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Struggling with the Past: Wish You Were Here di Graham Swift come Trauma Fiction

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Academic year: 2021

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Indice

Premessa p. 1

Capitolo 1

Trauma Theory e Trauma Fiction

1.1 I principi della teoria del trauma p. 2 1.2 Trauma e letteratura p. 20

Capitolo 2

Il macrotesto swiftiano p. 27

Capitolo 3

Wish You Were Here come Trauma Fiction

3.1 Presentazione generale del romanzo p. 49 3.2 L’organizzazione temporale del racconto p. 57 3.3 L’istanza diegetica p. 64 3.4 La dimensione spaziale p. 71 3.5 Personaggi del trauma p. 85

Conclusioni p. 115

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Premessa

Il presente lavoro si propone di indagare il modo in cui Graham Swift si confronta col paradigma del trauma in Wish You Were Here, romanzo pubblicato nel 2011. L’opera viene analizzata alla luce delle teorie e degli strumenti critici elaborati nell’ambito multidisciplinare dei Trauma Studies, corrente critico-letteraria affermatasi a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, in seguito al verificarsi della cosiddetta “svolta etica” nel campo degli studi umanistici.

Nel primo capitolo viene introdotto il pensiero di alcuni tra i maggiori rappresentanti della trauma theory. Una prima sezione è dedicata all’illustrazione delle principali teorie sorte intorno alle definizioni dei concetti di trauma e di disturbo post traumatico da stress, così come sono venute delineandosi in seguito al riconoscimento ufficiale di quest’ultimo quale disturbo psichico nel 1980. Inoltre, ci si sofferma sul risalto posto da alcuni di questi studiosi sulla narrazione come mezzo per comprendere ed esternare il trauma. Una seconda sezione si concentra invece in modo più dettagliato sul rapporto tra trauma e letteratura e sulle modalità di rappresentazione letteraria del trauma. In particolare, vengono passate in rassegna le tecniche più frequentemente impiegate nella cosiddetta

trauma fiction.

Dopo questa necessaria contestualizzazione, il secondo capitolo offre un’introduzione generale al macrotesto swiftiano: invece di soffermarsi sulla descrizione di ogni singolo romanzo, si è preferito porre in evidenza i tratti principali dell’intera produzione.

Nel terzo capitolo, l’attenzione si concentra su Wish You Were Here, che viene analizzato sia a livello tecnico che tematico. In un primo paragrafo vengono introdotte la trama e le principali tematiche presenti nel romanzo; successivamente, sono presi in esame l’organizzazione temporale della narrazione, l’istanza diegetica e la dimensione spaziale. Infine, si indaga il modo in cui la vasta fenomenologia del trauma si riflette sui personaggi.

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Capitolo 1

Trauma Theory e Trauma Fiction

1.1 I principi della teoria del trauma

I Trauma Studies rappresentano quella branca della critica letteraria nata negli anni Ottanta del secolo scorso sulla scia delle teorie post-strutturaliste di De Man e Derrida. Da allora, un’attenzione sempre maggiore è stata rivolta alla rappresentazione letteraria del trauma ed una quantità notevole di studi critici è stata dedicata alla complessa relazione che intercorre tra la letteratura e il paradigma del trauma, cercando anche di analizzarne le implicazioni etiche e culturali. Nel corso del tempo, opere come quelle di Cathy Caruth, Shoshana Felman e Dori Laub e, più recentemente, Dominick LaCapra e Anne Whitehead hanno aiutato a contestualizzare e a definire gli studi sul trauma dal punto di vista letterario, oltre a fornire una serie di strumenti teorici e critici utili alla discussione e all’analisi della narrativa del trauma.

Il crescente interesse per il paradigma del trauma nell’ambito degli studi letterari deriva da quello per la Storia e la memoria. Il trauma con i suoi postumi sintomatici e duraturi pone infatti in evidenza la necessità di una modalità di rappresentazione e comprensione storica che contraddice qualunque concezione della Storia intesa come grand narrative, ossia come narrazione totalizzante e lineare di eventi tesa verso un infinito progresso. In ciò, la narrativa del trauma rivela molti punti di contatto con quella postmoderna.

La tendenza a collegare il tema del trauma con la letteratura corrisponde all’esigenza di elaborare, per mezzo della loro trasposizione in racconto, i traumi personali e collettivi connessi a momenti di grave crisi nella storia contemporanea quali le due guerre mondiali, l’Olocausto, la minaccia nucleare, l’esperienza coloniale con le sue conseguenze e, più di recente, il terrorismo internazionale. L’impressione di vivere “[i]n a post-traumatic century, a century that has survived unthinkable historical catastrophes”1 ha generato in alcuni casi una vera e propria

1

S. Felman, “Education and Crisis, Or the Vicissitudes of Teaching”, in Shoshana Felman, Dori Laub, Testimony: Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis, and History, New York and

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ossessione2 per il trauma ed ha portato ad una visione non soltanto della cultura, ma anche di tutta la storia contemporanea, come essenzialmente traumatica.

L’inizio degli studi contemporanei sul trauma può esser fatto risalire al 1980, anno in cui l’Associazione Psichiatrica Americana riconobbe ufficialmente per la prima volta l’esistenza del fenomeno definito come disturbo post traumatico da stress. Tale risultato fu ottenuto anche grazie ad una prolungata battaglia politica da parte di psichiatri ed attivisti che da tempo chiedevano di portare all’attenzione pubblica gli effetti che l’esperienza bellica aveva avuto sui soldati di ritorno dalla guerra del Vietnam.

Nella sua definizione più comune, il disturbo post traumatico da stress consiste nel verificarsi di una reazione, solitamente ritardata, rispetto ad un evento improvviso o catastrofico che viene percepito da chi lo vive come un reale pericolo per la propria incolumità. Tale reazione si manifesta perlopiù attraverso l’incontrollata e reiterata comparsa di allucinazioni, sogni o comportamenti ricorrenti riconducibili all’avvenimento stesso, talvolta accompagnata da un intorpidimento psicologico che potrebbe avere inizio sia durante sia dopo l’evento.

I Trauma Studies sono caratterizzati da una natura multidisciplinare che combina elementi di diversi rami come la storia, la filosofia, l’antropologia, la psicoanalisi e la sociologia. La molteplicità degli approcci è messa in risalto nell’opera a cura di Cathy Caruth Trauma: Explorations in Memory3, apparsa nel 1995 e considerata insieme ad Unclaimed Experience: Trauma, Narrative, and

History4, il volume da lei pubblicato l’anno successivo, una vera e propria pietra miliare nell’ambito degli studi contemporanei sul trauma. Al suo interno, ai contributi di critici letterari si alternano quelli di psichiatri, registi e sociologi e l’introduzione ad opera della stessa Caruth rappresenta uno degli scritti più citati da chiunque si accinga a trattare il tema del trauma.

2

Cfr. D. LaCapra, Writing History, Writing Trauma, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 2001, p. X.

3

C. Caruth (ed.), Trauma: Explorations in Memory, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1995.

4

C. Caruth, Unclaimed Experience: Trauma, Narrative, and History, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 1996.

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Nel sintetizzare le varie definizioni di trauma che emergono dalla categoria diagnostica di disturbo post traumatico da stress, Caruth ne mette in risalto la complessità della struttura temporale, a suo avviso responsabile del crollo della comprensione che sta alla base del trauma. Per l’autrice la specificità della patologia non risiede né nella natura dell’evento scatenante, che potrebbe non risultare per tutti ugualmente traumatizzante, né in una distorsione dell’accaduto da parte del soggetto che si trova a vivere tale esperienza. Come da lei osservato, essa consiste piuttosto

in the structure of its experience or reception: the event is not assimilated or experienced fully at the time, but only belatedly, in its repeated possession of the one who experiences it. To be traumatized is precisely to be possessed by an image or event5.

