Wish You Were Here come Trauma Fiction
3.3 L’istanza diegetica
Wish You Were Here costituisce il primo tentativo da parte di Graham Swift
di scrivere un romanzo impiegando unicamente una figura di narratore eterodiegetico (esperimento poi replicato in Mothering Sunday). Nel corso della sua carriera, infatti, Swift ha più volte affermato di trovarsi maggiormente a suo agio nell’utilizzo della narrazione in prima persona, poiché permette sia al lettore che all’autore di accedere direttamente alla mente e ai ricordi del personaggio,
consentendo nel contempo alla figura dell’autore di porsi sullo stesso piano di quest’ultimo, e non come una sorta di autorità superiore54.
Anche in Making an Elephant55, Swift aveva espresso dei dubbi sulla capacità della narrazione eterodiegetica di far accedere alla memoria di un personaggio senza rendere il procedimento troppo laborioso o macchinoso. Tuttavia, Wish You Were Here dimostra come i suoi timori fossero infondati. Pur non distaccandosi mai da tale modalità, il racconto consente infatti sia all’autore che al lettore di entrare a fondo nella mente dei personaggi, senza avvertire l’interposizione del narratore come un ostacolo. Difatti, egli filtra i pensieri dei personaggi rendendoli in terza persona, ma spesso le due “voci” sembrano confondersi, col risultato che il lettore ha l’impressione di “sentir parlare” direttamente il personaggio, come si può notare fin dalla prima pagina:
There is no end to madness, Jack thinks, once it takes hold. Hadn’t those experts said it could take years before it flared up in human beings? So, it had flared up now in him and Ellie.
Sixty-five head of healthy-seeming cattle that finally succumbed to the rushed- through culling order, leaving a silence and emptiness as hollow as the morning Mum died, and the small angry wisp of a thought floating in it: Well, they’d better be right, those experts, it had better damn well flare up some day or this will have been a whole load of grief for nothing. (p. 1)
Se nel primo capoverso il segmento “Jack thinks” e l’uso del pronome personale “him” indicano chiaramente la presenza del narratore in terza persona, nel capoverso successivo la sua mediazione pare farsi più discreta, cedendo il passo al fluire dei ricordi e dei pensieri di Jack: l’utilizzo della parola “Mum” in relazione alla figura di Vera Luxton mostra come il narratore assuma totalmente su di sé il discorso del personaggio, la cui considerazione successiva, introdotta
54
“I tend to prefer first-person narrative […] This gives you an immediate and intimate access to your character, and in the end implies a certain kind of relationship with the reader too. I want to be ‘with’ my characters, on their level. I don’t want to be superior to them or to pretend to know more than they do. This expresses my basic position as a novelist. I may be an author but I don’t think of myself as any kind of ‘authority’”. Vianu, Interview, cit.
55
“I’ve almost always written in the first person, and one thing that gives you is immediate access to a character’s memory as it exercises itself. That would be a much more laborious thing to do in the third person, where you would constantly have to flag it, saying something like, ‘As X walked along the street he was remembering that time…’, which is all rather tedious and stagey, whereas I can just go directly to it”. G. Swift, Making an Elephant, Writing from Within, London, Picador, 2010, p. 370.
dall’interiezione tipica del parlato “Well”, sembra riportata parola per parola così come Jack doveva averla pensata nel momento a cui il ricordo si riferisce.
In verità, un uso esclusivo della narrazione eterodiegetica era già ravvisabile in un racconto giovanile dell’autore, Learning to Swim, nel quale la presenza di un narratore in terza persona permetteva di offrire una panoramica completa sulla particolare situazione di conflitto vissuta all’interno della famiglia Singleton, composta da madre, padre e figlio, introducendo il punto di vista di ogni suo membro preso, come il cognome stesso suggerisce, singolarmente.
