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L’origine del potere episcopale e pontificio

Capitolo 3. Analisi della filza n 289, Stephani Bertolini collectanea sacerdotii et

3.4 L’origine del potere episcopale e pontificio

Una delle questioni centrali del dibattito giurisdizionalista era quella relativa alle immunità e ai privilegi goduti dal clero: a causa del gran numero di chierici presenti in ogni nazione, gli Stati europei non potevano esercitare la loro legittima giurisdizione su una buona fetta della popolazione. La situazione era quella di “uno Stato dentro lo Stato”: il clero articolava la propria vita attorno a istituzioni concorrenti con quelle statali, sfuggendo dal controllo del sovrano temporale. Secondo i sostenitori delle teorie regaliste era necessario recuperare la giurisdizione sopra queste persone, che vantavano privilegi non ottenuti per volontà divina, ma per umana permissione. Fulgenzio Micanzio scrisse che i privilegi e le immunità ecclesiastiche erano di diritto divino solo per quanto riguardava le questioni spirituali, i privilegi temporali erano invece frutto di una licenza civile450; pertanto era possibile per lo Stato intervenire nella materia. Micanzio riprese la linea già tracciata dal suo maestro Sarpi, che nelle Considerazioni

sopra le censure aveva affermato essere diritto del sovrano la concessione di privilegi e

immunità, deroghe rispetto al potere del magistrato ma non rispetto all’autorità regia; infatti, nella distribuzione di privilegi i sovrani non avevano mai rinunciato alla loro giurisdizione suprema. Sarpi aveva portato come argomenti in suo favore alcuni passi dell’Antico Testamento, dove si affermava che «re piissimi» quali David, Salomone, Ioas, Ezechia e Iosia, avevano comandato e giudicato i sacerdoti451. Se anche

l’ordinamento statuale del popolo giudeo (dove la legge era data da Dio452) prevedeva che il potere regio fosse superiore a quello sacerdotale, allora il fondamento dell’esenzione non poteva essere divino453. In secondo luogo, Sarpi faceva notare che se davvero tali diritti goduti dal clero fossero stati di matrice divina, allora in tutti i paesi avrebbero dovuti essere i medesimi; i fatti mostravano, però, una situazione differente.

«Chi può dubitare che l’esenzioni ecclesiastiche siano concessioni dei Principi, se si troncano le leggi e privilegi loro e si vedono non concesse tutte in un tempo, ma a passo per passo?»454.

Perciò le esenzioni ecclesiastiche non potevano essere definite di diritto divino a meno che in tale appellativo non si volesse includere anche lo ius humanum455. Soltanto la potestà regia aveva l’autorità di concedere delle immunità dalla giurisdizione dei tribunali secolari, permettendo ad una persona o ad una comunità di essere libera dalla giustizia secolare456. Essendo però delle concessioni, queste potevano essere revocate in qualsiasi momento.

«Poiché vien da Dio, et è a fine della sua gloria, l’esser civile di ciascuna repubblica o regno; per il che non si può senza peccato et offesa a Dio permettere che sia levata et usurpata la propria libertà, che è l’esser civile di ciascun prencipato»457.

451 Ibidem.

452 «L’elezione dei Giudei non riguardava se non […] lo Stato politico […] e di conseguenza le leggi». B.

Spinoza, Trattato, op. cit., p. 85.

453 ASFi, Reggenza, f. 289. 454 Ibidem (P. Sarpi). 455 Ibidem (P. Sarpi).

456 Ibidem (Z. B. Van Espen).

Le teorie regaliste avevano come fine il mantenimento dell’integrità del potere regio, «i diritti che caratterizzano essenzialmente la sovranità sono imprescrittibili. Il dividerli farebbe alterare la natura delle potestà civile»458. Per questo si affermava, ad esempio, che quella sovrana dovesse essere la più alta autorità presente all’interno di uno Stato, o che tale potestà dovesse essere così ampia da ammettere che il principe godesse di un diritto sulla proprietà privata dei sudditi maggiore di questi – in quanto ogni suddito possedeva un diritto esclusivo rispetto ai suoi pari, ma non al principe459. Se il compito dei regalisti era quello di rendere più saldo il potere regio, il compito del re era quello di tutelare l’integrità del potere secolare, e per farlo poteva utilizzare qualsiasi strumento. Il sovrano aveva pertanto il diritto di intervenire e di disciplinare la vita dei sudditi, in quanto tutti (indistintamente) erano posti sotto la sua potestà, e se da ciò conseguiva che gli ecclesiastici avevano meno di quanto in realtà gli spettasse, non era cosa rilevante.