Per Caruth l’evento traumatico si configura dunque come una sorta di

non-esperienza, “a missed experience”6 che non viene percepita direttamente nella sua immediatezza ma soltanto successivamente quando, attraverso le sue insistite ed incontrollate ripetizioni sottoforma di flashback, sogni o allucinazioni, ritorna ad ossessionare il sopravvissuto. A causare il trauma è

a break in the mind’s experience of time […] the threat is recognized as such by the mind one moment too late. The shock of the mind’s relation to the threat of death is thus not the direct experience of the threat, but precisely the missing of this experience, the fact that, not being experienced in time, it has not yet been fully known7.

In quest’ottica, il ritorno dell’esperienza traumatica nelle forme intrusive sopra accennate rappresenta il tentativo di controllare retrospettivamente ciò che la psiche non è stata in grado di comprendere inizialmente e di colmare così il vuoto che la mancata assimilazione dell’evento ha lasciato.

I sintomi del trauma non possono perciò essere interpretati semplicemente come una distorsione della realtà dei fatti o come il conferimento di un significato inconscio all’evento. Al contrario, essi sono il segnale che l’esperienza non è stata

5

C. Caruth, “Trauma and Experience: Introduction”, in Caruth (ed.), Trauma, cit., pp. 3-12: qui p. 4.

6

C. Caruth, Unclaimed Experience, cit., p. 60.

7

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diretta e rappresentano il momento in cui il sopravvissuto assume per la prima volta consapevolezza del trauma stesso.

Già Freud aveva osservato, a proposito delle nevrosi di guerra, come i sogni dei suoi pazienti li riportassero continuamente alla situazione dell’incidente vissuto senza presentare alcuna alterazione dell’accaduto né tantomeno una natura simbolica, costringendoli invece a svegliarsi nuovamente terrorizzati. A colpire Freud era soprattutto l’estrema letteralità di tali visioni oniriche, che contraddiceva totalmente la teoria da lui sviluppata sul sogno. I sogni ed i flashback del trauma, infatti, non rappresentano l’appagamento di un desiderio, né contengono un significato inconscio; all’inverso, essi ripropongono l’evento traumatico in modo assolutamente preciso e fedele. In più, ciò avviene solitamente contro la volontà del soggetto traumatizzato che, allo stato vigile, non è in grado di richiamarne intenzionalmente alla memoria il ricordo.

Il fatto che i sogni o le immagini del trauma non costituiscano una conoscenza in possesso del soggetto traumatizzato ma, all’opposto, sia quest’ultimo ad essere posseduto contro la sua volontà dal loro ritorno, porta talvolta a dubitare della loro autenticità. L’immediatezza con cui l’esperienza del trauma si verifica fa sì che questa non venga registrata nella coscienza da colui che la subisce e che al suo posto rimanga un vuoto, una lacuna. Ciò può perciò generare incertezza riguardo al grado di realtà delle sue successive manifestazioni. Si viene pertanto a creare un forte contrasto tra, da un lato, il nitore e la precisione delle immagini del trauma che ritornano e, dall’altro, l’amnesia che caratterizza lo stato cosciente. Tuttavia, secondo Caruth, è giustappunto in questo che il trauma rivela la sua natura paradossale: invero, è la mancata integrazione immediata nella coscienza che consente all’evento di non subire modifiche e di ritornare ripetutamente ad ossessionare l’individuo in tutta la sua letteralità, permettendogli così di conservare anche la sua verità. Il riconoscimento tardivo della natura soverchiante dell’avvenimento permette che esso rimanga, nel suo ritorno, uguale a se stesso, vero, trasmettendo così anche la sua incomprensibilità originaria: “The

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flashback or traumatic reenactment conveys […] both the truth of an event, and

the truth of its incomprehensibility”8.

Inoltre, al tema della verità dell’esperienza traumatica si collega per Caruth una visione del trauma come sintomo non tanto dell’inconscio, quanto della storia:

It is indeed this truth of traumatic experience that forms the center of its pathology or symptoms; it is not a pathology, that is, of falsehood or displacement of meaning, but of history itself. If PTSD must be understood as a pathological symptom, then it is not so much a symptom of the unconscious, as it is a symptom of history. The traumatized, we might say, carry an impossible history within them, or they become themselves the symptom of a history that they cannot entirely possess9.

La contraddittoria connessione tra la lacuna memoriale da un lato e la precisione del ricordo dall’altro, con il conseguente dubbio riguardo la verità dell’esperienza traumatica, rivela una crisi della storia che porta a riconsiderare i concetti di passato, memoria e causalità.

Nel trauma, la capacità di recuperare il passato sembra paradossalmente connessa all’impossibilità di accedervi e quel che di esso ritorna ad ossessionare il soggetto non rappresenta tanto un ricordo dell’accaduto quanto piuttosto una testimonianza di ciò che di quell’evento non si è compreso mentre stava succedendo. Inoltre, è solo la ripetuta comparsa dei flashback e delle allucinazioni del trauma nel presente che consente di prendere per la prima volta coscienza del suo avvenimento. Se l’esperienza traumatica è caratterizzata da un’integrazione nella psiche continuamente posticipata, allora dovremo rivedere il nostro modo di relazionarci con il passato. Disgregando la linearità temporale, il trauma induce una riflessione su quali siano le modalità di accesso possibili all’esperienza non soltanto di tipo individuale ma anche storico. La Storia, infatti, non potrà più essere considerata come una conoscenza del passato già saldamente in proprio possesso, ma dovrà essere ripensata come ciò che elude sempre la percezione e la comprensione:

The history that a flashback tells […] is […] a history that literally has no place, neither in the past, in which it was not fully experienced, nor in the present, in which its precise images and enactments are not fully understood. In its repeated

8

C. Caruth, “Recapturing the Past: Introduction”, in Caruth (ed.), Trauma, cit., pp. 151-157: qui p. 153.

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imposition as both image and amnesia, the trauma thus seems to evoke the difficult truth of a history that is constituted by the very incomprehensibility of its occurrence10.

Il risalto dato da Caruth alla disgregazione della temporalità storica operata dal trauma trae origine dalla nozione freudiana di Nachträglichkeit, termine tradotto in inglese come “deferred action” o “afterwardness” e solitamente reso in italiano come “retroazione” o “azione differita”11. In Freud il termine si riferisce al modo in cui certe impressioni o tracce mnestiche vengono modificate dalla psiche in un secondo momento per conformarsi ad esperienze più recenti. Fin dai suoi primi studi, per Freud il trauma è costituito da una dialettica tra due scene, nessuna delle quali è di per sé traumatica: la prima si verifica nell’infanzia, ossia troppo presto per poter essere compresa, mentre la seconda ha luogo durante la pubertà e finisce con l’innescare il ricordo della prima modificandone la percezione. L’incidente traumatico non è pienamente riconosciuto nel momento in cui accade ma diviene tale soltanto più tardi, in una fase di elaborazione successiva, quando il secondo avvenimento rimanda il soggetto alla scena del primo, conferendole un significato traumatico: il trauma, dunque, non consiste nell’esperienza di un singolo episodio ma in un evento che acquista forza proprio dal ritardo temporale. Il concetto di Nachträglichkeit descrive perciò una traiettoria temporale complessa che sospende la logica cronologica ed implica un radicale ripensamento dei rapporti di causa ed effetto e della temporalità della memoria. Delineando la sua concezione di trauma, Caruth riprende il modello freudiano di una temporalità storica che diverge da un chiaro sviluppo rettilineo rielaborando la nozione di Nachträglichkeit in quella di belatedness.

Oltre al concetto di Nachträglichkeit, Caruth riprende da Freud anche quello di latenza, introdotto da quest’ultimo in L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Come osserva il fondatore della psicoanalisi, l’evento traumatico ritorna dopo un periodo di incubazione o latenza, vale a dire dopo un lasso di tempo durante il quale gli effetti dell’esperienza traumatica non sono manifesti. Questo

10

Caruth, “Recapturing the Past”, cit., p. 153.