La focalizzazione multipla è adottata da Swift anche in quest’opera di più ampio respiro, scelta che non rappresenta certo una novità all’interno del suo macrotesto. Si è già visto come il massimo esempio in tal senso sia indiscutibilmente rappresentato da Last Orders, in cui almeno sei narratori in prima persona (sette, se si considera lo spazio riservato al defunto Jack) si alternano nella narrazione di ogni capitolo. Pur non mostrando la propensione marcatamente polifonica del romanzo del 1996, anche in Wish You Were Here è possibile rintracciare una varietà di prospettive, tutte connesse tra loro dalla presenza del narratore eterodiegetico.
Nonostante Jack si connoti come il focalizzatore principale del racconto, i capitoli 5, 13, 24, 30 e 34 sono narrati dal punto di vista di Ellie, mentre nel 36, il capitolo conclusivo, trovano spazio le prospettive di entrambi, evidenziando così anche a livello strutturale il ricongiungimento finale della coppia. Al punto di vista dei due personaggi principali si sommano poi quelli di figure minori, come il poliziotto Bob Ireton, coetaneo e conterraneo di Jack, e il maggiore Richards, incaricato di informarlo personalmente delle circostanze della morte di Tom e di istruirlo circa le modalità di rimpatrio della sua salma. Inoltre, a un certo punto, troviamo persino le considerazioni dei due becchini incaricati di trasportare il feretro di Tom dalla base militare dell’Oxfordshire alla chiesa di Marleston, dove si inserisce il pensiero del parroco Brookes, cui spetta il compito di celebrarne il funerale. Il capitolo 23, invece, si distingue per filtrare i ricordi e gli ultimi pensieri prima di morire di Tom, mentre il 32 introduce le vicende concernenti il destino di Jebb Farm dopo la partenza di Ellie e Jack, ovvero l’acquisto e la trasformazione dell’edificio in una seconda casa per le vacanze da parte della
famiglia Robinson, porzione di testo narrata attraverso la prospettiva di Clare, la signora Robinson.
La scelta di un narratore eterodiegetico consente di superare il punto di vista inevitabilmente limitato del consueto narratore-protagonista swiftiano e di allargare il campo, introducendo un insieme di prospettive che pone in evidenza come le vicende particolari di Jack ed Ellie si inseriscano nel più ampio contesto di una crisi che coinvolge un’intera comunità. Lo sguardo si estende quindi dalla sfera privata di Jack a quella collettiva, con il narratore che, adottando punti di vista particolarmente rappresentativi, come quello dell’agente di polizia locale o del parroco di campagna, finisce con l’introdurre una riflessione di più ampia portata sui cambiamenti prodotti all’interno di una piccola comunità dall’impatto della modernità. Inoltre, il campo si amplia ulteriormente arrivando a inglobare anche la prospettiva, incarnata dalla figura di Clare Robinson, degli abitanti delle grandi città, i quali vedono invece nella campagna un genuino pezzo d’Inghilterra, dove è ancora possibile trovare rifugio dalla brutalità che contraddistingue l’epoca contemporanea; brutalità che è anche al centro delle considerazioni del maggiore Richards, il quale medita su come siano sempre più frequenti le occasioni in cui, nella sua veste di rappresentante dell’esercito, è chiamato a svolgere il ruolo di messaggero di sventura, presentandosi presso le abitazioni dei parenti dei soldati impegnati al fronte per comunicare loro il ferimento o la morte di un loro congiunto e potendo così assistere a numerose scene di disperazione.
Focalizzandosi ora sull’uno, ora sull’altro personaggio, la narrazione finisce perciò con l’evocare un trauma collettivo che si ripercuote in modo diverso su ognuno di loro. Benché gli avvenimenti traumatici presentati in quest’opera siano di varia natura e distanti tra loro non solo nel tempo, ma anche nello spazio, essi vanno a incidere a livello generale, mostrando come la violenza che caratterizza la modernità sia in grado di superare le barriere di spazio e tempo e di penetrare in ogni ambito senza lasciare incolume nessuno, come si vedrà meglio in seguito.