«Gli ecclesiastici non tanto come ecclesiastici ma anco come cittadini si considerano nella Repubblica, sono soggetti alle leggi de Principi, se non sono stati esentati per concessione dello Stato»460.

Per Sarpi, quindi, era inconcepibile ritenere le immunità del clero di diritto divino. Se così fosse stato Dio avrebbe compiuto un abuso verso l’autorità regia, che per altro era stata da lui stesso costituita. Era evidente che i privilegi ecclesiastici in materia temporale trovassero la loro origine nel diritto del principe.

«Confesseremo ingenuamente che se Dio avesse esentato gl’ecclesiastici ogni atto dal qual si voglia Principe in contrario fatto, farebbe una usurpazione, et una offesa di Dio; ma aggiungeremo ben anco con licenza di coloro, che chiamano la loro esenzione de iure divino che se così fosse il Papa, non avrebbe potestà di sottometterli: perché li secolari non sarebbero capaci di esercitare per dispensa del Papa quello che Dio avesse proibito»461.

Anche Diego Covarrubias y Leiva (1512-77) e Pedro Jeronimo Cenedo (1540-1603) sostennero che l’esenzione dei chierici dalla giurisdizione laica ebbe luogo non per

458 ASFi, Reggenza, f. 289.

459 N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 2004, pp. 19-20. 460 ASFi, Reggenza, f. 289.

legge divina, ma per provvedimento umano462, in quanto in nessun passo del Nuovo

Testamento si afferma ciò463, ed «il Nuovo Testamento è la prima sorgente del diritto canonico»464. Giannone si espresse sulla questione nella sua Istoria civile, dove sostenne che sia il potere della Chiesa, che le immunità e i privilegi goduti dal clero, fossero frutto del diritto umano, e non di quello divino.

«Si è da loro [i chierici] acquistato di volta in volta per titoli umani, per concessioni di principi o per prescrizioni legittime, non già iure apostolico come dice San Bernardo Nec enim ille tibi dare, quod non habebat, potuit»465.

Alcune teorie curialiste affermavano che le immunità godute dall’alto clero fossero di origine divina in quanto costoro erano i successori degli apostoli, e l’apostolato era stato fondato da Cristo. Il problema era particolarmente complesso, e neppure il Concilio di Trento, dopo numerose sedute, riuscì a venirne a capo. La questione di ricercare quo iure stesse all’origine della figura del vescovo, scrisse Sarpi nell’Istoria, divise i presenti al Concilio tridentino in due fazioni: i sostenitori della tesi

de iure divino da quelli della tesi de iure pontificio. I primi affermarono che il pontefice

era vescovo al pari degli altri (non casualmente egli chiamava loro “fratelli”466) poiché non fu Pietro a ordinare vescovi gli apostoli, ma Cristo. Conseguentemente, i successori degli apostoli non possedevano una potestà pontificia, ma divina, come dimostrava il fatto che il pontefice non potesse togliere ad un vescovo l’autorità concessa al momento della consacrazione. Inoltre, argomentarono, fu Gesù Cristo a istituire i sacramenti, e pertanto chi li amministrava poteva essere scelto solo da lui467. Il secondo partito affermò che l’istituzione degli apostoli a vescovi fu personale, poiché l’unica persona a

462 Ibidem. L’opera del canonista spagnolo Pedro Jeronimo Cenedo (1540-1603) citata da Bertolini nella

filza n. 289 prende il titolo di Collectanea ad ius canonicum (1592).

463 Ibidem. Scrisse Covarrubias: «Quod nulla sit evangelice legis et novi Testamenti Lex, quae clericos a

iurisdictione Principum saecularium exemerit».

464 Ibidem. Si tratta di una citazione presente in diverse pagine della filza, riportata sempre nella colonna

di sinistra e priva di indicazioni bibliografiche.