11

M. Balsamo, Come si traduce “Nachträglichkeit” in italiano?, URL: http://www.academia.edu/862033/Come_si_traduce_Nachtr%C3%A4glichkeit_in_italiano (ultimo accesso 24.06.2017).

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meccanismo viene esemplificato da Freud tramite il celebre esempio della vittima di un incidente ferroviario:

Succede che un uomo lascia in apparenza incolume il luogo in cui ha sofferto un incidente pauroso, ad esempio una collisione di treni. Nel corso della settimana seguente sviluppa però una serie di gravi sintomi psichici e motori, che si possono far derivare solo dallo shock, da quella scossa o cosa qualsiasi accaduta in quell’occasione. Egli ha adesso una “nevrosi traumatica”. È un fatto assolutamente incomprensibile, vale a dire un fatto nuovo. Il tempo intercorso tra l’accidente e il primo apparire dei sintomi è chiamato “periodo di incubazione”, con trasparente allusione alla patologia delle malattie infettive […] Alludo a quel carattere che si potrebbe chiamare latenza12.

Attraverso la nozione di latenza Freud pare descrivere il trauma “as the successive movement from an event to its repression to its return”13. Per Caruth la peculiarità dell’esempio non risiede però nel periodo di oblio dopo l’incidente ma piuttosto nel fatto che la vittima non è mai stata pienamente cosciente durante l’incidente stesso: ella si allontana, infatti, apparentemente illesa. A suo avviso, la specificità dell’esperienza traumatica non consiste tanto nella rimozione successiva all’evento, quanto in una latenza intrinseca all’esperienza stessa, nel fatto che

it is only in and through its inherent forgetting that it is first experienced at all. And it is this inherent latency of the event that paradoxically explains the peculiar, temporal structure, the belatedness, of historical experience: since the traumatic event is not experienced as it occurs, it is fully evident only in connection with another place, and in another time14.

L’impossibilità di accedere direttamente all’esperienza storica sembra suggerire anche l’esigenza di una nuova forma di referenzialità, anch’essa non più diretta:

For history to be a history of trauma means that it is referential precisely to the extent that it is not fully perceived as it occurs; or to put it somewhat differently, that a history can be grasped only in the very inaccessibility of its occurrence15.

12

S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 77-78.

13

Caruth, “Trauma and Experience”, cit., p. 7.

14

Ivi, p. 8.

15

(10)

Nel capitolo introduttivo alla seconda parte di Trauma: Explorations in

Memory, Caruth concentra la propria attenzione su come l’esperienza storica del

trauma possa essere recuperata e comunicata, ponendo però al contempo in evidenza i rischi che un tale recupero memoriale comporta.

Affinché l’esperienza del trauma possa trovare accesso alla coscienza, occorre trasformare il ricordo traumatico in memoria narrativa che consenta di esprimerlo. Come teorizzato da Janet, successivamente ripreso da van der Kolk e van der Hart16, in condizioni di normalità la psiche immagazzina automaticamente i nuovi dati adattandoli a schemi cognitivi già esistenti senza che la coscienza presti troppa attenzione a ciò che sta accadendo. Questo tipo di memoria, definita automatica o implicita, mostra una buona dose di flessibilità e capacità di trasformazione. Tuttavia, in circostanze estreme, esperienze nuove o spaventose possono opporre resistenza ad una loro integrazione in strutture di significato preesistenti, che si rivelano quindi inadeguate a contenere le nuove informazioni. Quando ciò si verifica, frammenti di queste esperienze non integrate possono successivamente manifestarsi come esatte riproduzioni comportamentali, allucinazioni o incubi. In questo caso, si parlerà di memoria traumatica, normalmente non accessibile al recupero memoriale e al controllo volontario.

La memoria traumatica non è flessibile, ossia non può adattare i ricordi a schemi conoscitivi preesistenti ed è invariabile; da ciò deriva la letteralità che caratterizza le rievocazioni traumatiche. In più, rappresenta un’attività solitaria che non si rivolge a nessuno e si innesca involontariamente in circostanze che richiamano la situazione traumatica originale: quando un elemento dell’esperienza traumatica viene evocato, gli altri lo seguono automaticamente.

Come aveva già osservato Freud nel terzo paragrafo di Al di là del principio

di piacere17, l’individuo non può ricordare ciò che non è stato integrato nella coscienza e sarà piuttosto indotto a ripetere tale contenuto nella forma di un’esperienza attuale, a riprodurre il proprio passato non nel ricordo ma nell’azione, sviluppando senza saperlo una coazione a ripetere. Il trauma assumerà

16

Cfr. B. A. van der Kolk, O. van der Hart, “The Intrusive Past: The Flexibility of Memory and the Engraving of Trauma”, in Caruth (ed.), Trauma, cit., pp. 158-182: p. 159 sgg.

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così un carattere ossessionante ed invasivo, continuando a perseguitare il soggetto con le sue ripetizioni e i suoi ritorni insistiti.

Quando un individuo è esposto al trauma l’esperienza non può essere ordinata ad un livello linguistico e continua a intrudere in frammenti disgiunti. Per poter essere integrate, le memorie traumatiche devono trovare accesso al linguaggio ed essere trasformate in memorie narrative, vale a dire inserite all’interno di un racconto del passato che sia in grado di conferire significato all’accaduto legandolo agli altri eventi della propria vita. Perché questo accada, il soggetto traumatizzato deve ritornare spesso a quei ricordi per completarne il recupero, a dispetto di ogni resistenza che potrebbe sorgere in lui.

La memoria narrativa consente di guardare indietro a ciò che è accaduto collocandolo all’interno di una storia con un inizio, una metà e una fine, ossia seguendo un principio di sequenzialità che manca alla memoria traumatica, le cui rievocazioni corrono invece parallele e simultanee all’esistenza, per così dire normale, dell’individuo che ha subito il trauma.

Mentre la memoria traumatica reitera il passato in tutta la sua precisione attraverso un’esatta ripetizione nel presente, la memoria narrativa si rivela flessibile ed è capace di adattamento rispetto al passato, cosicché il resoconto di un evento può variare di racconto in racconto. E proprio nella flessibilità della memoria narrativa risiede il valore terapeutico della narrazione: il processo di guarigione si basa infatti su una forma di improvvisazione in cui la storia del trauma può essere raccontata più volte, in modi diversi e da prospettive differenti.

Tuttavia, la trasposizione del trauma in una narrazione rischia di fargli perdere la forza scioccante del proprio impatto. Invero, l’esatto contenuto del trauma può andare perduto nella sua conversione in un racconto dotato di significato e coerenza, giacché la capacità di ricordare implica anche quella di cancellare, modificare o, in alcuni casi, di dimenticare. Se da un lato la memoria narrativa permette all’esperienza di essere comunicata e, così facendo, di essere integrata all’interno della conoscenza del proprio passato, dall’altro rischia però di intaccare la precisione e la forza che contraddistinguono il ricordo traumatico. La narrazione si basa infatti sull’ordine cronologico e la coerenza e di conseguenza minaccia l’essenziale incomprensibilità che costituisce il nucleo del trauma. Come

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afferma Caruth, “[t]he danger of speech, of integration into the narration of memory, may lie not in what it cannot understand, but in that it understands too much”18. La perdita principale rispetto ad un’eventuale integrazione del ricordo traumatico nella memoria sarebbe dunque proprio quella della sua incomprensibilità ed il pericolo maggiore risiederebbe invece nell’eccessiva comprensione dell’evento.