Come già accennato in precedenza, la focalizzazione multipla contribuisce inoltre a spezzare la progressione narrativa. Ciò appare particolarmente evidente nella sequenza composta dai capitoli 22-24, nei quali si susseguono i pensieri del maggiore Richards e dei becchini Derek e Dave (22), di Tom Luxton (23) e di
Ellie (24), che vanno ad interrompere la rievocazione del viaggio compiuto da Jack due giorni prima dell’inizio del racconto. Allo stesso modo, il ricorso alla focalizzazione multipla partecipa alla creazione di quel senso di ripetitività che caratterizza il testo, con un segmento temporale già “coperto” dalla narrazione che può essere ripresentato più volte adottando prospettive diverse.
Come ha evidenziato la critica, comunque, l’impiego di un narratore eterodiegetico non corrisponde solamente all’esigenza di allargare il campo prospettico, ma anche a quella di trovare una “voce” adatta a raccontare la storia. Al contrario di ciò che avviene in Last Orders, dove ogni personaggio può apportare il proprio punto di vista in prima persona, qui è invece il narratore a filtrare i pensieri e i discorsi di ognuno, e di Jack in particolare. Infatti, mentre i personaggi del primo romanzo si rivelano tutti dotati di una buona capacità oratoria, il protagonista di Wish You Were Here appare troppo limitato (non riesce neanche a scrivere una cartolina senza suggerimenti) per potergli affidare il compito di narrare la propria storia in forma autodiegetica.
In effetti, nel corso del romanzo sono numerose le circostanze in cui vengono palesate le evidenti difficoltà espressive di Jack. Ad esempio, egli si dimostra ben consapevole dei propri limiti quando teme di essere chiamato a tenere un discorso durante il funerale del fratello o, ancor prima, durante la cerimonia che segue l’arrivo del suo feretro. In più di un’occasione, il senso di colpa che attanaglia Jack lo spinge a pensare che potrebbe essere arrestato in qualsiasi momento e che, se ciò accadesse, non sarebbe comunque in grado di pronunciare alcuna parola in sua difesa. Nel momento in cui compone il numero di telefono indicato nella lettera spedita dal Ministero della Difesa, si sente come un uomo che chiama la stazione di polizia per consegnarsi dopo aver commesso un reato. Le uniche parole di quella telefonata di cui veniamo a conoscenza sono “I am Jack Luxton” (p. 87), come se si trattasse dell’inizio di una confessione in prima persona che però non udiremo (o leggeremo) mai. Del resto, queste sono le stesse, poche parole che pronuncia, senza sapere cos’altro aggiungere, nel momento in cui fa il suo ingresso nella base aerea dell’Oxfordshire dove avviene lo sbarco della salma, o quando gli vengono presentati i parenti degli altri due soldati morti nell’incidente in cui è rimasto coinvolto Tom.
E ancora, sebbene Jack abbia ripreso l’aspetto burbero e imponente del padre, non ne ha purtroppo ereditato l’abilità nel fare giochi di parole, compito che viene così talvolta assolto dal narratore, che si rivela dotato di una dose d’umorismo ben superiore a quella del personaggio. Una dimostrazione si ha, ad esempio, nella scena che si svolge tra Jack e Tom nella sala per la mungitura, allorché quest’ultimo confida al primo il suo piano di fuga da Jebb, dicendogli: “This is just for your ears, Jack” (p. 179), al che il narratore aggiunge: “ʻAnd the cows’ʼ, Jack might have said if he’d had the quickness of mind” (p. 179), schema che si ripete in modo analogo poco più avanti: “ʻOkay, Tom. You can rely on me. Your secret’s safe with me.ʼ ʻAnd with the cows,ʼ he might have said, if he’d had the wit for it” (pp. 180-181).