465 P. Giannone, Istoria civile, op. cit., libro I, cap. XI. 466 P. Sarpi, Istoria, op. cit, p. 961.

cui Cristo diede la sua successione fu Pietro468. L’unico vescovo di diritto divino era

pertanto il pontefice, tutti gli altri traevano la loro autorità dal diritto pontificio. Il papa poteva infatti comandare su di loro, ingrandendo o rimpicciolendo le loro diocesi, trasferendoli, sospendendoli e giungendo persino a deporli469. Per concludere, fu ampiamente citato San Tommaso «qual dice in molti luoghi che ogni potestà spirituale depende da quella del papa et ogni vescovo debba dire: “Io ho ricevuto parte di quella pienezza”»470. Il Concilio di Trento non trovò una soluzione di comune accordo tra i

prelati e i teologi dei due schieramenti, semplicemente smise di dibattere della questione in seguito alla soluzione imposta nel 1562 da papa Pio IV, il quale affermò essere l’istituzione dei vescovi di origine divina una falsa opinione, poiché Cristo agiva solo per mezzo del pontefice471. Come rileva Prosperi, il riconoscimento all’episcopato di

una potestà di diritto divino avrebbe compromesso il processo di concentrazione del potere nelle mani del pontefice e avrebbe concesso ai vescovi un’eccessiva libertà.

I regalisti rifiutavano quindi di intendere i privilegi, le esenzioni e le immunità del clero come un diritto di natura divina poiché reputavano tutto ciò come una concessione del sovrano temporale. «Le privilège, l’exemption, l’immunité dont jouissent personnellement les ecclésiastiques dans les affaires temporelles ne proviennent en aucune manière des constitutions divines»472. Tuttavia, oggetto di discussione nei dibattiti tra regalisti e curialisti fu anche la questione concernente l’origine del potere pontificio. Nel libro V dell’Istoria civile del Regno di Napoli, Giannone scrisse che la potestà pontificia ebbe origine dal vuoto di potere politico causato dalle migrazioni

468 Gv. 20,21.

469 P. Sarpi, Istoria, op. cit., pp. 952-953. 470 Ivi, p. 953.

471 Ivi, p. 1021; A. Prosperi, Il Concilio di Trento: un’introduzione storica, Torino, Einaudi, 2001, p. 81.

Oggigiorno la Chiesa di Roma riconosce ai vescovi un’origine di diritto divino. Infatti, il canone trentacinquesimo del Codice di Diritto Canonico recita che «per diritto divino il Vescovo è posto a capo di una delle porzioni di Popolo di Dio in quibus et ex quibus vive e si manifesta la Chiesa universale».

472 «Il privilegio, l’esenzione, l’immunità di cui beneficiano personalmente gli ecclesiastici negli affari

temporali non provengono in alcuna maniera dalle costituzioni divine». ASFi, Reggenza, f. 289 (D. Jousse).

barbariche, che portò la Chiesa ad intraprendere una campagna espansionistica. La possibilità per la Chiesa di potersi espandere era stata offerta, in tempi precedenti, da Costantino, il quale assegnando a Roma un primato su Costantinopoli (Constitutum

Constantini, 315) e convertendosi al Cristianesimo, aveva volto la Santa Sede verso la

sua rovina473. Come precedentemente accennato, l’epoca di Costantino, che costituì una fase cruciale nei rapporti tra impero e Chiesa, fu sottoposta per lungo tempo a una letteratura poco imparziale, che rappresentò Costantino come l’archetipo del re cattolico che privilegiava la sua comunità religiosa in sfavore delle altre. Secondo Giannone, dando alla Chiesa la possibilità di potersi espandere, questa si era proiettata verso i beni terreni, e si era avviata sulla strada della corruzione morale. La condanna di Giannone si articolò in altri tre capi d’accusa in quanto, egli affermò, fu in epoca costantiniana che si crearono le differenze gerarchiche tra laici ed ecclesiastici, e tra basso clero e vescovi; avvenne l’articolazione della struttura ecclesiastica, che si sovrappose alla geografia imperiale (articolazione funzionale dal punto di vista politico-amministrativo); furono assegnati privilegi al clero e posizioni di superiorità ai vescovi474. La visione di Giannone dell’epoca costantiniana è stata oggetto di un parallelo con quella di Ludovico Antonio Muratori, da parte di Federica Melloni. Muratori non riteneva Costantino colpevole del declino della Chiesa, la quale divenne corrotta in epoca franca e normanna. Fu dalla crisi del diritto romano che ebbe origine il potere temporale della Chiesa, che portò alla costituzione di “un impero nell’impero”475. Il discorso di Muratori risultava essere privo di accenni religiosi e fondato solo sui fatti storici, una differenza notevole rispetto a Giannone, per il quale gli stessi accenni religiosi ebbero