La possibilità di integrare il trauma nella memoria e nella consapevolezza della propria storia rappresenta una sfida per tutti coloro che lo hanno vissuto, i quali mostrano spesso una certa riluttanza a tradurre la loro esperienza in discorso. Rinunciare a comprendere l’evento non deve però necessariamente implicare anche una rinuncia a parlarne. Piuttosto, l’incomprensibilità intrinseca del trauma richiederà una nuova forma di rappresentazione e comunicazione, in cui le parole non costituiscano soltanto il veicolo di trasmissione di una verità già posseduta ma il mezzo attraverso cui esprimere ciò che non è stato ancora capito. In Testimony:

Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis and History, Shoshana Felman

e Dori Laub propongono una visione del genere della testimonianza non come semplice resoconto oggettivo di fatti già conosciuti ma come un vero e proprio processo tramite il quale è possibile giungere per la prima volta a quella conoscenza.

Il genere della testimonianza ha assunto grande rilievo negli ultimi trent’anni, sia nella forma scritta che in quella video, soprattutto dopo l’uscita del film Shoah di Claude Lanzmann nel 1985. In particolare, la testimonianza è divenuta un modo cruciale di relazionarci con gli eventi catastrofici del nostro tempo. Come sottolinea Felman, “[i]t has been suggested that testimony is the literary – or discursive – mode par excellence of our times, and that our era can precisely be defined as the age of testimony”19.

Le testimonianze di sopravvissuti ad eventi traumatici della nostra epoca come l’Olocausto possono rappresentare un’integrazione rispetto alle forme standard di documentazione storica. Utilizzarle solamente per ricavarne accurate ricostruzioni empiriche del passato si rivela però riduttivo. Gli storici che le prendono in considerazione semplicemente come fonte di conoscenza

18

Caruth, “Recapturing the Past”, cit., p. 154.

19

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documentaria si preoccupano principalmente della loro attendibilità, ignorando altri aspetti significativi, come il ruolo svolto dalla memoria e dai suoi vuoti nel tentativo di comprendere il passato, oppure di negarlo e di rimuoverlo.

Mentre gli storici cercano nelle testimonianze solamente dati ed informazioni incontrovertibili, Felman e Laub, basandosi su un approccio principalmente di tipo psicoanalitico, paiono invece suggerire che non si deve per forza possedere la verità, per darne testimonianza. Al contrario, l’enunciatore testimonia sempre una verità che continua a sfuggirgli e che sostanzialmente non è disponibile nemmeno a lui. In particolare, essi sottolineano il valore performativo della testimonianza. Nelle parole di Felman, infatti,

testimony […] will be understood as a mode of truth’s realization beyond what is available as statement, beyond what is available, that is, as a truth transparent to itself and entirely known, given, in advance, prior to the very process of its utterance. The testimony will thereby be understood, in other words, not as a mode of statement of, but rather as a mode of access to, that truth. In literature as well as in psychoanalysis, and conceivably in history as well, the witness might be […] the one who (in fact) witnesses, but also, the one who begets, the truth, through the speech process of the testimony20.

Inoltre, Laub pone l’accento sul bisogno del sopravvissuto di trovare un ascoltatore empatico a cui rivolgersi perché il processo della testimonianza possa essere messo in moto. Come sosteneva già Janet, infatti, la memoria narrativa svolge una funzione sociale e necessita della presenza di un ascoltatore.

Chiunque si appresti a dare ascolto al racconto del testimone di un evento traumatico si trova però a vivere una situazione eccezionale, egli “comes to look for something that is in fact nonexistent; a record that has yet to be made”21. La mente umana, posta di fronte ad un avvenimento troppo scioccante ed inaspettato per essere compreso nel momento in cui succede, non riesce infatti ad integrarlo nella coscienza ed i meccanismi di osservazione e registrazione della memoria risultano temporaneamente annullati. Di conseguenza, colui che assiste dall’interno all’evento che scatena il trauma non è in grado di porsi come testimone mentre questo accade. Il suo racconto comincerà dunque con la

20

Ivi, pp. 15-16.

21

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testimonianza di un’assenza, ossia di un avvenimento che non può considerare come conosciuto.

È proprio nel processo della testimonianza, ovvero della narrazione del trauma vissuto, che il soggetto prende per la prima volta consapevolezza dell’evento: “The emergence of the narrative which is being listened to - and heard - is […] the process and the place wherein the cognizance, the ʻknowingʼ of the event is given birth to”22. Inoltre, la testimonianza richiede una relazione di collaborazione tra narratore e ascoltatore, il quale finisce con l’assumere un ruolo cruciale nella creazione di questa nuova conoscenza: “The testimony to the trauma […] includes its hearer, who is, so to speak, the blank screen on which the event comes to be inscribed for the first time”23. Dando ascolto alla testimonianza, egli diviene partecipe del trauma, condividendo la lotta del testimone con i ricordi del passato traumatico e rivivendoli parzialmente in se stesso. Ciononostante, egli non deve diventare a sua volta una vittima ma preservare la propria posizione ed il suo punto di vista; egli deve certamente prestare ascolto alla storia con empatia, ma non farla propria, rispettando l’alterità dell’esperienza narrata senza incorrere nell’identificazione con la vittima. Egli deve capire che il testimone non ha alcun ricordo o conoscenza pregressa dell’evento traumatico e che, al contrario, li teme e li rifiuta, preferendo rifugiarsi nel silenzio. L’ascoltatore deve essere in grado di riconoscere e rispettare questo silenzio in quanto esso stesso parte integrante della testimonianza, sapendo aspettare il momento in cui il testimone intende ristabilire il contatto. Inoltre, egli deve impedire che le informazioni già in suo possesso, siano esse di tipo storico o psicoanalitico, ostacolino l’ascolto e portino a conclusioni affrettate. Egli deve pertanto sapersi porre sia come una guida sia come un compagno in quel viaggio verso un territorio inesplorato che la testimonianza rappresenta e che il sopravvissuto non può compiere da solo. Nel processo della testimonianza non occorre conoscere altro se non ciò che il testimone dice, ciò che importa è

22

Ibidem.

23

(15)

the situation of discovery of knowledge – its evolution, and its very happening. Knowledge in the testimony is […] not simply a factual given that is reproduced and replicated by the testifier, but a genuine advent, an event in its own right24.

Laub nota come spesso nella pratica psicoanalitica egli debba venir riconosciuto dal paziente come “one who knows”25 prima che il processo della testimonianza possa avere davvero inizio. Questo avviene quando l’ascoltatore riesce a percepire ciò che va al di là del contenuto manifesto della conversazione, all’interno della quale sembrano frequentemente svolgersi due dialoghi simultanei, uno esplicito ed uno nascosto. L’ascoltatore deve essere capace di individuare gli indizi che consentono al dialogo sotterraneo di emergere; in particolare, egli deve essere in grado di cogliere quella sorta di parola d’ordine che viene pronunciata dal paziente e tramite la quale egli identifica se stesso, richiedendo all’ascoltatore il riconoscimento reciproco. Tale parola d’ordine, riecheggiata nelle risposte che l’ascoltatore dà al paziente, diviene il segnale che la conoscenza del trauma è condivisa e che quest’ultimo può parlare.

All’inverso, l’atto del raccontare potrebbe rivelarsi a sua volta profondamente traumatizzante qualora il testimone parlasse del trauma senza essere veramente udito o preso sul serio. In tal caso, il racconto stesso potrebbe essere vissuto come un ritorno dell’evento traumatico e l’assenza di un ascoltatore empatico a cui rivolgersi ed in grado di riconoscere la realtà dei propri ricordi finirebbe col mettere a tacere la storia.

Anche il timore che il fato colpisca di nuovo svolge un ruolo determinante nell’incapacità di parlare del trauma. Il paziente preferisce rifuggire la conoscenza ed il dolore, ma così facendo è costretto a rivivere l’esperienza traumatica come un ricordo intrusivo, sia attraverso un effettivo ritorno del trauma che attraverso la sua involontaria ripetizione, la quale finisce col suscitare nel soggetto traumatizzato l’impressione di essere perseguitato da un destino catastrofico.

