbe il suo tappeto perché il 30 aprile 1548 scrisse: “haver el contrascritto Joan Francesco da Monopoli rescossi le robe mie et tapedo et

restuitomi le mie robe da cristiani saporj, et lui pagato la usura et il capital de li ducati tre”873. Dunque, non possiamo dire quale fosse il disegno del tappeto citato nel Libro ma, in ogni caso, siamo in grado di affermare che uno dei tappeti raffigurati dal Lotto nei propri dipinti poteva essergli appartenuto. Ciò spiegherebbe, almeno in parte, anche la sensibilità eccezionale per gli aspetti peculiari dei singoli tappeti che il talentuoso Lotto raffigurò nei suoi quadri.

Naturalmente l’argomento e il materiale non sono ancora esauriti e ulteriori indagini archivistiche potrebbero gettare luce su questi aspetti ancora troppo poco indagati. Pensare che Lotto risulti “l’unico artista rinascimentale ad aver posseduto un esemplare di quei rari tappeti d’importazione che rappresentò nei suoi quadri”874

è forse un po’ troppo semplicistico e riduttivo: ecco, piuttosto, una eventuale tappa successiva al discorso qui avviato.

Ed eccoci comunque arrivati a quella che Maria Vittoria Fontana ha indicato come “la terza fase” dell’influsso dell’arte islamica in Italia: quella cioè che si verificò a partire dal Settecento attraverso una vera e propria “imitazione” o “copia ragionata” degli originali musulmani. Nella sua analisi la studiosa dopo aver definito il Settcento come “il secolo dell’orientalismo “da riporto”, una moda che dalla cineseria compie il breve passo verso la turcheria”875

, analizza con puntualità la questione della riproduzione di oggetti di artigianato mediorientale, del complesso revival architettonico di forme e decorazioni islamiche nell’architettura moderna876

perlopiù tardo ottocentesca ricordando, naturalmente, anche la pittura cosiddetta “orientalista”.

Le radici di questo fenomeno intellettuale e artistico, genealogiche più che storiche, sono da ricercare già nel XVI secolo, in particolare nei noti viaggi di Matteo de’ Pasti, Costanzo da Ferrara e Gentile Bellini alla corte ottomana877, quest’ultimo in particolare