473 P. Giannone, Istoria civile, op. cit., libro V, cap. IV.

474 F. Melloni, Costantino tra Francia e Italia. Il dibattito storiografico dei secoli XVII e XVIII,

Enciclopedia costantiniana, 2013.

un notevole peso nella valutazione di Costantino476. La distanza tra i due risulta essere

forte al punto che per Muratori Costantino poteva essere tratto a modello per il suo atteggiamento politico477.

Studi recenti, quali quelli svolti da Antonio Banfi, mettono in luce l’imparzialità di Costantino nel concedere privilegi ed immunità al clero. Banfi giustifica l’atteggiamento dell’imperatore asserendo che le politiche da lui attuate avevano il fine di non coinvolgere il foro secolare nelle diatribe tra confessioni cristiane; concedendo ai cristiani di essere giudicati da membri della propria comunità religiosa si evitava che l’impero venisse coinvolto nelle dispute interne al mondo religioso cristiano478.

La ricostruzione storica di Giannone, iniziata in epoca costantiniana, prosegue nei secoli successivi, quando

«i pontefici romani, divenuti potenti signori nel temporale per le donazioni fatte alla Chiesa di Roma da Pipino e da Carlo suo successore, cominciarono sopra i principi a stendere la loro potenza»479.

Giannone condannava questo allontanamento della Chiesa dalla sua configurazione originale. Allontanandosi dall’amministrazione di quei compiti meramente spirituali che Gesù Cristo le aveva assegnato e proiettandosi nella gestione degli affari temporali, la Chiesa aveva perso la sua vera natura e il suo originario fine.

«Si pensava con maggiore sollecitudine alle cose temporali che alle divine e sacre; e seguitando gli altri vescovi il loro esempio [dei pontefici], venne a corrompersi ed a mancare affatto l’antica disciplina»480.

Giannone aveva individuato come preciso momento storico in cui il pontefice di Roma iniziò ad esercitare il suo potere temporale l’epoca di Gregorio II (715-731). I rapporti tra questo e Leone III Isaurico (717-741)481 erano tesi a causa del dissesto economico

476 Ibidem. 477 Ibidem.

478 A. Banfi, A proposito di giurisdizionalismo, in La prassi, op. cit., p. 35. 479 P. Giannone, Istoria civile, op. cit., libro V, cap. IV.

480 Ibidem.

dell’impero, causato da un tentativo di riforma legislativa e da una lunga guerra contro gli arabi – che condusse Leone a chiedere un aumento delle tasse anche nei possedimenti papali della penisola. A questo evento, già carico di tensione, si sommò la richiesta dell’imperatore di ottenere una legittimazione pontificia della sua politica iconoclasta, messa in atto per ottenere la conversione degli ebrei presenti nel territorio bizantino. Il proposito di Leone era quello di raggiungere l’uniformità religiosa dello Stato. Il rifiuto di Gregorio II condusse Leone a minacciarlo di destituirlo; il pontefice rispose invitando laici e chierici a sollevarsi contro il loro sovrano (e ottenendo numerosi sostenitori, soprattutto in area romana).

«Questi, ancorché ad altro fine, pur vogliono che Gregorio avesse scomunicato Lione, avessalo deposto, comandato che non se gli pagasse il tributo, e quel che è più, che offerendosegli il principato de’ ribellanti Romani, l’avesse accettato; onde surse il dominio temporale de’ romani pontefici in Italia»482.

Gregorio, nonostante il sostegno degli abitanti nell’Italia bizantina, si rifiutò di deporre Leone, e si riconciliò con lui mediante il re dei longobardi Liutprando. La decisione dell’imperatore comportò il riconoscimento al papa di un potere pari a quello regio, la conferma, secondo Giannone, di un primato che Roma aveva acquisito nel corso dei secoli attraverso soprusi e abusi nei confronti del potere secolare. Giannone rifiutava quindi di riconoscere nel potere temporale pontificio un’origine divina, ed interpretò le vicende della Chiesa in una prospettiva puramente politica.

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