L’individuo continuerà perciò a vivere nella morsa di un’esperienza che continua a sfuggirgli e a subirne le incessanti reiterazioni. Per annullare la stretta di un evento che non può essere né conosciuto né dimenticato ma soltanto ripetuto si deve dare inizio ad un processo terapeutico, il quale consiste nella costruzione

24

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di una narrazione che consenta al testimone di esternare il trauma e di trasmetterne la storia a qualcuno al di fuori di sé, per poi poterla finalmente riaccogliere al proprio interno.

Pertanto, la testimonianza non rappresenta semplicemente un mezzo di trasmissione storica ma può divenire lo strumento per una guarigione. Il racconto del sopravvissuto non offrirà comunque un resoconto completo e totalizzante degli eventi. Al contrario, trasformare l’esperienza del trauma in una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine si rivelerà un’impresa ardua, dato che per il soggetto traumatizzato l’esperienza del trauma è ancora attuale e onnipresente, sottraendosi ad ogni collocazione di tipo temporale o spaziale e rifuggendo la coerenza e la chiusura:

The traumatic event, although real, took place outside the parameters of “normal” reality, such as causality, sequence, place and time. The trauma is thus an event that has no beginning, no ending, no before, no during, no after […] Trauma survivors live not with memories of the past, but with an event that could not and did not proceed through to its completion, has no ending, attained no closure, and therefore, as far as its survivors are concerned, continues into the present and is current in every respect26.

Secondo Laub lo spazio più idoneo alla ricostruzione della storia del trauma è quello del lavoro psicoanalitico. A suo avviso, una situazione simile a quella della terapia psicoanalitica si viene però a creare anche nel processo delle testimonianze video dei superstiti dell’Olocausto, dove al rapporto tra analista e paziente si sostituisce quello tra intervistatore e sopravvissuto. In entrambi i casi, si viene ad istituire una sorta di contratto tra narratore ed ascoltatore, nel quale quest’ultimo si pone sia come guida che come accompagnatore del primo per l’intera durata della testimonianza:

Implicitly, the listener says to the testifier: “For this limited time, throughout the duration of the testimony, I’ll be with you all the way, as much as I can. I want to go wherever you go, and I’ll hold and protect you along this journey. Then, at the end of the journey, I shall leave you”27.

Perché la testimonianza del trauma possa aver luogo, la partecipazione totale di un ascoltatore è invero essenziale: i testimoni parlano a qualcuno, le

26

Ivi, p. 69.

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testimonianze non possono avvenire in solitudine. La presenza dell’ascoltatore deve essere discreta ed autorevole al tempo stesso: se da un lato deve rispettare i silenzi dell’enunciatore e saper cogliere gli indizi quando questo intende ricominciare a parlare, dall’altro deve essere in grado di incoraggiarlo a comunicare. Poiché il ricordo del trauma ritorna in frammenti disgiunti, l’analista/intervistatore deve saperli accogliere dentro di sé ed agire risolutamente nell’unire i vari tasselli, senza però cedere alla tentazione di interpretazioni troppo frettolose o riduttive. Egli deve riuscire a guardare oltre i frammenti della memoria e a legarli insieme, stabilendo così catene più ampie di riflessione ed associazione all’interno delle quali possono improvvisamente emergere reminiscenze latenti.

Il processo della testimonianza è una battaglia senza fine. C’è, in ogni sopravvissuto, un bisogno essenziale di raccontare e, così facendo, di venire a conoscenza della propria storia, liberandosi dei fantasmi del passato. Occorre infatti conoscere le verità sepolte dentro di sé per poter andare avanti con la propria vita. Tuttavia, non sembrano mai esserci le parole appropriate o abbastanza tempo o l’ascoltatore giusto per raccontare una storia che non può essere tradotta in pensiero, memoria o discorso.

Più a lungo la storia rimane non detta, tanto più distorta appare nella concezione che di essa ha il sopravvissuto, tanto che egli può arrivare a dubitare che gli eventi si siano realmente verificati. È nell’incontro tra il sopravvissuto e l’ascoltatore che si gettano le basi per riaffermare la veridicità del passato e portare ad una sua assimilazione nel presente.

Sulla base delle molte testimonianze di sopravvissuti all’Olocausto da lui intervistati per il progetto del Video Archive for Holocaust Testimonies di Yale, Laub giunge ad un’interessante conclusione:

what precisely made a Holocaust out of the event is the unique way in which, during its historical occurrence, the event produced no witnesses. Not only, in effect, did the Nazis try to exterminate the physical witnesses of their crime; but the inherently incomprehensible and deceptive psychological structure of the event precluded its own witnessing, even by its very victims28.

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Egli nota come durante il periodo della persecuzione degli ebrei le diverse figure che avrebbero potuto porsi come potenziali testimoni dell’evento (non soltanto le stesse vittime ma anche, ad esempio, i loro amici o vicini di casa, istituzioni come la polizia o i tribunali, la comunità internazionale e persino i persecutori) non riuscirono in realtà ad assumere questo ruolo.

Secondo Laub, a spiegare il fatto che la storia abbia avuto luogo senza un testimone non è solo l’eccezionalità della situazione o il disinteresse del mondo circostante ma anche “the very circumstance of being inside the event”29.Troppo incomprensibile per venire assimilato mentre accadeva, l’Olocausto rese impensabile l’idea stessa che potesse esistere un testimone, ossia qualcuno che fosse in grado di rimanere abbastanza lucido da riuscire a collocarsi al di fuori del quadro disumanizzante all’interno del quale si stava svolgendo l’evento e di assumere un punto di vista indipendente dal quale poterlo osservare.

La realtà storica dell’Olocausto distrusse ogni possibilità di comunicare il trauma dal suo interno. Negando l’esistenza di un legame empatico tra gli esseri umani, il sistema messo in atto dai nazisti privò le proprie vittime di un “tu” a cui rivolgersi nella speranza di essere riconosciute come individui ed ascoltate, eliminando finanche la possibilità di immaginare un “Altro” a cui poter indirizzare il proprio racconto. In questo modo, venne meno persino la capacità di riconoscere e di mantenere un legame empatico con l’Altro dentro di sé, cosicché la propria esperienza non era più comunicabile neppure a se stessi e, di conseguenza, forse non aveva mai avuto luogo, giacché l’evento che non ha un testimone della sua verità essenzialmente non esiste.

Laub prosegue osservando come non solo l’imperativo storico di portare testimonianza dell’evento non potesse essere soddisfatto durante il suo svolgimento, ma anche come sia stato necessario il trascorrere di un certo lasso di tempo affinché il silenzio intorno all’Olocausto venisse superato:

It is not by chance that […] testimonies – even if they were engendered during the event – become receivable only today; it is not by chance that it is only now, belatedly, that the event begins to be historically grasped and seen. I wish to emphasize this historical gap which the event created in the collective witnessing30.

29

Ivi, p. 81.

30

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Il compito di dare testimonianza non poteva essere assolto prima, poiché la totale alterità dell’evento andava oltre ogni limite della comprensione e dell’immaginazione umana, non consentendone l’integrazione in alcun schema di significato conosciuto.

Imprese come quella del Video Archive for Holocaust Testimonies di Yale rappresentano il tentativo di consentire ai sopravvissuti di testimoniare, sebbene retrospettivamente, la propria esperienza, fornendo loro la possibilità di rivivere l’evento alla presenza di un Altro a cui rivolgersi. Un simile sforzo tenta, da una parte, di ovviare alla mancanza di testimonianze storiche e, dall’altra, va incontro all’esigenza del sopravvissuto di trovare un ascoltatore per la propria storia. Paradossalmente, è proprio quest’ultimo a divenire il primo testimone dell’Olocausto, addirittura prima del sopravvissuto stesso. Nell’incontro tra l’ascoltatore/intervistatore ed il narratore si realizza una condivisione della responsabilità della testimonianza che consente al superstite di portare a termine il proprio compito senza doverne sopportare più il peso da solo.