In più di una circostanza, il narratore sottolinea la limitata proprietà di linguaggio di Jack, contadino dalla scarsa istruzione, che si rivela quindi poco idoneo a narrare la propria storia da solo, ad esempio:
He might have used, if it had been one of his words, the word ‘autopilot’. (p. 160) Jack didn’t have then in his vocabulary (he doesn’t really now) the word ‘hypocrisy’. It would have sounded then to him like a word a vet might use – something else cows might go down with. (p. 230)
When the Robinsons had asked Jack about security […] Jack had been inclined to say (after some puzzlement about the word itself) that they never bothered, here, with burglar alarms or even with locking vehicle doors. (p. 313)
Jack può esprimere i suoi sentimenti conflittuali, sospesi tra la felicità assoluta provata durante la vacanza trascorsa con la madre e il fratello a Brigwell Bay e il dispiacere per l’assenza di Ellie in quel quadro perfetto, soltanto attraverso una frase dal carattere assolutamente “preconfezionato” e stereotipato (“Wish you were here”, p. 63), tra l’altro suggeritagli da Vera, figlia del direttore di un ufficio postale. Ugualmente, per i 18 anni di Tom Jack acquista un banalissimo biglietto d’auguri (identico a quello comperato dal padre, che ha avuto la stessa idea), sul quale scrive semplicemente: “Good luck, Tom. I’ll be thinking of you” (p. 184), enunciato che rappresenta in sostanza il suo messaggio d’addio al fratello e che gli ripete a voce durante il loro ultimo colloquio. Pur sapendo che si tratta dell’ultima volta in cui ha l’opportunità di parlare con lui, Jack non riesce a pensare a niente di più significativo o originale da dirgli.
Tuttavia, nel romanzo sono proprio le parole più banali e scontate a rivelarsi maggiormente in grado di trasmettere le emozioni del protagonista, come spesso accade nel macrotesto swiftiano: “So often the best words, words which directly and accurately transmit feeling, are the least noticeable”56. Come nota Markovits57, all’interno dell’opera esiste infatti una relazione stretta tra la verità e i cliché a cui i personaggi ricorrono per cercare di esprimerla. In più, l’uso di un linguaggio semplice e quotidiano è quello che più si addice all’estrazione sociale e al grado d’istruzione dei personaggi.
In un tale contesto, sono rare le occasioni in cui il narratore cede la parola ai personaggi sottoforma di discorso diretto. In particolare, le scene di dialogo sono ridotte al minimo, e proprio questa scelta denota l’importanza rivestita dalle parole proferite (o scritte) direttamente dai personaggi, sebbene possano inizialmente risultare piuttosto banali. Si pensi alla frase “We’d better cancel St. Lucia” (p. 52), pronunciata da Jack all’indirizzo di Ellie dopo aver letto la lettera che annuncia la morte di Tom. Invece di dare espressione al proprio choc e alla propria sofferenza per la notizia ricevuta, è questa la prima cosa che gli viene in mente da dire, con effetti devastanti su Ellie che, negli stessi istanti, sta immaginando le ormai prossime vacanze ai Caraibi come un’occasione per rivalutare con Jack la possibilità di avere figli.
Occorre però notare come alla scarsa capacità dialettica di Jack si sommi anche l’ineffabilità delle situazioni da lui vissute. Le poche lettere che scrive a Tom dopo che quest’ultimo se n’è andato gli costano uno sforzo notevole e svariati tentativi, dovuti non soltanto alla scarsa dimestichezza con la scrittura, ma anche e soprattutto all’impossibilità di trovare le parole giuste per informare il fratello del suicidio del padre (“How did you write to your brother about such a thing?”, p. 181), un evento così terribile e traumatico da andare oltre ogni tentativo di rappresentazione.
56
Vianu, Interview, cit.
57
B. Markovits, “Wish You Were Here by Graham Swift – review”, The Guardian, 12 June 2011, URL: https://www.theguardian.com/books/2011/jun/12/graham-swift-wish-you-here (ultimo