Il progetto dell’archivio video può dunque essere considerato come uno strumento utile a ricostituire retrospettivamente il testimone mancante durante l’evento. In questo modo, la testimonianza stessa finisce col costituire un vero e proprio evento, un recupero della storia che Laub definisce come “historical retroaction”31. Pertanto, la testimonianza rappresenta il processo tramite il quale il narratore/sopravvissuto reclama retroattivamente la propria posizione come testimone e rientra in possesso della propria storia, ricostituendo il “tu” dentro di sé e, quindi, la possibilità di un ascoltatore interno.

Rientrare in possesso della propria storia attraverso l’atto della testimonianza rappresenta per Laub una forma d’azione necessaria per apportare un cambiamento e completare il processo di guarigione: l’evento deve essere rivendicato, poiché, anche se rimosso con successo, gioca un ruolo decisivo nel modo in cui il sopravvissuto sceglie di vivere.

L’accento posto da Laub sull’impossibilità di testimoniare l’evento dal suo interno e sul valore retroattivo della testimonianza richiama chiaramente il

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modello di ritardo temporale del trauma descritto da Caruth, che a sua volta sottolinea l’importanza di trovare qualcuno a cui indirizzare la propria storia: “the history of a trauma, in its inherent belatedness, can only take place through the listening of another”32.

Tuttavia, il risalto dato alla figura dell’ascoltatore ha sollevato perplessità in alcuni critici come Dominick LaCapra, il quale mette in evidenza i rischi che ascoltare (o leggere) un racconto del trauma comporta. In particolare, egli stabilisce una distinzione tra due tipi di reazione possibili, l’empatia e l’identificazione33: nel primo caso, al riconoscimento di un legame con l’altro si associa anche quello della sua alterità, mentre nel secondo il confine tra sé e l’altro viene meno e l’ascoltatore cade vittima di un trauma secondario.

Tale suddivisione genera una riflessione sulla possibile trasmissibilità del trauma da un individuo all’altro, che finisce col ripercuotersi anche sulla narrativa del trauma. La visione di Laub della testimonianza come progetto congiunto può infatti essere collegata al processo della lettura, che necessariamente implica una relazione tra autore e lettore che tende a favorire l’immedesimazione da parte di quest’ultimo. Pur riconoscendo l’importanza di un atteggiamento empatico nel cercare di comprendere la vittima di eventi traumatici, LaCapra mette in guardia rispetto ad un’identificazione con il sopravvissuto fino al punto di arrivare ad una fusione e diventare così una vittima surrogata. L’atteggiamento da lui raccomandato è quello di un “empathic unsettlement”34 che, pur riconoscendo le sofferenze del testimone, impedisca di appropriarsi dell’esperienza altrui o di confondere la propria voce con quella dell’altro. Piuttosto, sarà interessante considerare la posizione del lettore come testimone secondario, attivo nel mettere insieme i vari tasselli e frammenti che costituiscono il racconto del trauma.

32

Caruth, “Trauma and Experience”, cit., p. 11.

33

LaCapra, Writing History, Writing Trauma, cit., p. 102 e passim.

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1.2 Trauma e letteratura

Per LaCapra “writing trauma is a metaphor”35, poiché il trauma è caratterizzato da un eccesso che è irrappresentabile e difficile da concettualizzare. Di conseguenza, esso mette a dura prova la letteratura e il linguaggio, che si dimostrano insufficienti e inadeguati a comunicarlo. Sorprendentemente, però, la risposta giusta non è il silenzio ma proprio il linguaggio viene posto in risalto come ciò che può curare il soggetto traumatizzato. Sebbene non condivida l’enfasi posta da Caruth sul ruolo privilegiato della letteratura come spazio di rappresentazione del trauma storico, egli riconosce che l’arte, a differenza della storiografia, grazie alla non referenzialità del proprio discorso, può trovare modalità alternative di esplorazione del trauma, che divergano dalla rappresentazione mimetica tradizionale.

La paradossalità del rapporto tra il trauma ed il linguaggio è sottolineata anche da Anne Whitehead, che in apertura del volume Trauma Fiction36 nota la profonda contraddizione intrinseca al termine stesso: se, infatti, il trauma è costituito da un evento che rifugge la comprensione ed oppone resistenza ad ogni tentativo di rappresentazione, come può essere riprodotto in un’opera narrativa?

In Trauma Fiction Whitehead indaga il modo in cui gli autori contemporanei affrontano il tema del trauma e ne inglobano le strutture nelle loro opere. In particolare, esamina il modo in cui il tentativo di imitarne gli effetti ed i sintomi si ripercuote sulla forma narrativa, individuando le caratteristiche stilistiche principali di questo nuovo genere. In più, la scelta dell’autrice di introdurre i concetti chiave della teoria del trauma congiuntamente alla discussione dei romanzi da lei analizzati riflette il profondo legame che, a suo avviso, intercorre tra la trauma theory e la letteratura.

La trauma fiction emerge sullo sfondo di tre contesti strettamente collegati tra loro, ossia quello postmoderno, quello postcoloniale e quello postbellico.

La narrativa del trauma ha in comune con quella postmoderna l’interesse per la memoria e per la Storia. Con le sue forme e tecniche innovative, la letteratura postmoderna critica la nozione di Storia intesa come grand narrative e richiama

35

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l’attenzione sulla complessità della memoria. Inoltre, entrambe condividono la tendenza a spingere le tecniche narrative tradizionali al limite. Nel mettere alla prova i confini formali, la trauma fiction cerca di mettere in evidenza le limitazioni di qualsiasi racconto, sia esso letterario o storico, e di suggerire l’impatto sconvolgente dell’evento traumatico.

La letteratura postcoloniale attira l’attenzione sul fatto che i racconti della Storia ufficiale riflettono il punto di vista di determinati gruppi o ideologie al potere. Gli scrittori postcoloniali cercano di portare alla consapevolezza pubblica storie precedentemente ignorate o passate sotto silenzio. La narrativa del trauma si interseca con quella postcoloniale nell’interesse per il recupero della memoria dei dimenticati e degli oppressi, di quelle minoranze o gruppi che rimangono esclusi dai racconti collettivi della Storia, contribuendo così ad un ripensamento della rappresentazione storica da un punto di vista etico.

Uno dei temi più frequenti nella narrativa contemporanea è quello della guerra e dei suoi effetti. Comunque, sono soprattutto la seconda guerra mondiale e l’Olocausto a dominare l’immaginario contemporaneo. In particolare, quest’ultimo ha rappresentato un punto di rottura nella continuità storica che ha complicato il rapporto tra passato e presente. La trauma fiction condivide con la teoria del trauma la convinzione che l’Olocausto non possa essere né compreso utilizzando schemi di conoscenza tradizionale né rappresentato tramite narrazioni storiche o (auto)biografiche convenzionali. Entrambe si impegnano perciò nella ricerca di nuove modalità di referenzialità.

Nella sua analisi, Whitehead riprende in modo particolare la concettualizzazione del trauma di Caruth e nota come l’impatto scioccante ed inassimilabile del trauma si rispecchia nei romanzi contemporanei soprattutto a livello formale. Il trauma è caratterizzato da una letteralità che lo rende resistente alle strutture narrative e alle cronologie lineari. Se può essere sottoposto a formulazione narrativa, allora necessita di una forma letteraria che si discosti il più possibile da una progressione rettilinea e che riproduca invece il collasso dell’ordine cronologico tipico dell’esperienza traumatica. Il racconto sarà quindi caratterizzato dall’anacronia, con l’uso di analessi, prolessi e ripetizioni e con l’irruzione di un tempo nell’altro. Gli effetti della latenza intrinseca al trauma

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possono essere imitati riproducendo l’incertezza, l’incompletezza e la frammentarietà che contraddistinguono le testimonianze dei sopravvissuti ad eventi catastrofici. Inoltre, si dovrà scegliere una forma narrativa che non ricerchi la coerenza e la chiusura, ma che al contrario conservi tracce della disgregazione dei concetti di tempo, spazio e causalità operata dal trauma.

Il reale non può più apparire direttamente o essere espresso in modo convenzionale. Romanzi che rappresentano il trauma impiegano spesso elementi del soprannaturale e del fantastico: la figura del fantasma, ad esempio, può suggerire lo spettro di un passato latente ma pronto a materializzarsi e a ritornare ad ossessionare l’individuo o la comunità.

Nella sua temporalità disgregata, il trauma è inseparabile per Freud dallo spettrale e simboleggia la natura irrisolta del passato. Per Caruth il trauma assume proprio una qualità di ossessione e di persecuzione. Il fantasma rappresenta un’appropriata personificazione della disgregazione dell’ordine temporale e del riaffiorare del passato nel presente. In molti romanzi che affrontano il tema del trauma, le tracce di eventi passati irrisolti o i fantasmi di coloro che sono morti troppo improvvisamente per essere compianti in modo adeguato ritornano a perseguitare coloro che cercano di andare avanti con la propria vita. I fantasmi incarnano una visione della Storia come revenant, con gli effetti che i traumi della storia recente dimostrano ancora di avere sulle generazioni successive. Nella narrativa contemporanea, la ghost story è ripensata come modalità di esplorazione della natura del trauma inteso come possessione psicologica. Resta però da vedere se i fantasmi del passato possano essere esorcizzati.

Nel tentativo di trovare una forma adeguata alla rappresentazione della realtà traumatica, Michael Rothberg37 invita a riconsiderare le categorie di realismo, modernismo e postmodernismo non in termini di sequenzialità ma di simultaneità. Egli utilizza il termine “traumatic realism” per indicare una gamma di strategie formali innovative basate sull’ibridazione di genere e che oscillano tra il superamento della mimesi e l’impossibilità di rinunciarvi. Di fronte all’eccesso che caratterizza il trauma, gli autori spingono il progetto realistico ai propri limiti,

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per suggerire che la conoscenza traumatica non può mai essere comunicata o recuperata senza distorsioni.

Anche Whitehead, pur sostenendo che i tratti distintivi della trauma fiction sono gli stessi che si ritrovano anche in altri romanzi contemporanei, sottolinea come questi siano sottoposti ad una intensificazione: la narrativa del trauma utilizza gli stessi mezzi di quella postmoderna e postcoloniale (ossia l’intertestualità, il risalto dato alla figura del narratore, la particolare disposizione di fabula e intreccio) ma lo fa in modo più accentuato.

Tra le tecniche letterarie più ricorrenti nella trauma fiction Whitehead individua l’intertestualità, la ripetizione e la frammentazione della voce narrativa.

Il ricorso all’intertestualità contribuisce a ricreare la sintomatologia del trauma disgregando l’ordine temporale. L’emergere di echi di opere del passato nel testo contemporaneo suggerisce come le sue tracce possano riaffiorare nel presente come ricordi rimossi o dimenticati. Inoltre, i personaggi dei romanzi del trauma possono ricalcare le orme di loro predecessori letterari cadendo preda di una coazione a ripetere che li porta a replicare la sorte di un altro personaggio imitandone gli errori e la caduta e seguendo, non più padroni delle proprie azioni, un destino ineluttabilmente predeterminato da una trama altrui.

L’intertestualità può però anche essere sfruttata per fornire un nuovo punto di vista rispetto a quello offerto dal testo canonico, sull’esempio della letteratura postcoloniale che, nel rivisitare narrazioni precedenti, ne pone in evidenza aspetti fino a quel momento trascurati, portando in primo piano il punto di vista delle minoranze. Inoltre, il recupero di voci marginalizzate attraverso l’intertestualità mette in risalto la dimensione etica della trauma fiction, la quale registra e testimonia ciò che il racconto della Storia dimentica o tralascia.

L’intertestualità può anche agire all’interno del macrotesto di un singolo autore, con il risultato che si crea un senso d’infinita ripetizione, come se l’atto stesso di scrivere fosse posseduto da una forza demoniaca.

Tra gli strumenti più efficaci nell’imitare gli effetti del trauma c’è anche la ripetizione. Essa ne riproduce la sintomatologia, evocando il continuo ripresentarsi di un evento che spezza la progressione narrativa e può manifestarsi

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a diversi livelli (nel lessico, nell’utilizzo di immagini ricorrenti e nella trama), rivelandosi una delle tecniche di intensificazione più utili.

La ripetizione reca in sé una forte ambivalenza, rimanendo sospesa tra il trauma e la catarsi. Come già accennato in precedenza, nella vita di chi ha subito un trauma esiste una certa tendenza a riprodurre atti e situazioni spiacevoli del passato sviluppando una coazione a ripetere, poiché l’individuo, non possedendo coscientemente il ricordo di quanto è accaduto, è costretto a ripeterlo come un’esperienza attuale.

Secondo quanto teorizzato da Freud in Al di là del principio di piacere, il trauma è causato da una breccia nella barriera protettiva dell’io deputata a difendere l’apparato psichico da un quantitativo eccessivo di stimoli esterni. Una tale irruzione può verificarsi quando l’io è colto impreparato di fronte al pericolo posto da una massa di eccitamenti dannosi e cioè quando non ha sviluppato una quantità preliminare d’angoscia sufficiente a consentirgli di dominare gli stimoli e ad impedire l’insorgere dello spavento. In questo contesto, il padre della psicoanalisi spiega il ritorno del trauma come il tentativo di controllare, seppur retrospettivamente, gli stimoli sviluppando quella misura d’angoscia la cui mancanza aveva provocato il trauma.

Nel suo aspetto negativo, la ripetizione ripropone perciò il passato come se fosse pienamente presente, con il soggetto che rimane intrappolato nella morsa paralizzante del trauma. Nel contempo, essa può però anche assumere una valenza positiva, in quanto fase necessaria di un processo di cura che mira al ricordo e alla catarsi. A tale proposito LaCapra, a sua volta rifacendosi alla distinzione di Freud tra malinconia e lutto, divide tra acting out e working through38. Nel primo caso, il soggetto traumatizzato è posseduto dal passato e non è in grado di distinguerlo dal presente, con ripercussioni sul futuro. Nel secondo, l’individuo riesce invece a riformulare il passato come tale e a riconoscere che ciò che è accaduto precedentemente è sì collegato, ma non identico al qui e ora, lasciando intravedere la possibilità di un prossimo rinnovamento. La nozione di acting out può quindi essere accomunata a quella di memoria traumatica, mentre il concetto di working

through può essere accostato a quello di memoria narrativa.

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Pur condividendo l’idea che verbalizzare il trauma sia un processo di per sé terapeutico, LaCapra dubita che esso possa essere elaborato in modo completo e totale. In particolare, egli non ritiene che quella tra acting out e working through sia una separazione netta, ma che al contrario le due fasi interagiscano tra di loro e siano parte di uno stesso processo. Inoltre, egli considera la fase di ripetizione compulsiva e ossessiva dell’acting out necessaria e in una certa misura inevitabile, mentre vede nel working through un processo desiderabile ma non del tutto diverso né tantomeno risolutivo: esso implica senz’altro l’acquisizione di una certa distanza rispetto al passato ma non la possibilità di trascenderlo completamente. Dal punto di vista della loro rappresentazione letteraria, egli nota come l’acting out sia solitamente associato a forme che evitano l’armonizzazione e la chiusura mentre il working through viene identificato con il suo opposto. A suo avviso, invece, entrambi comportano diverse modalità di ripetizione: se il primo è caratterizzato da una ripetizione compulsiva, il secondo implica una ripetizione con una differenza significativa e non è comunque riducibile ad uno sviluppo lineare, teleologico e diretto.

In quest’ottica, la tecnica della ripetizione può essere sfruttata per evocare un movimento che, come quello del trauma, oscilla sempre tra il progresso ed il regresso, tra l’avanzamento ed il ritorno e che a livello narrativo si dispiega in una tensione tra il desiderio di raggiungere il finale della storia e quello di procrastinarlo il più a lungo possibile.

Il ripresentarsi di immagini o motivi chiave può stabilire una rete di corrispondenze che evoca la sensazione di essere perseguitati dalla sorte. Tramite l’impiego della ripetizione o della corrispondenza, anche l’episodio più banale può assumere una connotazione perturbante o traumatica; il verificarsi di coincidenze come, ad esempio, il ricorrere insistito dello stesso numero o della stessa data può suggerire l’esistenza di uno schema sottostante predeterminato, con il personaggio che non controlla più la trama ma ne viene dominato.

Secondo la concezione freudiana, il perturbante consiste nel ritorno di un oggetto che, sebbene una volta ci fosse familiare, è stato sottoposto a rimozione. Esso oscilla così tra il ricordo e la dimenticanza ed è fonte di spavento perché agisce come ripetizione involontaria, suscitando un’impressione di ineluttabilità.

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Un oggetto diviene perturbante quando, nonostante contenga tratti a noi un tempo familiari, ne assume anche di ambigui ed inconsueti, con una connotazione minacciosa. Quando l’individuo si trova posto di fronte a questa combinazione di familiare e non familiare che non sa risolvere, l’esperienza diventa traumatica. Una strategia particolarmente utile per ottenere questo tipo di effetto in un’opera letteraria consiste, ad esempio, nell’introduzione della figura del doppio o del

Doppelangänger.

Un’altra tecnica indicata da Whitehead come efficace nel riprodurre la sintomatologia del trauma è la frammentazione della voce narrativa, che consente di riflettere a livello formale quella che contraddistingue il ricordo traumatico. Ogni personaggio può apportare il proprio punto di vista, sottolineando così come la ricostruzione del passato si basi su diverse versioni che dimostrano una certa flessibilità della memoria. A tale proposito, l’autrice si ricollega alla differenziazione tra memoria traumatica e memoria narrativa effettuata da Janet: la molteplicità delle narrazioni serve perciò ad evidenziare la necessità che il passato venga narrato più volte ed in modo differente per poter essere elaborato. In più, tale pluralità di voci allude anche alla dimensione collettiva del trauma e al fatto che il processo di guarigione si fonda su un insieme di testimonianze.

Infine, a conclusione della sua analisi, Whitehead accosta la distinzione da lei effettuata all’interno dell’opera tra tema e stile alla possibilità di individuare una divisione tra contenuto e forma del trauma: invero, esso viene solitamente concettualizzato in termini o di un evento specifico o della reazione sintomatica a quell’evento. Tale distinzione apre a domande riguardo la vera natura del trauma stesso, collocandolo, al pari della letteratura, a metà strada tra contenuto (evento) e forma (reazione), facendo così del mezzo letterario uno spazio che, benché incerto, si rivela particolarmente produttivo ed idoneo alla sua rappresentazione.

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Capitolo 2

Il macrotesto swiftiano

Graham Swift è nato a Londra il 4 maggio 1949. Figlio di un funzionario pubblico, nel 1970 si è laureato in inglese a Cambridge, per poi intraprendere il dottorato di ricerca presso l’università di York che, tuttavia, ha abbandonato nel 1973 senza aver conseguito il titolo, poi conferitogli ad honorem dalla stessa università nel 1998. Dopo aver trascorso un anno in Grecia, ha insegnato inglese a Londra per una decina d’anni ed è divenuto uno scrittore a tempo pieno solo dopo la pubblicazione del suo terzo romanzo, Waterland (1983), considerato dalla critica il suo capolavoro e il termine di paragone per tutta la sua produzione successiva.

L’esordio come romanziere risale al 1980 con la pubblicazione di The

Sweet-Shop Owner, seguito nel 1981 da Shuttlecock. Nel 1982 pubblica Learning to Swim and Other Stories, una raccolta in cui riunisce racconti già apparsi in

precedenza su diverse riviste letterarie come Punch, London Magazine e Stand. Dalla seconda metà degli anni Ottanta pubblica romanzi ad intervalli di tempo più ampi ma abbastanza regolari: Out of This World (1988), Ever After (1992), Last

Orders (1996), The Light of Day (2003), Tomorrow (2007). L’apparizione di Wish You Were Here, romanzo che verrà preso in analisi più avanti, risale al 2011; nel

2014 ritorna alla forma breve con la pubblicazione della raccolta England and

Other Stories, mentre il suo ultimo lavoro, Mothering Sunday: a Romance, è

uscito nel febbraio 2016.

Le sue opere sono state sempre accolte con attenzione dalla critica, che gli ha tributato importanti riconoscimenti: Waterland nel 1983 è stato selezionato per il Booker Prize, ha vinto il Guardian Fiction Award, il Winifred Holtby Memorial Prize e nel 1987 si è aggiudicato il Premio Grinzane Cavour in Italia; nel 1994

Ever After ha ottenuto il Prix du Meilleur Livre Étranger in Francia e nel 1996 Last Orders ha vinto il Booker Prize. Inoltre, da alcuni libri sono stati tratti dei

film: Shuttlecock (1991), Waterland (1992) e Last Orders (2001).

Swift ha anche curato, insieme a David Profumo, la pubblicazione di un’antologia sulla pesca in letteratura, The Magic Wheel (1985), e nel 2009 è

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uscito Making an Elephant: Writing from Within, che è quanto di più simile a un’autobiografia abbia pubblicato finora.

Ad un primo sguardo, l’opera di Swift non sembra essere perfettamente inquadrabile all’interno di una categoria precisa: se, da un lato, l’interesse per aspetti quali lo sviluppo del personaggio e l’esplorazione del quotidiano e del familiare la avvicinano al filone del romanzo realistico ottocentesco, dall’altro, per la ricercatezza a livello formale e la particolare attenzione per la dimensione metaletteraria del testo, essa appare piuttosto riconducibile all’ambito postmoderno.

Una parte della critica tende a considerare Swift come un autore che opera anacronisticamente all’interno della tradizione realista. A tale proposito, si è spesso rilevato come i suoi romanzi mostrino echi della produzione vittoriana, soprattutto in riferimento all’opera di Dickens, George Eliot e Hardy. Anche i personaggi di Swift, infatti, appartengono perlopiù al ceto medio-basso o, come in

Last Orders, al proletariato; l’evocazione di un’ambientazione rurale e provinciale

in Waterland trova i suoi precursori in Hardy e in Eliot e la fascinazione di Swift per la famiglia, e quella disgregata in particolare, rimanda di nuovo a Eliot e a Dickens.

Tuttavia, trattare i suoi testi soltanto come romanzi realisti tradizionali significherebbe fermarsi in superficie ed ignorare il fatto che Swift affronta sì temi e argomenti già rintracciabili nella narrativa ottocentesca, ma con una consapevolezza del tutto contemporanea. È infatti impossibile non riconoscere all’interno della sua opera un interesse particolare per la dimensione autoreferenziale del testo, per i meccanismi intrinseci alla narrazione stessa e per la sostanziale difficoltà di produrre un racconto attendibile di qualunque tipo.

In ciò, il macrotesto swiftiano mostra parecchi punti di contatto con la letteratura postmoderna, la quale sottolinea la natura artificiosa di qualsiasi racconto, compreso quello storico. Oltre a mettere in dubbio il rapporto tra realtà e testo letterario, essa pone infatti in discussione anche la distinzione tra History e

Story: sebbene si configurino come due diverse modalità di rappresentazione della

realtà, si rivelano entrambe dei costrutti culturali fondati sul linguaggio e sulla verosimiglianza, piuttosto che su qualche verità oggettiva. In particolare,

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